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COW-T 13, sesta settimana, M6
Prompt: Tema libero
Numero parole: 400
Rating: //
Warning: //




L’ultima settimana Dazai la ricordava col sapore di Odasaku. 

Con il suo odore - colonia che si mischiava a quello di una pelle abituata a muoversi di continuo, agli sforzi, alla veglia, insieme al tabacco e a quel sentore di whiskey che rimaneva sulle labbra. 

Ricordava le notti con la sensazione delle sue mani, dei suoi muscoli, del suo cuore premuti contro di sé. 

La vista era un senso pigro. A Dazai la realtà non piaceva, eppure ogni cosa diventava autentica, curiosa, se posta vicino a Odasaku. 

«… devi andare?» 

Dazai aprì l’occhio non bendato. O almeno, alla parte che aveva udito. Guardò Odasaku e si mosse, spostandosi su un fianco. Il letto cigolò, ma il giovane dirigente avvertì solo la stoffa della camicia che indossava strusciare contro la pelle. 

«No» replicò soltanto, ma il tuttofare corrugò la fronte. 

Dazai ripensò a cosa si potesse essere perso della domanda. Un Quando, per esempio. 

«Resto. Non ho impegni» riformulò, aggiungendo un sorrisetto. 

Odasaku allungò le dita e gli scostò un ciuffo dalla fronte. Quei polpastrelli davano a Dazai la sensazione di aver trovato nuovi modi per morire dolcemente. 

«A cosa stavi pensando?» domandò il tuttofare, sistemandosi meglio tra i cuscini. La sua camicia la indossava Dazai e non faceva così freddo da avere bisogno di stropicciarne un’altra. Una situazione che lo sguardo del Demone Prodigio apprezzava molto. C’erano cicatrici su quel petto e le aveva percorse in più di una maniera - occhi, dita, lingua, mente - in più di un’occasione. La sazietà non era ancora arrivata. 

«Quanto credi che siano fallaci i sensi dell’uomo?» 

Si formò una ruga al centro della fronte di Odasaku. Dazai la toccò con le dita, come un bambino che non sapeva tenersi la curiosità in tasca.

«Il nostro cervello elabora le immagini percepite dagli occhi, altrimenti ribaltate. Se ora avessi la febbre, la tua pelle mi sembrerebbe fresca, quasi fredda. Se mi baciassi…» 

Lo sguardo di Odasaku si assottigliò, seguendo il flusso di parole. 

«… sentirei il sapore del whiskey o il mio?»

Il tuttofare si chinò in avanti e lo baciò. 

Dazai udì della musica e si ricordò del vecchio giradischi ancora acceso. 

«… mh, whiskey» concluse. 

«Io sento te.» 

Non era nelle intenzioni di Dazai rabbrividire, ma fu colto impreparato.  

Quell’affermazione - tre sole parole - non lasciarono più la sua testa. Si umettò le labbra e sentì anche lui un solo sapore. Odasaku.


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COW-T 12, seconda settimana, M2
Prompt: La Tigre e l’Acrobata
Numero parole: 1162
Rating: Verde
Warning: il contesto è l’omegaverse, con Omega!Dazai in dolce attesa. 




“Tio Sushi! Tio Sushi! Quetto sei tu!”

Michiko agitò il foglio con la manina come fosse stata una bandiera, piena di orgoglio e di entusiasmo. Al contrario, lo zio Atsushi fu preso in contropiede e continuò a fissare il disegno muoversi, ma senza coglierne l’essenza. Dazai, dalla sua posizione irremovibile sul divano del salotto, in una dolce attesa che stava per superare la linea degli otto mesi, rise della scena.

“Atsushi-kun sembri proprio un gatto che segue una di quelle cannette con piuma giocattolo!”

Il Ragazzo Tigre sbuffò, guardando il mentore con la fronte corrucciata. Michiko non gradì essere ignorata.

“Guadaaa! Sei tu! Sei tu!” insistette, tentando di arrampicarsi sul ragazzo con la sola mano libera - e rischiando invece di lasciarlo in mutande.

“M-Miko-chan aspetta!” balbettò Atsushi, riuscendo a placare la bambina e abbassandosi alla sua altezza per ovviare alla situazione. Finì col mettersi direttamente seduto sul pavimento, in mezzo ai vari giocattoli e peluche. “Avanti, mostrami il disegno!” disse con un rinnovato sorriso, accarezzando i morbidi e buffi boccoli rossi della piccola.

“Qui! Quetto sei tu!” trillò orgogliosa la piccola, con una manata sulla propria opera d’arte, rischiando di strapparla. L’Atsushi del quadro era una macchia grigio chiara con la forma astratta di un gatto ornato di righe nere. Un’ideale di tigre.

“Oh… sì, sono io” commentò e constatò insieme il ragazzo un po’ scettico, fissando la bambina e poi di nuovo il disegno, mentre la sua mente viaggiava a mille per cercare di ricordarsi quando Michiko avesse potuto vederlo nella sua versione mannara. La sua attenzione si spostò quindi sull’altra macchia di colore, corredata di quelli che sembravano arti e quindi più umanoide. Era tutto nero, salvo per la faccia che spiccava rosa, ma era inconfondibile dall’espressione accigliata.

Ad Atsushi scappò un mezzo risolino.

“Questo è zio Ryuu?”

“Acobata!”

“Eh?” il Ragazzo Trigre cercò lo sguardo di Dazai, sentendone la risata.

“Perché non racconti la favola della Tigre e l’Acrobata a zio Atsushi, tesoro?”

Dallo scoppio di entusiasmo di Michiko, corredato di urletto spacca timpani, sembrò la cosa più bella richiesta alla bambina quel giorno.

“La Tigheee è cappata dal cicco!” iniziò la piccola, facendo grandi gesti e finendo sempre con l’indicare la versione disegnata di Atsushi sul proprio disegno. “E l’Acobata l’ha colpita mette fugge!”

Nel dirlo, Michiko recuperò un altro disegno da sotto alcuni giocattoli, cacciandolo tra le mani di Atsushi, il quale lo fissò a occhi sgranati riconoscendo chiarissima la scena. Era qualcosa accaduto diversi anni prima che non avrebbe mai potuto dimenticare.

Nel disegno, c’era lui, sempre versione Tigre Mannara, ma tagliato a metà da qualcosa di nero che partiva dall’Acrobata. Nonostante gli occhi a x disegnati sulla faccia del felino, Atsushi si sentì rincuorato che il foglio non fosse cosparso di scarabocchi rosso sangue. Questi erano invece di un particolare verde brillante, che doveva evidentemente richiamare il potere di Tanizaki, Sasame Yuki.

Atsushi non poté esimersi dal fissare il proprio mentore con esasperazione, sottolineando il tutto con un sospiro di chi la sa lunga.

“Dazai-san, cosa hai raccontato a Michiko?”

“Tighe e Acobata!”

“L’hai sentita” scherzò Dazai, per incorniciarsi il mento con indice e pollice in un’espressione furba. “La storia di come la Tigre e l’Acrobata si sono conosciuti. C’è del romanticismo di fondo, se ci pensi.”

Atsushi guardò di nuovo il disegno dove era stato tagliato a metà. Il concetto di romanticismo non sembrava insito da nessuna parte.

“Akutagawa aveva tentato di ucci-”

Il ragazzo si morse la lingua, lanciando un’occhiata alla bambina, che però aveva appena agguantato due peluche e li stava facendo interagire tra loro continuando a esclamare “tighe” e “acobata” e suoni vari inarticolati.

“Akutagawa ha tentato di fare tu-sai-cosa la prima volta!”

Dazai scoppiò a ridere, per poi massaggiarsi un fianco per un calcetto.

“Chuuya passa le serate a insegnarle le parolacce, puoi parlare normalmente. Non dirai mai nulla di sconveniente che Chuuya non le abbia già detto.”

Atsushi sospirò così forte che sembrò un singhiozzo.

“Non è questo il punto! Perché racconti certe cose a Miko-chan?! Non credo siano… educative.”

Un tentativo vano di fare l’adulto responsabile, ma ripensando al fatto che il rosso Dirigente della Port Mafia stesse insegnando alla figlia gli insulti più coloriti, lo dipinse come un proposito da tempo sprecato.

“Come no!” scherzò Dazai con un ghigno. “La favola di come i suoi zii preferiti hanno cominciato la loro lunga e travagliata storia d’amore! Squartamenti, incomprensioni, gelosie e, alla fine, grazie al mio inestimabile contributo, la collaborazione!” si entusiasmò l’ex mafioso, interpretando con un’espressione diversa, e altamente teatrale, ogni parola pronunciata.

“In effetti una favola è limitante, quasi banale, servirebbe un film d’azione e d’amore, un blockbuster. Dovrei scrivere un copione e venderne i diritti, che ne pensi? Oppure preferisci uno spettacolo teatrale? Certe emozioni le sa trasmettere solo il palcoscenico…”

“Dazai-san…” sospirò di nuovo Atsushi, arrendendosi. Però su una cosa ancora intendeva avere una spiegazione e corrugò la fronte. “Perché hai intitolato la favola La Tigre e l’Acrobata?”

L’uomo fece spallucce e aggiunse anche un gesto minimizzante della questione.

“Come definiresti Akutagawa, con tutte quelle appendici serpentesche che usa per volteggiare in aria nei combattimenti, alle orecchie di una bambina di quasi tre anni? Aggiungi una tigre bianca, un po’ di effetti scenici che creano l’illusione per gentile concessione di Tanizaki, et voilà! Un circo!”

“Ci siamo quasi ammazz-” Atsushi si rimorse la lingua. Qualcuno, in quella famiglia, doveva fingere che gli importasse del linguaggio che Michiko avrebbe sfoggiato a lungo andare. “Non è una storia adatta ai bambini! Sai quanto male mi ha fatto Akutagawa quella volta!?”

La recriminazione di Atsushi restò senza replica, ma attirò l’attenzione di Miko.

“Tio Sushi, Acobata ti fa la bua?”

Il ragazzo le passò di nuovo le mani nei boccoli, trovandoli troppo morbidi per non scompigliarli, e li usò per placarsi, lasciando andare i rimproveri con cui avrebbe potuto ricoprire Dazai. Come sempre, aveva ragione. Anche se in parte ed era dura da ammettere. La loro era proprio una storia che non poteva non essere raccontata.

“Una volta mi faceva la bua” disse soltanto e furono poche parole cariche di ricordi, ma senza più dolore. Era come sfogliare vecchi giornali dalle pagine ingiallite. C’erano cose del passato che erano state archiviate, etichettate per quello che erano, un lungo e tortuoso percorso per arrivare a qualcosa di talmente importante e bello da far dimenticare la sofferenza.

“Ora è diverso” aggiunse con un bel sorriso. “Zio Ryuu mi vuole bene.”

Michiko emise un verso di gioia agitando le braccia, per poi prendere un pennarello rosso e ricominciare a scarabocchiare sul proprio disegno.

“Acobata vuole bene a Tighe” disse orgogliosa, regalando ad Atsushi la sua nuova opera d’arte: una tigre da una parte e un acrobata imbronciato dall’altra, con tanti cuori tutti intorno.

Quella sera, Atsushi avrebbe convinto Akutagawa a incorniciarlo e ad appenderlo nella loro camera.


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COW-T 12, prima settimana, M2
Prompt: Zaffiro
Numero parole: 3453
Rating: Verde
Warning: … stupidità?




Chuuya entrò come un uragano nel piccolo ufficio di Ango. 

I libri tremarono sullo scaffale come se si fosse appena verificata una scossa di terremoto e la spia stessa si aggrappò al bordo della propria scrivania, portando di istinto una mano alla pistola fissata sotto il ripiano. Quando capì che si trattava solo di Nakahara, la sua espressione mutò in una estremamente seria; non ritirò però la mano dall'impugnatura dell'arma.

"È successo-"

"Voglio la contabilità dell'ultima settimana del Settore 2: compravendite, trasporti e qualsiasi altro cazzo relativo. Ora."

Ango sbatté le palpebre, disorientato. Lasciò perdere l’eventualità di doversi difendere da qualcosa e si concentrò su quella richiesta repentina. 

"Ti servono i registri delle gemme?" tradusse confuso. "Dobbiamo ancora definire la rendicontazione-"

Chuuya marciò verso la scrivania del Quattrocchi come un toro che aveva puntato il bersaglio e sbatté le mani sul legno scuro e pregiato.

"Tira fuori tutto quello che hai e-" 

Chuuya si bloccò - parve quasi strozzarsi - esitando su come chiudere la richiesta. Quell'unico attimo di incertezza fece cogliere ad Ango una verità sconvolgente: Chuuya stava sudando freddo e non poco.

"E… ?" 

Gli fece eco la spia, non sapendo più come interpretare la situazione.

"... e dammi una mano."




"Hai perso i due zaffiri della collezione Valeryevich che vanno all’asta dopo domani!?"

"Io non ho perso proprio un cazzo! Qualcuno li ha presi!"

"E quando dici presi intendi rubati? Qualcuno ti ha rubato due zaffiri russi a due giorni dalla vendita!?"

"Quattrocchi, ascoltami bene: se non vuoi che ti rompa naso e occhiali in un colpo solo smettila di sottolineare quello che è successo!" abbaiò Chuuya, sbattendo il pugno sulla scrivania per essere più incisivo. "Cerca in questi cazzo di libri contabili le informazioni che mi servono e piantala!"

Ango optò per il silenzio e sfogliò il faldone che aveva davanti alle pagine che potevano essere loro utili.

"Ho la bolla di trasporto, la lettera della dogana, i certificati di autenticazione… ovviamente tutto falsificato per passare i controlli."

"Allora traduci e dimmi se la merce è arrivata al deposito come prestabilito!"

"Senza che tu ti arrabbi ulteriormente, posso farti notare che se qualcuno ha rubato questi zaffiri, falsificare dei documenti già falsi rende inutile questa ricerca?"

“Che cazzo facciamo a fare ‘sti documenti se allora chiunque può fotterci sotto il nostro stesso naso!?”

Ango sospirò con pazienza, preparandosi a dire un’ovvietà scontata. 

“Non ci fottono sotto il nostro naso,” fece una smorfia di autocommiserazione per aver ripetuto quella dubbiosa e prosaica sequenza di parole, “perché ci sono agenti della Port Mafia come te o Akutagawa a incutere paura nei possibili ladri. Fidati, il novanta per cento dei furti di questi valori li evitiamo semplicemente facendo i vostri nomi. Chiunque sano di mente ci penserebbe due volte.” 

Chuuya tacque, assimilando l'informazione come un’epifania. Ango restò in attesa, ma quando capì che l'espressione del più giovane era gravata più dall'ansia che dal ragionamento, si concentrò sui documenti che aveva davanti.

"Ascolta, codificando quello che è riportato qui, c'è scritto che è andato tutto secondo il programma e la merce è arrivata a destinazione."

"Merda, merda, merda! Ma quegli zaffiri sono spariti! E io ne ero responsabile! Il Boss mi ammazzerà se non saltano fuori."

Ango chiuse il librone e fissò il giovane agente. Non aveva quasi mai a che fare con Nakahara Chuuya direttamente, ma le rare volte che succedeva - e probabilmente quella era la terza volta da quando si era infiltrato nella Port Mafia - non era mai per due chiacchiere formali o informali che fossero. Ci scappava quasi sempre almeno un morto e il bisogno di alcool a fine giornata. Non si conoscevano se non, almeno da parte di Ango, per informazioni apprese tramite Dazai o da ricerche personali. 

In quel momento, Ango aveva la bislacca sensazione di avere di fronte una sfaccettatura di Chuuya che in pochi conoscevano davvero. 

“Per il modesto parere di un membro dell’intelligence della Port Mafia con pochi-”

Falla breve, Quattrocchi.

Ango strinse le labbra, facendosi scappare un’espressione contrariata, ma andò al succo. 

“Sei più importante di quegli zaffiri agli occhi del Boss, quindi respira. E ascoltami.”

Si spinse gli occhiali sul naso, girando completamente la propria poltrona verso Chuuya. 

Uhm, Dazai aveva ragione a descriverlo come basso... 

Si schiarì la gola, cancellando il pensiero. 

“Chiunque abbia rubato gli zaffiri non sarà andato lontano e ti sei accorto in poco tempo della scomparsa, quindi il ladro non ha molto vantaggio. Sono poche le organizzazioni in grado di far uscire dal paese gioielli di tale valore senza suscitare neanche un controllo. E il prezzo per farlo sarebbe esorbitante e bisogna fare le cose con calma-”

Noi non abbiamo tempo!” sbraitò Chuuya fuori di sé, passandosi le mani sulla faccia. “Dimmi qualcosa di utile!” che equivalse a dire Dimmi qualcosa che mi tranquillizzi

Ango era un profondo conoscitore dello stress e poteva sentirlo a pelle tutto quello che il futuro Dirigente stava provando in quel momento. Un po’ dilettantistico e molto scenico, ma era pur sempre stress. 

“Di utile c’è il fatto che nessuna di quelle organizzazioni opera a Yokohama se non per concessione della Port Mafia stessa. Quindi, se è stata qualcuna di queste, lo sapremo in breve.”

Chuuya annuì più di una volta, come se ci fosse bisogno di approvare le parole della spia. 

Tuttavia, c’era qualcosa che ad Ango non tornava e si prese il mento tra le dita, cercando di portare a galla l’incongruenza che sentiva ma non afferrava.

“Che c’è ora!?” si allarmò il rosso.

“O si tratta di un ladro con tendenze suicide che non ha un vero piano, oppure è qualcuno dotato di abilità e in grado di fotterci sotto al naso anche senza bisogno di documenti per lasciare il paese…”

“Cristo” e, per una volta nella vita, Chuuya sembrò davvero intenzionato a invocare un intervento divino. “Hai appena finito di dire che eravamo in vantaggio! Non sono venuto qui per farmi dire quanto sono nella merda!”

Ango fece una smorfia.

“Non riesci a parlare in maniera più consona?”

“Mi sembra che il mio modo di parlare sia perfettamente consono a questa fottuta situazione!” lo rimbeccò il rosso praticamente a un palmo dalla faccia, dando a intendere che alla successiva sillaba storta riguardo il suo vocabolario lo avrebbe morso.

Ango alzò le mani in difesa.

“Va bene, raccontami di nuovo da capo cos’è successo, senza tralasciare dettagli, neanche quello più-”

“Sono andato a controllare la merce al caveau, le telecamere erano offline e gli zaffiri erano spariti! Fine della storia!”

La spia raccolse tutta la propria pazienza, che per loro fortuna era davvero tanta. 

“Non hai notato nulla fuori posto? Una guardia sospetta? Hai controllato il registro di ingresso e uscita?”

La bocca di Chuuya era già spalancata nell’atto di urlargli ancora contro, ma si bloccò prima di scatenare l’ennesima bufera. Abbassò lo sguardo sulla propria giacca e ci infilo le mani dentro, frugandosi nelle tasche e tirandone fuori diversi fogli accartocciati e appallottolati. Li fece cadere sulla scrivania e iniziò a distenderli.

“Che cosa sarebbero?” chiese Ango, incerto di volerlo sapere, perché un sospetto ce l’aveva.

“I documenti del caveau degli ultimi giorni, li avevo presi al volo prima di venire qui” spiegò sbrigativo Chuuya, continuando la sua opera di spianamento, controllo e poi buttando via i fogli che risultavano inutili. “Dammi una mano, ci sono i cambi guardia, le visite, i consulenti, le solite cazzate utili.”

Cazzate utili” ripeté Ango, più per il gusto di dire una cosa senza senso che per comprenderla davvero. Prese una delle palle di carta ed ebbe pietà per quel povero documento.

“Conosci tutte le guardie che prestano servizio?”

“Certo” rispose secco Chuuya. “Mi occupo del commercio delle gemme da quando sono entrato nella Port Mafia, conosco ogni figlio di puttana che è passato da lì. Tutta brava gente. Ne ho silurati solo tre in due anni.”

Un mmmh fu il commento dubbioso di Ango alla questione. Continuò a leggere righe su righe di nomi di guardie, firme nelle calligrafie più disordinate, in kanji, metà in katakana e in hiragana, la maggior parte giapponesi, ma c’erano anche diversi cinesi e coreani tra il personale, qualche filippino e notò persino dei nomi occidentali.

La scrivania tremò per l’ennesima volta e la spia sobbalzò al colpo che il rosso diede al legno, questa volta facendolo scricchiolare davvero male.

“Maledetto ladro di merda, ti ho trovato!” ululò, tenendo uno dei fogli spiegazzati tra le mani, prima di sbatterlo in faccia ad Ango, o quasi.

Riaggiustandosi gli occhiali, l’agente sotto copertura lo analizzò con occhio critico. Aveva la data del giorno prima e c’erano registrati gli accessi della sera e della notte.

“Chi dovrebbe essere?”

“L’ultimo! È chiaramente un ladro! Pensa di prendermi per il culo!” e si batté il pugno contro il palmo nel dirlo, buttando fuori l’aria in uno sbuffo e mostrando i denti come in un ringhio. “Appena capisco dov’è lo riduco a una marmellata.”

Ango fissò per un tempo molto lungo e in silenzio quel nome palesemente falso. La sua testa stava cercando un motivo che le grinze del documento non potevano spiegargli.

“Chuuya-kun” iniziò con il tono che avrebbe usato in una contrattazione, ma a cui seguì una pausa riflessiva sulle parole da usare. Abbassò il foglio e lo guardò dritto in faccia.

“Domani mattina ti riporterò gli zaffiri. Ti pregherei di non farmi domande-”

Tu sai-

“Perché non ti risponderò” finì, mantenendo la compostezza e la sicurezza del proprio ruolo, un intermediario in grado di gestire situazioni diplomaticamente esplosive.

Chuuya restò interdetto, neanche Ango lo avesse appena colpito in faccia dal nulla con uno dei suoi libri contabili. Quest’ultimo ne approfittò per piegare il foglio in quattro con le firme delle guardie e infilarselo nella tasca interna del completo. Roteò sulla propria poltrona e iniziò a sistemare il macello sulla scrivania con apparente noncuranza, anche se la sua mente stava ancora cercando di capire i motivi dietro quel furto - se di furto si poteva parlare.

“Sei serio?” chiese Chuuya a corto di insulti e minacce. Fece il giro della scrivania e tornò a guardarlo in faccia. Il riflesso nelle lenti tonde della spia restituì quello di un ragazzo che dimostrava i suoi diciassette anni, spaesato e che tentava di riaccendere la miccia dell’incazzatura senza successo. “Hai capito chi è e mi molli così!? Dimmi dove si trovano gli zaffiri! Ti ho detto che sono una mia responsabilità!”

Ango rifletté bene un attimo su cosa dire.

“Sono ancora all’interno della Port Mafia e non lasceranno né la città né il paese, puoi stare tranquillo. Devo capire il motivo, ma sono abbastanza certo ci sia una ragione plausibile dietro. Prendila per una svista.”

Tentò di suonare ragionevole alle proprie orecchie, ma se si fosse trovato nella posizione del futuro Dirigente - e col suo temperamento - non sarebbe rimasto tranquillo ad aspettare.

Per quanto avesse capito il quadro generale e fosse sicuro che non ci sarebbero stati davvero incidenti diplomatici o punizioni per Chuuya, rimaneva sempre quella esigua percentuale di probabilità che si stesse sbagliando e ci fosse in arrivo qualcosa di catastrofico. Questo gli fece aggrottare la fronte e non passò inosservato al nervosismo del rosso.

“Sei preoccupato!” lo stanò, puntandogli un dito contro. “Porca puttana, dimmi che cazzo sta succedendo o io-”

Il suo cellulare prese a squillare e quando lo prese imprecò di una bestemmia che lasciò Ango a chiedersi quanta fantasia avesse nel formularle. L’attimo successivo il futuro Dirigente era assolutamente padrone di sé e composto.

“Buongiorno, Boss. Sì. Sì. Ah… sì, certo, sono libero.”

Ango lo vide aggrottare la fronte e poi passarsi una mano sulla faccia, ma senza che il suo tono venisse influenzato dall’evidente grattacapo.

“Certamente, me ne occupo io. Sì, contatto io la Black Lizard. Grazie, Boss.”

Chuuya chiuse la chiamata e un attimo dopo imprecò una seconda volta, così sonoramente da lasciare l’eco nella piccola stanza.

“Problemi?” chiese piano Ango.

Il rosso lo inchiodò con un’occhiata, ma senza insulti. Stava pensando e l’intensità di rotazione degli ingranaggi del suo cervello era evidente.

“Senti,” iniziò, cedendo evidentemente a un compromesso, “io devo andare a pestare degli stronzi di un’organizzazione nemica che stanno facendo casino giù al porto. Nessuno sa di questa storia degli zaffiri tranne i miei uomini al caveau e te. Li rivoglio entro domani mattina come hai detto o l’intelligence avrà un posto vacante da rimpiangere, chiaro?”

“Cristallino” rispose Ango, chiedendosi ancora una volta perché avesse scelto quella vita e dovesse farsi minacciare da un adolescente.

“Sappi che domani ti farò anche sputare chi cazzo c’è dietro quel nome falso!” sbraitò un’ultima volta, prima di chiudersi la porta dello studio alle spalle e sparire, facendo tremare di nuovo l’intera stanza. Ci fu il tonfo leggero di qualche libro lasciato in equilibrio, ma in breve tornò la quiete.

Ango finalmente si lasciò andare contro la poltrona, togliendosi gli occhiali e massaggiandosi le palpebre. Erano solo le dieci di mattina e lui aveva appena tenuto testa a, letteralmente, un Dio del caos e della distruzione.

Ripescò dalla tasca interna del completo il documento con quella firma scarabocchiata in caratteri occidentali. Avrebbe davvero voluto trovarsi nella posizione di ridere di quella assurdità.

“Che diavolo ti sta passando per la mente, Dazai-kun?”




Da quando Ango lavorava sotto copertura all’interno della Port Mafia aveva dovuto rivedere molti dei propri standard. Non gli avevano di certo dipinto l’incarico come una passeggiata legata solo al reperimento di informazioni, ma al primo regolamento di conti per cui era tornato a casa con gli schizzi di sangue sui vestiti aveva capito quale fosse la realtà in cui si era calato. Aveva iniziato a fare dell’aplomb la propria maschera in ogni occasione, tenendo per sé anche i rari momenti in cui avrebbe potuto lasciarsi andare a qualsiasi altra emozione.

Poi, una notte, Dazai Osamu e Oda Sakunosuke erano piombati nel suo ufficio e il suo scudo si era incrinato. L’ultima cosa che credeva avrebbe trovato all’interno della Port Mafia erano delle persone da chiamare amici. Non conoscenti, non lavoro, ma amici come, tristemente, non ne aveva mai avuti.

C’era sempre ad accompagnarlo un latente senso di colpa e una prematura malinconia mentre scendeva le scale del Lupin, nonostante trovarsi lì significasse avere una di quelle serate, i momenti che gli davano ossigeno per continuare la farsa.

Quella sera, tuttavia, arrivò al bancone con un sospiro che riempì tutta la sala vuota. Mentre l’oste sistemava al suo solito posto un whiskey senza neanche chiedere - probabilmente traducendo la sua disillusione e stanchezza - la spia osservò i due zaffiri che gli avevano rovinato la giornata risplendere alla luce calda dell’ambiente. Erano vicini a un bicchiere pieno e intoccato.

Di fianco, Dazai aveva la testa appoggiata alle braccia e lanciò uno sguardo, dall’unico occhio libero di bende, all’amico, dopo un sorso dal proprio drink.

“Yo, Ango. La giornata è finita?”

“Non direi proprio, Dazai-kun” sospirò di nuovo Ango, per poi indicare le due pietre preziose. “Lo sai vero che questa storia potrebbe finire molto male? Il responsabile del Settore 2 era-”

Come avrebbe potuto definire la disperazione iraconda del futuro giovane Dirigente che era piombato nel suo ufficio quella mattina?

“Era veramente angosciato dalla sparizione” concluse, trovandosi in realtà molto vicino a quell’aggettivo.

Dazai produsse solo un lamento, stiracchiandosi sul bancone ma senza muoversi, per poi buttare fuori l’aria dai polmoni con qualcosa che non era solo stanchezza, ma Ango fu incerto su come definirlo. Gli ricordò uno sceneggiato visto per sbaglio qualche tempo prima, una specie di commedia sentimentale piena di pene d’amore e non capì cosa c’entrasse.

“Quindi il microbo è venuto a cercare te per farsi aiutare” constatò Dazai, giocherellando con il ghiaccio del proprio bicchiere. “Non è così stupido allora. Pensavo avrebbe iniziato a setacciare la città come un cane a cui hanno rubato l’osso” e sorrise del proprio paragone. Ango lesse chiaramente nei suoi occhi che stava immaginando la scena.

“Perché gli hai fatto questo dispetto?” domandò, dando sfogo alla curiosità che si portava appresso da quella mattina. Si sistemò di fianco all’altro mafioso, lanciando un’occhiata alle pietre preziose e al terzo bicchiere intonso. Un’intuizione strana si fece largo nella sua mente, ma, conoscendo Dazai, attese a trarre conclusioni.

“Non stavo pensando a lui” replicò Dazai, lamentoso una seconda volta. “Mi ci sarei impegnato di più se fosse stato un dispetto contro Chuuya.”

Ango scelse di non approfondire e ringraziò di non essere (ancora) nella lista nera del Demone Prodigio. Tuttavia, mentre lo pensava si ritrovò a essere fissato da quello stesso giovane demonio e il sorso di whiskey gli bruciò la gola.

“… che c’è?” chiese titubante. Sperava di non aver pensato le ultime parole famose.

“Hai capito che ero stato io dalla firma sui registri? La Lumaca non ci sarebbe mai arrivata.”

Ango assentì, lasciandosi andare a un sorrisetto.

“Ho pensato che fosse uno scherzo proprio per quello… B. Lupin è semplice e geniale allo stesso tempo?” rifletté a voce alta, strappando una leggera risatina al mafioso. “Potevi essere stato solo tu, chiunque altro avrebbe scritto A. Lupin se avesse voluto fare uno scherzo e attribuire il crimine a un fittizio ladro gentiluomo.”

“Non mi è passato neanche per la testa” ammise Dazai con una leggerezza che la spia poteva vedergli esprimere solo durante quelle serate. “Ero annoiato ed è la prima cosa che mi è venuta in mente. Questo posto” specificò, alzando un indice e roteandolo a intendere l’ambiente. “La Lumaca non ci sarebbe arrivata da sola neanche tra un milione di anni.”

Ango scosse la testa.

“Ho promesso che gli farò riavere gli zaffiri domani mattina” spiegò, tornando serio sulla questione, ma poi aggrottando la fronte. Non aveva ancora posto la domanda fondamentale.

“Perché l’hai fatto?” ed era così semplice. “Se non era uno scherzo ai danni di Chuuya-kun, cosa te ne fai con due zaffiri la cui sparizione scatenerebbe un putiferio nella Port Mafia e una guerra con i compratori?”

Si accorse che stava di nuovo lasciando fluire i propri ragionamenti e sentì uno spiacevole brivido nel figurarsi i possibili e sanguinosi scenari. Fissò direttamente in faccia l’amico, cercando tracce di malizia, un qualche sinistro guizzo che gli dicesse che stava per succedere lo scenario peggiore.

Tuttavia, per la seconda volta, Dazai gli ricordò solo una di quelle attrici dei drama televisivi che si struggevano col pensiero del loro amato.

La sua mente fece un due più due stravagante. Fissò l’amico, spostò l’attenzione sugli zaffiri vicino al terzo bicchiere di whisky intoccato posto davanti allo sgabello vuoto a fianco al mafioso e capì.

“Dazai-kun… ti manca Odasaku?”

Il diciassettenne si lamentò di nuovo e fu più palese di un sì.

“Il lavoretto veloce che doveva fare a Osaka si è rivelato più complicato e lungo, non tornerà prima della prossima settimana. Mi annoio. È tutto noioso quando non c’è Odasaku in giro.”

Ango mandò giù un sorso di whiskey e ci soffocò una leggera risatina. Quei due erano proprio un mondo a parte per lui ed erano capaci di perdersi ore a chiacchierare delle cose più insensate, ma erano piacevoli da ascoltare. Un po’ Odasaku mancava anche a lui, ma non gli sarebbe mai passato dalla mente di rubare due pietre preziose prima di un’asta così importante.

“Cosa c’entrano gli zaffiri con Odasaku?”

Dazai lo fissò con il broncio e Ango fu preso in contropiede, cercando di capire cosa avesse detto di sbagliato. Nel mentre, il giovane mafioso recuperò entrambe le gemme, portandosele davanti al viso. Le fissò per lunghi attimi, per poi piegare le labbra in un sorriso morbido.

“Mi ricordano il colore dei suoi occhi.”

Nella propria testa e nelle azioni della propria bocca, Ango fu sul punto di replicare, ma si fermò al primo mezzo suono gutturale, ripensandoci, ma senza essere certo dei propri stessi pensieri o supposizioni. Ritirò anche la mano che era partita ad accompagnare la replica con un gesto, ma che si era persa a mezz’aria insieme a quello che avrebbe voluto dire.

Il punto era che non c’era proprio nulla di intelligente da rispondere.

Si passò la mano sulla faccia e fissò Dazai ancora perso nel rigirare gli zaffiri e coglierne i diversi bagliori, chiacchierando in maniera insensata e usando il nome di Odasaku ogni tre parole.

Ango archiviò con un altro sorso di whiskey quella serata e quel piccolo incidente interno sul furto degli zaffiri come un ricordo personale, senza mai riportare una singola nota scritta. Il giorno dopo fece recapitare la refurtiva a Nakahara e ignorò volutamente ognuna delle sue chiamate.

B. Lupin divenne uno dei tanti misteri irrisolti della Port Mafia.

April 2025

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