Feb. 24th, 2018

sidralake: (Default)
Cow-t, sesta settimana, Missione Leda.
Prompt: Tema Libero
Numero parole: 8063
Note: colonna sonora da tenere in loop: Saturn - Sleeping At Last


You were a comet and I lost it
Watching for comets, will I see you again?

[Watching for Comets - Skillet]






Keith provò un senso di déjà vu.

Aveva già vissuto quella scena. Tornare alla vecchia baracca nel deserto, sul far della sera, il sole un cerchio incandescente che bruciava la schiena. Si era strappato di dosso la divisa della Garrison Galaxy, macchiata dal sangue del galoppino che aveva preso a pugni quando gli avevano negato di sapere cosa fosse successo a Shiro.

Era stanco e tutto quello che aveva erano delle dita vuote da fissare, il petto che si sollevava furiosamente a ogni respiro. Era arrabbiato, ma sembrava un sentimento fondo, dilatato, come qualcosa che persisteva da molto tempo e a cui non c’era una soluzione. Non una che avesse potuto trovare da solo.

Keith.

Le volte in cui Keith aveva sentito il cuore battergli in gola erano state per colpa dell’adrenalina e per quella gamma di emozioni, davvero rare nei suoi diciassette anni, che sfuggivano al suo controllo e che di solito duravano troppo poco per farne tesoro. Ma quando si voltò, sulla soglia trovò una di quelle stesse emozioni, plasmata a forma di uomo. Col volto di Shiro, la luce del sole a incorniciarlo.

Se il suo respiro era stato frenetico per la collera, improvvisamente subì un alt e riprese soltanto quando Keith strinse le braccia intorno al più grande. Non si era nemmeno reso conto di aver annullato la distanza tra di loro.

« Sei tornato » fu tutto ciò che riuscì a dire, le dita tremanti che stringevano la stoffa della divisa e una commozione nella voce che era sia sollievo sia il timore di un sogno che diventa realtà. « Sei- »

Sì.

La mano tra i capelli gli fece pizzicare gli angoli degli occhi. Non si mosse se non dopo che quella stessa mano raggiunse la sua nuca per scivolare sulla guancia e invitarlo ad alzare lo sguardo.

Il sole continuava ad ardere dietro di loro. Era rosso, ma non era caldo. Bruciava come se i raggi fossero state lingue di fiamme, eppure l’ambiente era freddo a farci caso. Keith, in generale, sentiva freddo, anche lì nell’abbraccio di Shiro. Gli si strinse meglio addosso, senza timore di essere scostato, senza l’angoscia di essere scoperto. Erano soli, lì nella vecchia casa nel deserto. La Garrison poteva diventare un ricordo per entrambi dopo quello che era successo.

Keith guardò dritto in viso Shiro e sentì il petto faticare a tenere il ritmo.

« Sei tornato » ripeté, tenendo la guancia premuta in cerca di quel battito familiare e rassicurante.

Keith...

Il sorriso di Shiro era lo stesso di qualche mese prima. Era lì, chiedeva scusa in silenzio per doverlo lasciare indietro, gli assicurava che sarebbe andato tutto bene. Che un giorno sarebbero stati insieme ad attraversare quel cielo che di notte per loro era stato una mappa di sogni.

Eppure, la voce che Keith sentiva chiamarlo era più distante. Più debole, e…

« Shiro... stai bene? »

Lo osservò. Ogni centimetro del viso, degli occhi, della bocca. Il tempo era fermo. Il tramonto era immobile, la polvere nell’aria brillava senza fluttuare. Qualcosa in fondo a Keith, lì dove le mani nere del subconscio si aggrappano alla ragione, alla superficie, con la minaccia di una verità indesiderata, bisbigliò parole che si rifiutò di ascoltare. Parole che erano una litania giornaliera da diverso tempo. Un cantico senza rime ad abbellirlo, perché non c’era niente di bello nel presente.

L’abbraccio di Keith si serrò, si tese doloroso, anche se oltre il freddo il ragazzo non sentì nulla. Il senso del tatto era relativo, era una proiezione, una volontà che correva tra le sinapsi ma non raggiungeva le terminazioni nervose. L’odore era quello di un pezzo di memoria slavato dalla distanza.

« Shiro… » esalò il ragazzo mentre cominciava a capire e spingeva lontano i pensieri. L’unica cosa che vedeva era anche l’unica che gli bastava. Ma lo stava vedendo? « Dove sei? Come posso trovarti? »  

La luce del Sole si schiarì, divenne più intensa, accecante e tra le braccia Keith non aveva più nessuno, il cuore un tumulto disordinato.

« Shiro! » ed ebbe la sensazione fisica del nome sulle labbra.

Tutto divenne ombra, e l’ombra notte. Un cielo stellato, umido visto attraverso gli occhi lucidi.

« … no »

Richiuse le palpebre, e per un momento tirato a forza funzionò. Fu di nuovo lì, in un tramonto che sembrava una supernova in stasi, le pareti della baracca familiari, attraversate dalla luce, nell’occhio di un ciclone emotivo.

E Shiro era di nuovo lì, stagliato sulla cornice della porta.  

Keith lo chiamò ancora, il nome spinto a forza tra i denti serrati per arginare il dolore che stava distruggendo tutto. « Cosa devo fare!? Devo riportarti indietro! »

Shiro scosse la testa e il cuore di Keith si arrestò in un singhiozzo di battito, sospeso in gola.

Svegliati Keith.

« Dimmi dove posso trovarti! Come posso raggiungerti! »

Svegliati, è più importante.

Keith avrebbe voluto fare un passo verso di lui. Stringerlo così forte da lasciare il segno. Invece aprì gli occhi e le stelle di quell’ennesima notte cupa rimasero della stessa bellezza fulgida di qualcosa di eterno e passato.

La quiete e il rammarico durarono il tempo di un ringhio nel buio e Keith tornò prepotentemente padrone del proprio corpo e della propria consapevolezza.

Al suono animale si rovesciò sulla sedia da campeggio, mettendo mano alla prima cosa che gli capitò a tiro, la torcia, per ritrovarsi faccia a faccia con una coppia di coyote, l’incarto di quello che era stata la sua cena sotto le loro zampe. Con una rapida occhiata si accorse che il perimetro elettricizzato era spento. Il generatore andato in corto lo aveva lasciato alla mercé dei predatori del deserto.  

Strinse il manico dell’arma improvvisata e inutile, diviso ancora tra il freddo desertico del reale e la tiepida visione del suo inconscio che lo stava abbandonando pian piano. Il desiderio di chiudere gli occhi di nuovo era forte, anche contro l’adrenalina.

Ma sentì di nuovo la voce di Shiro in testa.

Rimani sveglio.

L’attimo dopo si preparò a cacciare i due ospiti indesiderati.





I mesi più lunghi della sua vita erano cominciati col fruscio statico di una comunicazione interrotta.

Era appena uscito da uno dei simulatori quando aveva sentito la prima delle voci di corridoio, il primo bisbiglio dire Pare ci sia un problema con la Missione Kerberos.

Non c’era stato un sentimento iniziale, ma più un momento sospeso che si dilatò lentamente, un secondo alla volta, diventando da minuti a mezz’ore, da queste a ore.  

Un guasto al sistema probabilmente, abbiamo avviato una diagnosi. Tic Tac.

È strano, il computer di bordo non si riavvia da remoto. Proviamo di nuovo. Tic Tac.

I tecnici non capiscono. Sono andati a controllare lo stato delle parabole, ci vorranno alcune ore per avere un responso. Tic.. Tac…

Tutti i satelliti disponibili sono stati puntati per la ricezione di un qualsiasi segnale… non possiamo che aspettare. … Tac.

La claustrofobia del non poter fare nulla era iniziata il terzo giorno al seguito di un annuncio ufficiale:

- I contatti con la missione Kerberos sono interrotti da settantasei ore. Non esprimeremo ipotesi a riguardo. Tutti i dipendenti della Garrison Galaxy stanno impiegando ogni minuto a capire cosa sia successo e se sia il caso di prepararsi al peggio -

Keith era dovuto uscire a prendere aria. Era dovuto uscire e lasciarsi alle spalle i mormorii, i commenti a caldo di persone di cui in quel momento non ricordava nemmeno il nome, ma che stavano pronunciato quello di Shiro in mezzo a parole che non dovevano sussistere nella stessa frase.

Le settantasei ore divennero il doppio.

Keith si destava, quando riusciva ad addormentarsi, prima della sveglia, con residui di sogni densi, popolati di sensazioni che a volte sembravano carezze sulla nuca, altre volte prese salde alla gola. Quando apriva gli occhi c’era la consapevolezza della propria stanza nel dormitorio, spoglia di una presenza fondamentale. E ancora l’attesa calava come un manto ingombrante che appesantiva i movimenti, i pensieri, schiacciava e soffocava la speranza che il fruscio statico della trasmittente si tramutasse in parole.

Le giornate proseguivano tra l’apatia e brevi escalation di collera, traducibile nella frustrazione di sentirsi inutile, un microscopico puntino nel Sistema Solare impossibilitato a raggiungere la persona più importante della propria vita.

Si rendeva conto appena di quello che aveva intorno. Aveva smesso di andare in caffetteria quando il brusio che gli arrivava alle orecchie non conteneva altro che Shirogane, Shirogane, e le occhiate invadenti erano peggio di mani che volevano appropriarsi del subbuglio con cui combatteva da giorni. Aveva disertato alcune lezioni, ascoltando i rimproveri con un orecchio solo, lo sguardo rivolto a quel cielo che non gli restituiva Shiro e rimaneva uguale a se stesso come se nulla fosse successo.

Perché tutti riuscivano a parlare di Shiro e lui si bloccava nel pronunciare il suo nome?

Se lo avesse chiamato in quel momento, non avrebbe risposto.

Lo sapeva ma non lo ammetteva.



La rabbia vera, quella che per un lunghi istanti gli aveva fatto tremare le vene e serrato il petto come se le costole avessero avuto il compito di arginare una belva, era esplosa di fronte all’ipocrisia dei suoi superiori all’alba del decimo giorno.

- La Missione Kerberos è fallita. Le ultime informazioni dalla strumentazione dello shuttle hanno rilevato un problema, sembra un errore umano che ha causato un’esplosione in fase di atterraggio. L’ipotesi di uno schianto è concreta. Non ci sono sopravvissuti -

Keith poteva ripetere a memoria quel comunicato come la barzelletta più triste mai ascoltata. Aveva ogni parola impressa come se qualcuno gliele avesse incise con un bisturi nel cervello.

Lo shuttle… atterraggio errato.

Nessun… sopravvissuto.

Shiro era il miglior pilota della Garrison, probabilmente di quella generazione, e loro gli avevano indirettamente imputato la colpa di tutto.

Ma al di là dell’offesa, la missione aveva avuto successo. Lui lo sapeva. Ogni persona in quella stanza lo sapeva, ne era al corrente, era nello stesso programma missione. Tutti avevano assistito alle fasi di atterraggio; in silenzio avevano ascoltato Shiro scandire le proprie azioni mentre, arrivato sulla luna di Plutone, aveva seguito alla lettera le procedure, riportando i valori, l’entusiasmo nel tono così controllato che forse solo Keith se ne era accorto.

Keith non aveva potuto parlargli da solo dal giorno della partenza. Solo la crew della sala controllo o i famigliari avevano quell’opportunità. Lui si era limitato ad apparire in un angolo quando ai cadetti era stata data la possibilità di fare una lezione-video informativa. “Come state lassù?” “Bene, ma casa ci manca sempre” era stato il loro unico scambio di parole, di sguardi, in mezzo a una folla di studenti impazienti del proprio turno per fare domande tecniche. Aveva potuto confortarsi con la sua voce, aveva avuto il cuore sospeso, tra lo sterno e la gola, imponendosi di non incrociare le dita perché Shiro era il migliore. E così era stato.

Poi dal giorno alla notte, a neanche ventiquattr’ore di distanza dall’arrivo, le comunicazioni si erano trasformate in quel brusio indistinto. E da lì Keith non sapeva neanche come i giorni fossero volati. Come gli fosse stato prima ordinato di mantenere la riservatezza sui risvolti della missione, in attesa di novità, a come fosse stato convocato, insieme ai pochi altri cadetti del programma, per sentire la comunicazione che di lì a mezzora sarebbe stata data in pasto alla stampa.

“Vi ricordiamo il vostro contratto di riservatezza riguardo alla missione Kerberos”.

Tutti i presenti a quella buffonata sarebbero stati costretti ad accettare in silenzio la menzogna sulla missione fallita, senza ricevere ulteriori spiegazioni.

Takashi Shirogane, insieme a Sam e Matt Holt erano appena diventati tragici errori umani. O vittime di un malfunzionamento ignoto ancora da verificare. La Missione Kerberos sospesa e prima di sei mesi non sarebbe stata allestita che una sonda controllata da remoto che partisse e documentasse in loco l’accaduto tramite foto, video e qualche analisi basilare.

La conclusione a seguito del discorso ufficiale, una sorta di paternale volta a incentivare un esame di coscienza collettivo, era riassumibile in una ramanzina sull’essere stati troppo precipitosi a inviare tre persone ai confini del Sistema Solare. Un’altra missione su Marte, o al massimo una o due lune di Giove, forse Cerere nella fascia di asteroidi, sarebbero stati i candidati migliori per le successive missioni “meno a rischio”.

Il suono della sedia di Keith che cadeva a terra era rimbombato nella stanza attirando l’attenzione dei pochi presenti. Quello lo ricordava. La confusione nella memoria arrivava dopo, quando qualcuno lo aveva afferrato indimandogli di calmarsi. Quando lui aveva urlato, raschiandosi la gola, di come quelle fossero bugie.

Keith si era rifiutato di accettare quel finale e aveva spaccato il setto nasale a una delle guardie che aveva tentato di calmarlo, schizzandosi la divisa di sangue; si era ribellato, infuriato di fronte a tutte le schifose cazzate udite. Il suo stomaco si era accartocciato, insieme ai polmoni, al cuore, al pensiero che Shiro fosse stato dato per morto con la stessa nonchalance di un temporale brutto ma finito.

Ci erano voluti sei uomini per fermarlo, e ognuno di loro non ne era uscito illeso.

La voce della sua espulsione era stata quasi la vera grande notizia, un gossip succulento su cui ricamare nei giorni successivi al comunicato stampa che tutto il mondo attendeva.

Ma a Keith, buttato fuori per insubordinazione con una nota disciplinare nel suo curriculum militare che poteva anche bruciare, poco era importato.

Aveva infilato in una sacca le quattro cose che aveva nel suo dormitorio, preso quelle di Shiro rimaste a impolverarsi nell’attesa del suo ritorno, e non aveva aspettato che qualcuno lo scortasse all’uscita. Aveva marciato in mezzo agli sparuti compagni presenti in quel momento, lo sguardo puntato in avanti per non incrociare gli occhi di nessuno.

Una volta sulla hoverbike, aveva urlato, mandando la moto su di giri.





Keith non aveva potuto accettare il verdetto di gente che conosceva Shiro solo per i suoi voti e record. Non avevano idea di chi fosse, dell’universo che racchiudeva dentro di sé e che a lui aveva permesso di sbirciare, fino a toccare, più di una volta.

Il ragazzo d’oro della Garrison, il prodigio Takashi Shirogane, era la punta dell’iceberg del giovane e poi dell’uomo che era diventato suo amico, la persona più vicina a un famigliare e poi ancora qualcosa di più.

Keith non poteva semplicemente smettere di credere in Shiro. Fermarsi a quel è morto, non c’è più; non con le bugie con cui gli era stato attribuito il fallimento della missione.

Forse solo Matt, oltre lui, poteva sapere quanto Shiro avesse tenuto all’andare su Kerberos, all’impegno preso, ai sogni che già stava facendo sull’avventurarsi oltre i confini del Sistema Solare.

Shiro sognava con gli occhi di un bambino, osservava la volta celeste, nelle notti che avevano passato a guardare le stelle nel deserto, solo loro due, e tracciava nuove costellazioni, raccontava nozioni di fisica mescolate a racconti di fantascienza, a ideali che voleva portare lassù, volando in mezzo ai limiti, spingendosi sempre avanti, sempre oltre.

Il Takashi Shirogane che la mattina vestiva i panni dell’ufficiale nella sua divisa appuntata di meriti era l’uomo che la Garrison e parte del mondo acclamava come il più giovane pioniere dello spazio, colui che tuttavia rimaneva parte di un ingranaggio in cui la macchina umana si muoveva a passi lenti. Lo Shiro che Keith aveva potuto avere per sé era un’essenza composta da desideri più antichi, una forza primordiale di cui l’universo stesso, un giorno, avrebbe notato la tenacia. Ma per lui soltanto era, e sarebbe rimasto fino all’ultimo respiro, lo scopo della propria vita, il motivo per cui, anche dopo la sua scomparsa, Keith continuò a svegliarsi la mattina.

I primi due mesi fuori dall’Accademia Keith li passò tra macchinari, calcoli e furti. Tornò alla Garrison un paio di volte, di notte, sfruttando la conoscenza del posto, l’orario della sorveglianza, per sottrarre alcuni strumenti e dati.

Solo dopo fece ritorno definitivamente alla baracca nel deserto che da ragazzino chiamava casa. Fu un passo che compì contro la promessa che si era fatto di non rimetterci più piede. Entrare alla Garrison e diplomarsi sarebbe dovuta essere la sua occasione, la sua rivincita contro un’infanzia fatta di ombre, silenzi e segreti, di una litania che si alternava tra Sei troppo piccolo per capire o Un giorno saprai la verità pronunciati da un padre così assente che Keith aveva aspettato solo il giorno in cui non era più tornato a casa con una sorta di impazienza per l’inevitabile.

Non aveva sue notizie da anni, ma quando tolse i teli dall’accozzaglia di strumentazioni che suo padre aveva tenuto attivi fino al giorno in cui era sparito, cercando anche lui qualcosa nella vastità del cosmo, non provò nulla di diverso dal solo desiderio di trovare Shiro.

Tuttavia, col susseguirsi dei giorni, sottovalutò la portata di un’emotività che troppo a lungo aveva relegato in un angolo di sé. Aveva così tanto tempo da impiegare, così tanti vuoti da riempire, che scoperchiare il passato di suo padre, mettendo mano a fascicoli e fascicoli di dati e pagine scritte senza un’evidente chiave di lettura con cui decifrarle, fu frustrante e al tempo stesso un tuffo sbilanciato nel passato. Pensava a Shiro, costantemente, ricordi e scene scandite da ogni bip dei macchinari, e intanto si chiedeva se il padre, nei suoi solitari silenzi fatti anch’essi di attese di segnali, avesse avuto pensieri simili ai suoi, mentre cercava quel suo qualcosa. Per la prima volta, avvertì qualcosa di molto diverso dalla delusione, dalla rabbia con cui aveva vissuto il suo rapporto col genitore, frammenti taglienti di vetro raccolti in bende improvvisate e riposte in un angolo di sé. Per la prima volta, sentì ci fosse qualcosa di più, di incompreso e incomprensibile per un bambino che aveva a malapena perso i denti da latte.

Trovò il pugnale, in mezzo a tutte le cianfrusaglie accatastate di suo padre. Lo trovò e, anche se era sicuro di non averlo mai visto, gli fu famigliare, come la vibrazione di un suono sentito molto tempo prima, una voce, di cui non ricordava le parole, ma era una nota in fondo all’oblio della memoria. Fu un’altra parte di quel poco di sé che sapeva che decise di tenersi al fianco, in quelle ore buie dove l’unica persona che lo aveva definito era dispersa a miliardi di chilometri di distanza.

Giorni, settimane, mesi. Divennero una fisarmonica indistinta, a volte ore interminabili passate a fissare lo stesso punto, a sentire gli stessi rumori, lo stesso silenzio reiterato fino alla preghiera che qualcosa desse un cenno di vita. A volte, le giornate si esaurivano nel sonno, nel correre nel deserto sull’hoverbike, sfidando leggi di gravità e della morte, trovando nuovi orizzonti da superare, con la speranza che qualcuno lo portasse in qualsiasi luogo fosse Shiro.

Ne passarono nove, di quei mesi così, e Keith raggiunse il punto di rottura.  





Cos’è quella faccia?

Keith continuò a fissarsi le mani. Si era reso conto di farlo spesso da quando Shiro era scomparso. Anche in quel momento, al buio, con il silenzio immobile del deserto oltre le vecchie imposte, il ronzio quieto delle ventole dei computer come sottofondo, seguitò a tenere gli occhi sulle dita e quanto vuote fossero.

C’era una parete in ombra e spie luminose, piccole e bianco-blu, un paio rosse, dai diversi sonar e dalle apparecchiature, che imitavano maldestramente le stelle e allungavano scie di luci sul pavimento a ritmi intermittenti .

Fuori, anche quella volta, splendeva una supernova sospesa nel tempo, in fondo a un cielo blu notte che slavava nello splendore dell’astro come i colori freschi di un pittore.

« Non riesco a trovarti » rispose a quella… voce?

La sentiva veramente in testa, con il tono saldo di Shiro, il tepore che suscitava ascoltarla anche solo quando parlava del più e del meno o con qualcun altro. Averla intorno, farsi circondare da quel timbro, una presenza, era più rassicurante del silenzio. Di quei bip bip privi di novità, che tanto somigliavano ai macchinari di un ospedale. A volte aveva la sensazione che lo stessero tenendo in vita con un’incertezza più dolorosa dell’attesa.

Ecco cos’era diventata la voce di Shiro.

Secondi di incertezze, sommati in ore di attesa che si dilatavano nel nulla. Lo spazio che li divideva, dalla Terra a Kerberos, sembrava infinitamente più breve e semplice da percorrere rispetto al chiedersi se tutto quell’aspettare e quella ricerca sarebbero state premiate con la risposta alla sua speranza. Perché di speranza si trattava.

Vieni qui.

Keith alzò lo sguardo verso il letto. Nelle ombre della casa, da quella parete puntinate di luci artificiali che disegnavano costellazioni inesistenti, Shiro si distingueva nonostante sembrasse fatto della stessa impalpabilità.

Aveva la testa piegata verso la spalla, un angolo della bocca tirato all’insù in un sorriso che incoraggiava le parole stesse. Gli occhi avevano le palpebre calate a metà e Keith si alzò lento, senza esitare più.

Senti i muscoli delle cosce indolenziti; era rimasto seduto con le gambe incrociate in quell’angolo per delle ore, senza aspettative, senza la volontà di fare niente. Non aveva neanche ritrovato la foto sua e di Shiro cercata per tutto il pomeriggio; non che fosse importante, non che potesse dimenticare un solo dettaglio di lui anche se erano già passati troppi mesi.

Quei dettagli che ora aveva di fronte. Si fermò a un passo appena dal materasso. Si fermò dallo sfiorare le ginocchia di Shiro, piegate con un’eleganza che non aveva bisogno di decoro.

Keith avrebbe potuto sfiorarlo con i polpastrelli, non si parlava neanche di un paio di centimetri, ma serrò le dita, le unghie spezzate che affondarono, dolorosamente, nel palmo.

« Perché torni solo in sogno? »

Non era la prima volta, anche se quella sembrava molto più vivida delle precedenti. Se non avesse avuto la gola così secca probabilmente sarebbe stata un’accusa. Un inveire stanco. Il limite della sopportazione l’aveva superato, eppure era ancora lì, ancora con Shiro che gli riempiva gli occhi, il cuore, ma non le mani.

Invece la voce uscì in un sussurro all’oscurità, così densa di desiderio da poter esplodere come un fuoco d’artificio e brillare; brillare di tutta la disperazione di Keith per essere rimasto indietro, ancorato lì, alla Terra, come una zavorra inutile, con radici che da tempo non sentiva più sue, gli occhi che di notte in notte si riempivano del buio tra le costellazioni, delle nebulose, dei corpi celesti, alla costante e unica e languida preghiera di vedere una di quelle luci avvicinarsi, lasciare una scia... e riportarlo da lui.

Fece un passo indietro, per allontanarsi, ma Shiro lo trattenne. Bastò la mano e una presa leggera, non costrittiva, per bloccare Keith. Per bloccare tendini, respiro, sangue e sinapsi.

Il più giovane sentì la propria faccia contrarsi, la mascella chiudersi, e i denti incastrarsi tra loro per arginare il risveglio del dolore, della scarica emotiva che avrebbe mandato all’aria l’apatica accettazione di quello che era rimasto. Un abbraccio vuoto e un fianco scoperto.

Sapeva di doversi tirare indietro, strattonando il braccio se necessario. Poi forse urlargli contro quel gomitolo di risentimento che era nato nel silenzio dell’abbandono, imbevuto di lacrime trattenute, intrecciato con tutti i fili dei sensi di colpa, delle accuse a ignoti, fino a ricoprire un frammento di cuore pulsante che invocava Shiro. Non sarebbe mai stato arrabbiato con il vero Shiro, lo Shiro tangibile, lo Shiro che in qualche maniera avrebbe ritrovato o sarebbe tornato da lui. Ma quello era solo frutto della propria immaginazione, e poteva permetterselo di impazzire di dolore.

Perché sapeva di doversi svegliare e aspettare di nuovo.

Le dita di Shiro circondarono le sue con tenerezza e lo trassero vicino, di quel passo che li separava, in mezzo alle proprie gambe, i busti quasi a contatto. Le stesse mani scivolarono alla base della sua schiena, in un recinto di braccia non richiesto ma da cui Keith non si liberò.

Anche da seduto Shiro rimaneva alto, abbastanza da permettere a Keith di guardarlo negli occhi, nella loro sfumatura di un’alba invernale, piovosa.

Hai l’aria di uno che ha bisogno di dormire.

Lo spazio tra loro divenne nullo. Keith salì sul letto, salì a cavalcioni su Shiro e lo zittì, nonostante le sue labbra non si fossero davvero mosse. Le baciò, tenendogli il viso fermo con i palmi, stringendo per non lasciarlo andare. Chiuse gli occhi e sentì solo con la bocca, qualsiasi senso diretto in quel contatto.

Gli morse il labbro inferiore tirandolo appena, prima di lasciarlo andare e schiudere lo sguardo e alzarlo con la riluttanza di chi sa. Eppure erano ancora lì, entrambi.

« Sto già dormendo »

Se ribatté, Keith non lo sentì nella propria testa. Lo stava contemplando, solleticandogli la pelle degli zigomi coi pollici, indagandola come se potesse trovare un indizio che gli dicesse qualcosa che già non sapeva, mentre fissava tutti quei particolari del suo viso alla ricerca dello stesso Shiro.

Non era lì.

Era forse l’illusione più reale che avesse mai avuto, ma Shiro non era nella sua stanza, nel suo letto, in quella catapecchia piena di ricordi così miseri per Keith che neanche a pregare di darli via tutti, ogni singolo anno della sua vita per riaverlo, avrebbe ottenuto qualcosa.

Era polvere ciò che era rimasto di Shiro. Polvere sulla sua divisa della Garrison, tirata fuori dall’armadio in cerca di conforto. Polvere sui dati che notte e giorno Keith raccoglieva sperando di captare qualcosa, un segnale, una comunicazione, una parola dal suono familiare. Polvere quando i risultati erano linee piatte, calcoli nella norma, spettri senza varianti.  

Quello che stava stringendo tra le dita era lo Shiro più reale che forse avrebbe avuto per l’ultima volta. Lì, a contatto con lui, un frutto della sua mente per cui, se avesse potuto scegliere, avrebbe detto sì, resto qui, perché nel mondo a occhi aperti non c’è null’altro per me.

Le braccia di Shiro lo circondavano ancora; le mani si mossero sui suoi fianchi, risalendo appena sotto la maglietta. La sua bocca si avvicinò a quella del più giovane, le labbra schiuse trovarono le sue ancora una volta. Prima che chiudesse le palpebre, Keith vide che non c’era più pioggia nei suoi occhi, ma vi infuriava la tempesta, che portò una scarica di desiderio in Keith, irrigidendolo.

Quella distanza tra loro fu ridotta a zero, come ogni altra forma di attesa.

Se le molle del materasso cigolarono, gemettero o ruggirono, Keith non ci fece caso. Era un letto solo perché era il contorno della sua immaginazione, ma sarebbe potuto essere qualsiasi luogo da lì a Kerberos.

Il bacio divenne fame. Morsi, mani alla ricerca di tutto, si muovevano conquistando tratti di pelle fino alle rispettive nuche per tenersi più vicini, continuando a mordersi e imprimersi a vicenda. Shiro seguiva il ritmo e Keith lo dettava, riversando ogni fibra di sé in lui tramite le labbra, qualsiasi nervo concentrato nell’amplificarne il contatto.

Shiro si sdraiò sul letto in una discesa lenta, prima sui gomiti e poi completamente di schiena, e fu dopo un altro lungo bacio, da lasciarli senza fiato, che Keith, sempre a cavalcioni, si staccò per respirare.

Aveva le mani puntellate ai lati del viso di Shiro e quest’ultimo gliene baciò i polsi, senza interrompere il contatto visivo. Keith respirava rumoroso, ansimante con le labbra schiuse e arrossate. Una mano di Shiro fu tra i suoi capelli a sciogliergli la piccola coda tirata su per praticità. Le ciocche seguirono la gravità intorno al suo viso, curvandosi in direzioni diverse che Shiro seguì con gli occhi, mentre le dita li pettinavano indietro vezzosamente.

Sono cresciuti.

« Non importa »

Shiro non smetteva di avere quel sorriso senza significato. Una curva che racchiudeva mille cose e niente, come una maschera dietro cui il resto urlava. Keith strinse le lenzuola tra le dita, desiderando urlare a sua volta. Ma anche quello non era importante.

La mano libera di Shiro seguì gli altri pensieri di Keith. Quelli che ignoravano lo spazio e il tempo, la realtà e l’illusione. Le dita scivolarono tra l’elastico degli shorts e la pelle tesa del fianco, indugiando in carezze ma senza scendere più in basso, senza stringere.

Keith sospirò a metà, e a metà sembrò un singhiozzo strozzato a occhi chiusi.

« Ti rivoglio indietro » disse, traducendo quello che il cuore pompava da giorni, da mesi, nelle sue vene. « Voglio vederti tornare. Voglio riaverti con me »

Erano cose che non aveva mai ammesso a voce alta. Erano parole che non aveva mai saputo sue, ma il cui suono aveva imparato a conoscere da quanto rimbombavano nel silenzio e nello scorrere del tempo in solitudine. Aveva imparato ad ascoltarle, ma non aveva poi avuto a chi rivolgerle.

Non ricordava neanche più cosa avesse detto a Shiro prima di partire. Di cosa avessero parlato l’ultima sera. Voleva poter avere l’occasione di dirgli mi sei mancato, una frase che prendeva significato nel suo essere al passato. Vedere di nuovo il cielo alla fine di una lunga galleria dalle luci intermittenti.

Anche io Keith.

Non aveva senso parlare con quello Shiro. Ma era l’unico che aveva e non esisteva disperso nel deserto che avrebbe rinunciato a un bicchiere d’acqua.

Raggiunse la mano di Shiro che giocherellava col bordo dei pantaloncini e la strinse, dita tra le dita, ricordandone il calore.

Si spogliarono, ma senza mai staccarsi del tutto, restando uniti di nuovo da baci, o gambe, o toraci. Le dita si ritrovavano e si intrecciavano ancora; insieme percorsero la breve distanza che le separavano dal primo gemito di piacere per Keith, stringendosi sulla sua eccitazione. Non voleva chiudere gli occhi, non voleva perderlo di vista un solo istante, ma i pensieri vorticarono inseguendo gli stimoli piacevoli.

Avvicinati.

Shiro avrebbe potuto dirgli di smettere di respirare e lui avrebbe dimenticato di avere dei polmoni.

Seguì docilmente la mano stretta sul suo fondoschiena e prima di rendersene conto si ritrovò carponi su Shiro, la bocca di lui a lasciargli baci nell’interno coscia mentre la sua eccitazione era ancora succube della sua mano, così vicina da sfiorargli la guancia. Le carezze umide delle labbra sulla sua pelle divennero piccoli morsi, piccoli segni a mezza luna; i suoi fianchi guizzarono e un nuovo, lungo mugolio vibrò nella quiete della notte.

A separare la fronte di Keith dal materasso c'era lo spazio di qualche lungo ansimo. Ostinatamente il ragazzo continuò a fissare la sommità della testa di Shiro, osservando la sua bocca esprimersi in baci e occasionali morsi, succhiotti, avvicinandosi e allontanandosi dalla sua erezione, lentamente massaggiata dalle sue dita grandi. Respirò forse una, due, tre volte, ma a ogni nuovo ansimo Shiro si premurava di rendere vana la sorsata d’aria.

Quando gli prese la punta dell’eccitazione tra le labbra, a Keith sfuggì un singulto, le lenzuola afferrate così saldamente come una corda di salvezza in un’improvvisa caduta.

« Sh… Shir… Shiroh- »

La risposta del più grande fu di accoglierlo tutto, entrambe le mani sulle natiche, che lo tenevano e lo spingevano quanto bastava per permettergli di dettare spazi e ritmi.

Non che Keith riuscisse anche solo a pensare di muoversi. Stava tremando e le gambe lo reggevano appena, sconquassato dal piacere come fuoco liquido nelle vene. Respirò rumorosamente, respirò a una intensità tale e spezzata da soffocarsi con l’aria stessa.

Shiro riprese a dedicarsi a lui senza preavviso, muovendosi sulla sua carne tesa e sensibile con devozione. Leccava e suggeva, lo avvolgeva e la sua lingua era una carezza che mandò in bianco quel che era rimasto dei pensieri di Keith.

Mosse il bacino per istinto, cercando quel di più che sembrava così vicino e consistente da poter essere toccato. Sentì, immaginò, si smarrì nella bocca di Shiro, che lo assecondò rimanendo fermo, la lingua accogliente su cui strusciarsi. Keith gemette di gola, incontrollabile, una sorta di ringhio soffocato dal dorso della mano su cui affondò i denti, senza smettere il ritmico avanti e indietro nel scoparsi la bocca di Shiro.

Le mani di quest’ultimo non erano rimaste altrettanto immobili, ma erano scivolate verso la sua apertura, stimolandolo con brevi tocchi concentrici, riducendolo lentamente a un ammasso di nervi squagliati dalle vampate di piacere.

L’orgasmo fu intenso, totale e per brevi istanti Keith fu molto lontano da tutto. Inarcò la schiena e per brevi battiti di cuore confusi contro i timpani, Keith aprì gli occhi al mondo reale, così simile al sogno da non essere distinto.

Se non per il particolare fondamentale della mancanza di Shiro.

Il cuore, i polmoni, smisero di essere.

Keith.

Keith. Sono qui.

Sono qui.

E Keith seguì la voce, sprofondando di nuovo in quello spazio onirico grezzo rassicurante alla stregua di una camera anti-panico. Dischiuse gli occhi al sogno e Shiro era ancora lì, steso al suo fianco, una mano affondata tra le ciocche selvagge sulla sua nuca. Sorrideva di nuovo, gentile, lo sguardo assente ma fisso su di lui, uno specchio vuoto in cui Keith sapeva di poter vedere qualsiasi forma di affetto il suo petto desiderasse.

E desiderò di sentirsi rassicurato, confortato nella solitudine.

« Shiro… »

Sono qui per te, Keith.

Aveva la bocca impastata dal bisogno di piangere. Lasciare andare tutte le lacrime che aveva ricacciato indietro in quei mesi, o che aveva lasciato asciugare dalla calura del sole del deserto.

Non lasciò andare le lenzuola tra le dita, ma vi seppellì il viso e quel pianto che gli scuoteva le spalle. Aveva tenuto in bilico la sofferenza per troppo tempo, imbottendola di speranze, di giorni infruttuosi spesi a pensare che i successivi avrebbero portato risultati. Un segno sarebbe arrivato, lui lo avrebbe trovato, avrebbe scavato il cielo come fosse stata della terra, se fosse servito a raggiungerlo.

Ma anche quello era domani.

In quel momento, in quel presente evanescente, c’era altro che voleva, anche sottoforma di illusione.

Le dita di Shiro scostarono le ciocche di capelli scuri dalla nuca per fare strada a labbra, baci e parole sussurrate contro il collo. Parole che scivolarono sotto la pelle prima ancora di raggiungere l’udito. Keith ingoiò il tormento e il salato delle lacrime. Li accatastò da qualche parte, lontano dai pensieri, ora invasi dalle sensazioni.

Spostatosi sopra di lui, Shiro lo guidò di nuovo e Keith, prono, seguì le indicazioni dei suoi palmi su di sé, alzando il bacino, schiudendo le gambe. Qualsiasi cosa gli stesse mormorando Shiro stava rendendo la sua pelle sensibile al minimo tocco. L’eccitazione era tornata viva, pulsante, e Keith voleva provare ancora quel senso di annegamento amniotico.

« Shiro » sospirò e non esisteva un altro linguaggio nel suo cervello.

I baci del più grande avevano raggiunto la metà della sua schiena senza che se ne accorgesse. La dovizia era totale, come se ogni centrimetro meritasse di essere confortato, adorato. Nel mentre, una mano seguiva parallelamente le labbra, ma massaggiando il torace, dita che disegnavano cerchi intorno alla zona sensibile dei pettorali. Quando la bocca di Shiro morse un lato della schiena, i suoi polpastrelli si chiusero sul centro dell’aureola sottostante. Keith esalò un gemito, sgroppando i fianchi tirati come corde dall’attesa. Strusciò involontariamente contro l’eccitazione di Shiro, avvertendola nella sua pienezza, e fu come innescare una seconda miccia.

Puntellandosi sui gomiti, alzò la testa dal disastro di lacrime e saliva in cui aveva tenuto la faccia premuta fino a quel momento. Le ciocche spesse davanti agli occhi non lo aiutarono a vedere, non quando la vista stessa era appannata dal piacere. Ma quando si voltò, trovò subito Shiro. Qualsiasi cosa avesse pensato di dire finì nelle labbra dell’altro, parole e intenzioni cancellate dalla lingua che si insinuò tra le sue.

Shiro lo sovrastava, i bacini a contatto, e il suo membro in mezzo alle sue gambe appena divaricate, premuto contro il suo, strusciato contro il suo con movimenti calcolati, qualcosa per cui Keith stava perdendo la cognizione stessa di sé.

Le effusioni delle loro bocche calcate gli tolsero ancora una volta il fiato. Keith cedeva per gradi, le braccia che lo reggevano a malapena, ma una mano di Shiro apparve ad afferrarlo per la mascella, tenendolo fermo finché anche l’ultimo residuo d’aria non gli fu tolto dai polmoni. Keith gemette di piacere e sfiancamento, in fiamme dalla testa ai piedi, un ammasso di brividi e pulsioni senza orientamento, come una bussola impazzita, la testa impantanata tra desideri e pensieri. E il respiro erratico durò poco, interrotto bruscamente ancora una volta. Paragonato a quello che stava provando lì, nel solo immaginario, l’adrenalina sperimentata nel pilotare i simulatori valeva forse il due percento di quel sogno.

Una vaga invocazione spezzata a metà, di nuovo il nome di Shiro, ruppe gli argini della sua gola, rotolando sulle lenzuola umide. Il petto si curvò verso il materasso, le gambe si allargarono istintivamente nell’avvertire la bocca di Shiro, la sua lingua, lì, nel mezzo, affondata dentro di sé. Avvertì le prime gocce di pre-orgasmo colare dal proprio membro a ogni movimenti, ogni secondo scandito dal lambire minuzioso di Shiro, le dita che lo sorreggevano e lo stringevano con voluttà allo stesso tempo.

Keith non riuscì ad articolare alcuna parola, emise solo dei versi, qualcosa che avrebbe voluto significare basta, fermati, sto per-, perché sentiva avrebbe potuto raggiungere l’apice da lì a istanti.

E Shiro smise, non senza marchiare di morsi le sue natiche mentre il ragazzo tremava nel riallineare mente e respiro per quel che poteva. Shiro lasciò andare la presa ferrea delle mani con cui aveva tenuto fermi i fianchi, dei vaghi segni rossi impressi nella carne. Tornò sopra di lui, ma senza il contatto aderente di prima, unica cosa che registrò Keith. Si sentì osservato, studiato, ma non aveva la forza di contraccambiare, prima di sentire le mani grandi di Shiro aiutarlo a scivolare supino.

Keith non sentì i muscoli del collo rispondergli per muoverlo come avrebbe voluto. Lo lasciò ciondolare mentre veniva voltato sulla schiena, la rete di nervi sottopelle che guizzava di tensione. Le labbra gonfie e separate, ancora in cerca di aria come fosse stata una molecola rara, furono contornate da piccoli baci di Shiro, che raccolse le scie di saliva dagli angoli, mentre le sue mani si occupavano di sistemare intorno ai propri fianchi le gambe tremanti. Keith sussultò nella propria pelle nel sentire il membro di Shiro premere per entrare in lui.

Inarcò la schiena, mentre la scia di piacere provata poco prima tornava a bruciare, e il gemito che gli si arrampicò in gola uscì portando con sé la forza di quella prima, iniziale intrusione. Le mani di Shiro erano tornate salde sui suoi fianchi, lo tennero fermo, e fu frustrante e allo stesso tempo una costrizione appagante, mentre l’eccitazione lo riempiva poco per volta.

Stava realizzando ciò che da troppo tempo anelava. Solo loro due e nient’altro. Nessuno a cui rendere conto perché uno di loro era un ufficiale e l’altro un cadetto, nessuno da cui nascondersi in qualche angolo dell’Accademia anche solo per un abbraccio veloce, non sentendo neanche più il bisogno di qualcuno con cui condividere ciò che alla fine poteva descrivere come il sentimento che gli altri chiamavano felicità.

Shiro era tutto ciò di cui aveva bisogno. Shiro era tutto ciò per cui avrebbe finito gli studi, avrebbe pensato in anticipo al giorno dopo domani, avrebbe smesso di provare rabbia e delusione per la sua vita passata, prima di incontrarlo. Con Shiro al fianco il resto si spogliava dei significanti logoranti e si ricopriva di una patina luminosa, per cui valeva la pena crederci, dare una seconda opportunità.

Keith, sono qui.

Udirlo ancora e ancora. Avrebbe voluto sentirlo pronunciare con quella voce capace di rimbombargli nello stomaco quando lo coglieva soprappensiero. Ma tutto ciò che percepiva in realtà era solo un dolore invisibile capace di lasciargli solchi nelle ossa. Si stava perdendo di nuovo, tra l’estasi e la verità, un aereo che sfidando il cielo entrava in stallo.

Shiro si fermò e Keith si morse il labbro. Non voleva realmente pensare, ma soltando perdersi per ritrovarlo. Desiderava sentirlo fino in fondo, perdere i sensi per non doversi guardare indietro.

Le dita di Shiro scivolarono tra quelle di Keith, portando le loro mani oltre la sua testa, facendo scivolare il torace ampio sopra quello più piccolo di lui, fino quasi a schiacciarlo sotto di sé.

Si ritrovarono faccia a faccia, i corpi incastrati, uniti, l’uno contro l’altro in confini e unioni modellati in sola carne. Se esisteva un’anima, Keith voleva credere, al di là di qualsiasi scetticismo, che quella di Shiro fosse lì. Almeno un pezzo, un lascito. Lì, con lui, da qualche parte impressa nell’addio prima della partenza. Credere che fosse ancora vivo, a miliardi di chilometri di distanza, su un satellite inospitale, fu il primo vero atto di fede di tutta la sua vita.

Chiuse gli occhi e respirò. Respirò contro l’incavo del collo di Shiro e si riempì dei battiti del suo cuore attraverso i loro petti.

« Ti troverò » in un fiato lieve, appoggiando la fronte alla sua, in un gesto familiare, uno di quelli per cui la stessa nostalgia sentiva la mancanza. Lo sussurrò di nuovo alle labbra di Shiro, prima di baciargliele. Un respiro per dimenticare ancora una volta tutto e perdersi in quel che era rimasto.

Shiro si mosse per primo e Keith gli andò incontro.

I gemiti risalirono paralleli dal basso, mischiandosi in ansimi. La presa delle mani strusciava e affondava nel materasso; le cosce di Keith erano una morsa che si dilatava e si stringeva intorno ai fianchi di Shiro accompagnando il ritmo in ascesa. Il piacere era iniziato in un momento imprecisato, rendendo cenere i tentennamenti, la cognizione, riducendo ogni distrazione alla totalità di Shiro.

Keith sospirò, gemette, concesse alla voce di levarsi, nel pronunciare nomi e promesse. Non si permise confini o blocchi. Non c’era nient’altro che dovesse trattenere. Non c’era niente che sentisse suo quanto Shiro in quella stanza, in quel momento della sua vita.

Il piacere corse col sangue, a una temperatura che lo stava consumando dall’interno, sciogliendo muscoli e tendini schiacciati sotto il peso di Shiro e che trovavano nuovi modi di combaciare negli spasmi continui.

Quando i movimenti agognarono la vetta, diventando rapidi e scoordinati nell’urgenza, Keith sciolse l’intreccio delle loro dita in cerca di un appiglio prima che i sensi scoppiassero di nuovo tutti insieme, in una girandola colorata tanto vorticante da lasciare di sé solo il bianco.

E poi, sperò, sarebbe stato il vuoto.

Affondò le unghie nella schiena di Shiro; scalfì la pella con l’istintivo desiderio di lasciargli qualcosa di suo, qualcosa che se anche minimamente doloroso, gli ricordasse la sua esistenza, la sua attesa, gli ricordasse Keith, lì a cercarlo ovunque, nel reale e nell’immaginario, in quella dimensione tra stelle e sogni.

Shiro lo aveva inglobato in un abbraccio di braccia, mani e cosce; le ginocchia puntellate sul letto mentre lo teneva stretto a sé in quella disparità fisica che faceva sentire Keith minuscolo. Con una mano all’altezza delle sue reni, Shiro dettava gli ultimi passi della corsa, spingendo in lui senza inibizioni.

Keith inarcò la schiena nel volergli dare tutto quello che aveva di sé, le punte dei piedi arricciate nelle pieghe delle lenzuola. Per sentirlo ovunque in un’unica volta. Continuava a udire le proprie labbra ripetere Shiro Shiro Shiro come il desiderio espresso a una stella cadente prima che sparisca nell’orizzonte.

Il calore fu intenso; l’energia, il sangue, l’essenza totale di Keith furono trascinate in basso dalla gravità del piacere, riesplodendo sottopelle in un lungo brivido estatico. Fu un orgasmo vertiginoso e la mente di Keith si spense; pensieri, paure, ricordi, forme e colori si brillarono vive e si dissiparono come scintille nella notte più oscura.

Rimase il buio a vegliare, insieme a una sensazione di completezza a cui tuttavia mancava un incipit e una fine; una favola a cui era stato strappato il C'era una volta e le cui ultime pagine erano rimaste bianche, in attesa che l’autore decidesse se scriverci il vissero felici e contenti.

Il tutto non durò più di un lungo minuto, quasi due quando i sensi iniziarono a svegliarsi, anticipando la coscienza, restia a staccarsi dall’oblio, quel luogo di transizione in cui tutto sembrava poter avere una seconda possibilità.

Keith avrebbe voluto aprire gli occhi, ma non avrebbe ritrovato il viso di Shiro un’altra volta. Glielo suggerì il caldo, il letto vuoto intorno a sé, l’umido del sudore e dei propri umori a impiastricciargli l’addome e le lenzuola ruvide.

Esalò un respiro, un singhiozzo mascherato da ansimo. Il secondo gli sfuggì, limpido nel suono, chiaro nel rompere la quiete immobile dell’alba così come ruppe qualcosa dentro di lui, dentro le pareti in cui aveva ammassato le verità scomode, le aspettative concrete, il dolore cocente, quello delle lacrime, e il dolore freddo, quello dell’abbandono.

Per la prima volta da mesi, svegliandosi dal sogno più intenso, dalla realizzazione massima di ogni suo desiderio, Keith pianse la scomparsa di Shiro. Pianse perché l’idea che non lo avrebbe più rivisto divenne un’ombra solida e quieta quanto l’idea che potesse essere morto dal primo istante in cui le comunicazioni si erano interrotte.

Erano fantasmi di pensieri con cui non si era mai voluto trovare faccia a faccia, che aveva intrappolato sotto una campana di vetro, cercando giorno dopo giorno di trovare qualcosa di più spesso e infrangibile entro cui confinarli, qualcosa per oscurare la verità che potevano rappresentare.

In quei mesi si era lasciato andare alla rabbia verso i propri insuccessi, aveva ceduto alla frustrazione finendo con lo spaccare macchinari che avrebbero potuto aiutarlo, ma che la parte più profonda di sé, sotto quella prigione trasparente dove accattastava le negazioni e le paure fuligginose che tentavano di macchiarlo, seguitava semplicemente a fissarlo, a suggerire flebilmente un è tutto inutile, lui non c’è più.

Quella mattina, dopo mesi di ricerche basate sul desiderio di non essere stato lasciato solo di nuovo e aver perso la persona più importante, Keith pianse Shiro finché il sonno non ebbe pietà di lui.





You taught me the courage of stars before you left.
How light carries on endlessly, even after death.
With shortness of breath, you explained the infinite.
How rare and beautiful it is to even exist.
[Saturn - Sleeping at last]




Keith toccò il fondo della propria agonia quella notte, con quel sogno. Assaporò sulla lingua il sapore salato della perdita, aprendo per la prima volta alla mente l’idea di non rivederlo più. Fu devastante e lo lasciò senza forze ore scandite dal sorgere e tramontare del sole oltre le finestre, dall’alzarsi e abbassarsi del proprio petto. Ma quella realizzazione non lo convinse a smettere di cercare Shiro. Si rimise in piedi e uscì di casa, dall’aria diventata stantia, per riordinare i pensieri e trovare un’altra strada da percorrere.

Tutto cambiò un giorno, alla soglia del decimo mese dalla scomparsa di Shiro. Il deserto bruciava, la sabbia sembrava cenere bianca a perdita d’occhio, e Keith stava tornando dalla città a bordo del vecchio pickup del padre con i pezzi di ricambio dell’hoverbike, trascurata negli ultimi mesi. Guidava in automatico, una mano molle sul volante, gli occhi persi oltre la strada isolata.

La radio crepitò una prima volta, un segnale statico a sostituire la trasmissione. Il suono si impennò, prima di diventare un brusio e, un istante dopo, un leggero mormorio. Keith si riscosse quando gli altoparlanti dell’auto trasmisero un ruggito e sbandò quando quello stesso suono, impressionante e inaspettato, gli vibrò dentro, nelle ossa, nei muscoli, nella mente stessa.

Fu la prima volta che Keith colse un segnale. La prima volta che, tornando a casa, i computer e i macchinari indicarono qualcosa. La cattiva notizia, nell'analizzare i dati, fu che non si trattò di alcune variazione proveniente da oltre l’atmosfera, da alcun satellite o altro presente nel Sistema Solare. La buona, tuttavia, si rivelò essere la natura non-terrestre del segnale registrato. Per Keith, quell’anomalia, fu il ritorno della speranza.





Era tardo pomeriggio, due mesi dopo, quando i computer segnalarono un’altra anomalia, e un’altra, e un’altra fino a impazzire. Keith era appena tornato dall’ennesima escursione alla ricerca del ruggito, alla ricerca di una spiegazione ai graffiti che aveva trovato in alcune grotte, quando uno dei macchinari emise il segnale che più di tutti il ragazzo aspettava da un anno. Ma non fu guardando i dati vomitati sui fogli stampati che Keith sentì i primi brividi addosso.

Fu scorgendo un puntino fin troppo luminoso in cielo che il suo sangue si arrestò, prima di esplodergli rimbombandogli nelle orecchie.

Successe tutto in attimi, com’era iniziato. Successe tutto come se i giorni passati potessero fondarsi e sciogliersi, sublimandosi in un metallo prezioso con cui ripagare un’attesa in fondo non vana.

Keith corse fuori casa, corse all’hoverbike e poi corse inseguendo quella scia nel cielo, quella cometa che aveva perso e ritrovato, una stella cadente in cui espresse ciò che di più sacro custodiva.

Shiro.


April 2025

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