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Cow-t, quinta settimana, M1

Prompt: Colpo di scena

Numero Parole: 2003

Rating: SAFE




The Reality Between Us

a.k.a. See what I’ve become




Successe senza preavviso. Stava tornando sui suoi passi, anche se non si era tolto il casco. Aveva intenzione di uscire di nuovo con Red per andare a cercare Shiro. Doveva essere da qualche parte, non poteva essere sparito nel nulla in quel modo. Ma era anche stanco. La disperazione, l’insonnia, l’angoscia lo stavano logorando. Continuava a litigare con tutti, a diventare ancora di più quel lupo solitario che tanto gli recriminavano. Cosa avrebbe dovuto fare? Arrendersi? Era questa la risposta da dare agli altri per farli stare buoni? 

Non esisteva.
Shiro non si era mai arreso con lui, anche quando la gente gli aveva ripetuto fino alla nausea Keith è un caso perso

Lui avrebbe continuato a cercarlo fino a trovarlo. Avrebbero dovuto legarlo, ma anche in quel caso avrebbe lottato, avrebbe morso se necessario. 

Si rendeva conto di star grattando il fondo. Allura, Coran, perfino Pidge avevano tentato di farlo ragionare. Per quanto potesse ascoltarli, anche essere in parte d’accordo con le loro motivazioni, il punto rimaneva che non avrebbe mai potuto abbandonare Shiro. 

Fosse anche morto. 

Avrebbe riportato il suo cadavere. 

Ma finché non c’era un corpo, allora Shiro doveva essere sopravvissuto. Non poteva credere altrimenti. 

Tuttavia, il destino aveva in serbo qualcosa anche per lui. Qualcosa di più grande che non avrebbe mai e poi mai potuto prevedere. 



Pensava sarebbe accaduto durante una missione. 

Qualcosa del tipo un colpo, un dolore improvviso e lancinante, il buio. Morto. 

Non ci furono colpi, né dolori. O meglio, il dolore venne dopo il buio. Un buio senza gravità, denso, e poi pieno di colori, strisce di colori, o forse luci, girandole così veloci e vorticanti che lo stomaco gli salì in gola e poi scese in basso violentemente. 

Quando sbatté in terra, il grido soffocato fino a quel momento gli sfuggì dalle labbra in un lamento. Si accorse di non aver respirato; il cervello ricalibrò il sotto e il sopra ma le sinapsi trasmisero solo altro dolore pungente, un bruciore che arrivò dagli occhi, come se fosse rimasto sott’acqua a sguardo sgranato. 

Si tolse il casco con movimenti scoordinati. Ansimò con la bocca spalancata, respirando aria come fossero state sorsate. Era carponi per terra, puntellato sugli avambracci, scossi da tremori, ma prima che potesse cedere del tutto due grosse mani lo trassero verso l’alto. Rimase instabile sui piedi per qualche secondo, ma poco dopo, stretto in un abbraccio, l’equilibrio non fu più necessario. 

«Keith!» 

Le braccia che lo circondavano finirono con svuotarlo di nuovo di aria, ma l’odore, la voce, gli scorci catturati dallo sguardo annebbiato del paladino rosso, erano famigliari. 

«Mi soffochi» biascicò Keith, impotente e allo stremo. «Hunk, lasciami.» 

Lasciarlo andare non fu del tutto una buona idea. Barcollò, ma le stesse mani che lo avevano tirato in piedi tornarono a sorreggerlo. Furono la prima cosa bizzarra che Keith notò. Le braccia di Hunk erano del solito colorito bruno, ma c’erano delle cicatrici ad attraversarle, molte, davvero brutte, lì dove le maniche finivano e prima che iniziassero i guanti. Non ricordava di averle mai viste. 

«Cosa ti è successo?» domandò, alzando lo sguardo. E il respiro, di nuovo, gli morì dentro. Strinse le dita su quelle stesse braccia, ma non fu per reggersi.

Hunk era diverso. Molto diverso. Sempre lui ma… invecchiato. Era più grande. Più maturo. Le spalle erano larghe, l’addome compatto, i capelli più lunghi e c’era un accenno di barba che terminava in un pizzetto. 

Keith allontanò le mani di scatto e fece un passo indietro, nonostante muovere qualsiasi muscolo gli facesse male. 

La domanda chi sei nacque spontanea e altrettanto spontaneamente morì in gola. Con un movimento rapido si tastò la parte bassa della schiena e trovò la confortante presenza del proprio pugnale nella fodera. Le dita si strinsero intorno all’impugnatura. 

«Ehi, calma Keith. Sono io.» 

Hunk alzò i palmi in maniera inoffensiva e sorrise indulgente, ma Keith continuò a non sentirsi pronto a credergli. Nulla gli dava sentore di pericolo, se non il fatto stesso che non fosse l’Hunk che conosceva. L’Hunk che dall’interfono aveva appena chiamato la squadra a rapporto per la cena, fermandolo dall’uscire di nuovo in ricognizione. 

Keith fece un ulteriore passo indietro, ampliando la propria visuale, nonostante i contorni apparissero ancora sfocati.

La sala era famigliare. Era una di quelle del Castello dei Leoni, anche se appariva spenta e usurata. Le luci che la illuminavano non facevano parte dell’impianto originale, ma erano fissata alle pareti e diversi cavi correvano ovunque, attaccati anche a macchinari che non aveva mai visto e che non sembravano tecnologia alteana.

La sensazione di essere completamente fuori posto fu più prepotente. Non sapeva come descriverla, ma non riusciva a liberarsi dall’idea che fosse tutto sbagliato. 

«Ehi, Keith, ascolta. Ti sembrerà strano ma va tutto bene. Non proprio alla grande, ma sei arrivato qui intero. Con tutti gli arti! E dalle scansioni pare che tu non abbia lesioni interne, il che è un grande wow per noi. E per te, ovvio, perché, sì appunto, sei intero.» 

«Che diavolo stai dicendo?» sbottò Keith e non si preoccupò di suonare brusco, né che fosse più un’accusa che una domanda, e neanche di aver estratto il pugnale. 

Persino la reazione di Hunk fu famigliare; il trasalire, stringendosi nelle spalle, ancora con i palmi alti. E poi ci fu uno sbuffo impaziente alle spalle del paladino giallo, il rumore di qualcosa posato poco delicatamente sul pavimento e l’apparire di Pidge dalle spalle di Hunk.

Braccia incrociate e sguardo contrito. Una coda alta di capelli disordinati, una silhouette slanciata, con delle curve di cui Keith non aveva mai ipotizzato l’esistenza, e una cicatrice che attraversava l’occhio destro. Come se non fosse stato abbastanza, si rese conto che la pupilla conservava di umano solo l’apparenza.  

«Facciamola breve» sbottò Pidge, regalando al paladino rosso uno sguardo significativo da capo a piedi, mentre la sua protesi oculare sembrava registrare dati su dati. «Hai appena fatto un viaggio nel tempo. Il primo viaggio nel tempo in assoluto. È probabile che vomiterai qualsiasi cosa mangerai nelle prossime ventiquattro ore. Ti faremo altri esami per constatare il livello delle radiazioni, anche se il fatto che tu sia intero e che non mostri segni di organi spappolati è già un ottimo traguardo.» 

«Sei un mostro di insensibilità» la ammonì Hunk con un sospiro, mani sui fianchi, e lo stesso tono che avrebbe potuto usare per dire che capodanno capitava di Sabato e Lunedì già si tornava a lavorare. 

La ragazza fece spallucce.

«Diamoci una mossa. Facciamo questi test e spegniamo tutto prima che qualcuno venga a ficcanasare» disse voltandosi e tornando ai suoi terminali, scavalcando la moltitudine di cavi che correvano come radici per tutta la stanza. 

«Rettifico, sei tremenda, sul serio. Perché “ficcanasare”? Siamo tutti d’accordo, no? Oh, aspetta, intendi i bambini?»

«Ah-ah, sì, esatto, i bambini» borbottò Pidge con un gesto vago, il volto illuminato dalla schermata su cui sfrecciavano stringhe di codice.

Keith continuò a non capire nulla, anche se la presa sul pugnale si fece più fiacca.

Viaggio nel tempo. La frase gli rimbombò nei timpani, ma senza riuscire a fare breccia in un pensiero concreto. 

Non era semplicemente possibile. Aveva appena litigato con Lance, e neanche un’ora prima aveva discusso con Coran, Allura, Hunk e Pidge - quelli veri - sulla necessità di esplorare il relitto di una nave galra in cerca di indizi su dove potesse essere finito Shiro dopo l’ultima battaglia contro Zarkon.

Poteva ancora sentire Lance borbottare nelle proprie orecchie, ne aveva quasi l’eco in testa. 

Si diede un’altra occhiata febbrile intorno. 

Non era nell’hangar di Red, ma era il Castello, non aveva dubbi. Era diverso, come Hunk e Pidge, ma il design lo stesso. Il pavimento aveva delle crepe e zone aggiustate, le pareti non più immacolate ma come se fossero passati degli anni e nessuno se ne fosse preso cura.  

«… metti via il pugnale, dai. Non mi piace parlarti mentre hai quel coso in mano.» La voce di Hunk arrivò vicina e Keith alzò l’arma di scatto.

«Stai indietro!» Non intendeva essere così brusco, perché la familiarità gli diceva che era Hunk, ma la tachicardia non accennava a smorzarsi. 

L’altro paladino si fece indietro con un verso sorpreso, ancora sulla difensiva. 

«Hunk, usa le maniere forti e stendilo» mugugnò Pidge, continuando a trafficare con i computer. 

«Cosa? No! È sottoshock. Io sarei sottoshock dopo un viaggio simile. E tu non sei d’aiuto.»

«Come ti pare, ma ricordati che è Keith. Puoi anche non essere gentile.»

«Non è quel Keith. Non ancora. Credo. Da che linea tempor- Ehi! Keith fermo!»

Hunk alla fine ricorse alle maniere forti per impedire al paladino rosso di fiondarsi fuori dalla stanza. Con una presa molto più forte di quella che ricordasse, Keith si ritrovò di nuovo al centro della stanza, con un nuovo moto di nausea a indebolirlo mentre la rabbia per essere sballottolato a quel modo gli intimava di reagire. 

«Senti Hunk, facciamola finita e legalo. Non abbiamo tempo per le sue lagne.»

«Voglio che si senta a suo agio! Se riuscissimo a calmarlo sarebbe più semplice spiegargli tutto! Ma così non-»

«E da dove vorresti iniziare? Dall’incidente di Silnova o dalla battaglia di Xarfen? No aspetta, ci sono! Digli direttamente di Nova Marmora.»

«Pidge! Ma perché sei così? Lui non è Keith!» ma con uno sbuffo, e senza accorgersi di tenere ancora stretto il paladino rosso, Hunk si voltò verso di lui, abbozzando una smorfia che voleva essere un sorriso rassicurante. «Senza offesa, sei Keith. Di prima, intendo. Passato, presente… ci si confonde un po’!» ridacchiò, ma senza allegria. 

Keith era pallido per il malessere e per quei botta e risposta con cui la storia del viaggio nel tempo si stava concretizzando. Stava tentando di sottrarsi dalla manona di Hunk, ma lo sforzo gli faceva girare la testa. 

«Mi serve che stia fermo» era tornata a insistere Pidge, col tic-tic dei tasti premuti che risuonava fastidioso. 

«Se solo provassi a essere più gentile!»

«Non sarò gentile, amichevole né buona con lui! Mettitelo in testa!»

«Ma che stai dicendo? Lo abbiamo portato qui per farci aiutare!» 

Ma la più giovane degli Holt non replicò, trincerandosi in un silenzio più pesante di qualsiasi altra risposta malevola. Un mutismo che aiutò Hunk a interpretare quel suo essere indisposta. 

«Non ci credo! Lo hai fatto… lo hai fatto per l’altro motivo! Avevi giurato!» tuonò il maggiore e Keith rabbrividì nella propria pelle. Questa volta, chi aveva di fronte, non era per nulla l’Hunk suo compagno. «Sei la solita egoista!»

Le dita di Pidge si arrestarono, tese e rigide sopra la tastiera. Il suo sguardo lampeggiava furia, come il leggero tremito del suo corpo. Parlò, ma sembrò urlare. «Ho giurato prima che Matt finisse in una medi-pod per colpa di quello stronzo! Poteva finire di distruggere questa merda di universo, non me ne frega un cazzo, ma non doveva toccare- Matt-» faceva fatica a respirare dalla rabbia e il suo volto era così stravolto che Keith non riuscì a riconoscerla. «Quindi sì, l’ho portato qui per il primo motivo per cui abbiamo costruito tutto questo!» e con uno scatto delle braccia indicò l’intera sala, che alla vista vacillante del paladino rosso acquisiva i connotati di un laboratorio a tutti gli effetti. «Scusa se ho assecondato il piano b e non me ne frega niente se fuori di qui lo ammazzeranno. Anzi, sai cosa? Spero che sopravviva abbastanza per soffrire come noi in questi anni!»  

Hunk era sconvolto e non si accorse di come Keith stesse scivolando a terra, avvinto dai postumi del viaggio temporale e dalla cattiveria nelle affermazioni di Pidge. Non aveva la forza di ribattere o chiedere spiegazioni. Di difendersi da qualsiasi accusa gli stessero muovendo. Voleva solo ritrovare Shiro. Aveva bisogno di un viso amico. 

E fu la sua voce che zittì Hunk e Pidge. La voce di Shiro, dalla soglia della stanza, turbata e sconcertata, roca. 

«Che cosa avete fatto...» e non fu una domanda. 

Ma agli occhi stanchi di Keith, per il suo cuore provato, anche quello Shiro… non era il suo Shiro. 


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Cow-T, settima settimana, M6

Prompt: Rosso

Numero parole: 525

Rating: SAFE


Fandom: Voltron LD

Personaggi/Ship: Lance, Shiro

Note: Teen Wolf!AU




Lance fu plateale nell’ignorare Keith.

Non si preoccupò di passare da idiota quando superò il corridoio degli armadietti con il libro di economia alto a parargli la faccia, la camminata svelta e ingobbita e a malapena lo sguardo diretto al pavimento, fissandosi i piedi mentre li metteva uno davanti all’altro.

Non diede retta neanche a Hunk quando lo richiamò e chiese vagamente scusa nell’urtare quella che percepì essere Allura, dai capelli che gli finirono in faccia, la sua cotta da sempre, new entry in quel circolo di pazzia sovrannaturale che era diventata la sua vita e forse anche tutta la scuola ormai, ne era certo.

Il punto di tutta quella marcia forzata rimaneva però mettere più distanza possibile tra sé e Keith, di cui avvertì lo sguardo incandescente sulla schiena fino a un attimo prima di svoltare l’angolo.

Si comportò così anche al cambio della prima ora, e alla seconda, e durante Chimica si posizionò tra Hunk e Pidge, ignorando le loro domande Stai bene? Chi ti prende? e preferendo apparire per una volta come uno studente ligio che non alzava lo sguardo dal libro di testo. Di quel passo, Keith gli avrebbe bucato la schiena a furia di fissarlo.

Alla pausa pranzo, col sacchetto dei suoi sandwich accartocciato in mano e la tachicardia a perforargli i timpani, neanche fosse in fuga da tre giorni, Lance fu agguantato per un braccio e trascinato in un’aula vuota.

Gli occhi che si ritrovò nei suoi furono quelli grigio piombo di Shiro.

«Stai innervosendo Keith. Smettila di ignorarlo.»

Dritto al punto, conciso e con un tono grave ed esasperato.

Dal canto suo, Lance esplose tutto lo stress per quella situazione, fischiando come una pentola a pressione.

«SCUSA se da ieri vivo un attimino nel PANICO che quel decerebrato di Keith mi attacchi di nuovo! Ho passato la notte a sognarmi lui e la sua lucertolosa coda che mi strangolava e i suoi cinque centimetri di artigli che mi scuoiavano! Cosa dovrei fare!? Ti ricordi sì che mi ha aggredito

Shiro chiuse gli occhi, si massaggiò una tempia e fece un passo indietro per dargli aria, evitando di essere colpito dal suo gesticolare indignato.

«Nel suo inconscio lo ha fatto per proteggerti.» tentò di blandirlo, poco convinto.

Lance si premette i palmi sulla faccia, lasciando andare un lungo verso esasperato e molto stanco.

«Paralizzarmi e farmi assistere mentre ammazzava Gnov. Bell’inconscio!»

Shiro strinse Lance per le spalle, usando la sua presa rassicurante da Alpha e gli occhi di Lance fecero capolino tra le dita, seguiti da un uuh arrendevole.

«Cosa vuoi che faccia?»

«Comportati come tutti i giorni»

Lance scosse la testa in un chiaro nope nope nope.

«Comportarmi come tutti i giorni significa litigarci, litigarci significa farlo incazzare, incazzare signifimmmppffhh»

Con un palmo Shiro bloccò il blaterare di Lance, riuscendo a non sbuffare sonoramente dal naso e fissandolo indulgente, sebbene parlò con voce che non ammetteva repliche e con i suoi occhi rossi da Alpha. Gli occhi che mettevano i brividi a Lance e non ammettevano repliche negative.

«Non ignorarlo.» Al docile cenno di assenso del ragazzo scostò il palmo, continuando. «Procediamo col piano.»

«Evviva.»

Ovviamente non funzionò.


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Cow-T, settima settimana, M6

Prompt: Rosso

Numero parole: 826

Rating: SAFE


Fandom: Voltron LD

Personaggi/Ship: Lance/Keith

Note: amorini.



Festeggiare il Natale stava diventando una tradizione, anche se era solo il terzo anno.

Nonostante i due Natali precedenti fossero stati sperduti nello spazio senza nessun vero e proprio addobbo, albero, o cenone, era stato più lo spirito a contare. E Keith non ne aveva mai avuto molto in generale.

Però al primo «Ehi, ma mancano solo due mesi a Natale!» di Lance cominciava ad avvertire un formicolio lungo la schiena. Non era qualcosa di fastidioso o spiacevole, più un gentile promemoria che gli riportava a galla ricordi tiepidi.

Sì, da quando erano tornati sulla Terra avevano l’obbligo morale - sempre a detta di Lance - di fare le cose per bene: decorazioni di ogni sorta, carta da regalo a tema, ricette di nonne, ricorrenze di trisavoli e tradizioni varie ed eventuali. Però, e Keith lo stava ammettendo tra sé, sorseggiando la tisana digestiva post veglione, il tam-tam valeva la piacevole sensazione dello stomaco pieno, il calore del camino che pervadeva la stanza, la televisione in sottofondo impostata su qualche film datato e la compagnia che in quegli anni aveva sostituito la sua solitudine.

«È ora di aprire i regali!» trillò Matt con l’entusiasmo di un bambino.

«Eeeh? Di già? Ma non ho ancora battuto Pidge a carte!» si lamentò Lance.

«Se aspetti di vincere per aprire i regali, puoi iniziare la lista per l’anno prossimo» ghignò Pidge, chiudendo anche quella partita a proprio vantaggio.

«Shiro ci ha visto lungo a imporre la regola che non si gioca a soldi...» commentò Hunk impietoso, dalla sua posizione sul divano vicino a Keith. «O a Strip Poker. Lance in mutande non è la mia idea di Natale...»

Keith si lasciò sfuggire una risata più sonora del solito, arrossendo, ma solo Hunk, nella confusione da “Apriamo i regali!”, la colse e lo ricambiò con un immenso sorriso e una pacca sulle spalle.

In meno di dieci minuti il pavimento del salone fu ricoperto di carta stracciata e nastri, mentre l’aria frizzantina si saturò di allegria man mano che i pacchetti venivano aperti. Ci furono i regali più vari, da quelli seri e toccanti, a quelli scherzosi e imbarazzanti.

«Ma quella scatola immensa per chi è?» si interessò Pidge, quando ormai sotto l’albero erano rimasti pochi altri pacchi, tra cui quello citato. Era una scatola con coperchio, a sfondo blu con cristalli di neve e un largo nastro di raso azzurrino che la teneva chiusa con un fiocco sulla cima.

Lance si schiarì la voce, saltando in piedi e battendo le mani.

«Facciamo un gioco! Chiudete gli occhi e non riapriteli finché non ve lo dico io! E bocca cucita!»

Dopo un’occhiata perplessa generale e vari «Eddai! Cosa vi costa!», tutti cedettero alla richiesta. Per qualche secondo si sentì solo Lance muoversi sugli scarti della carta a terra, esprimere un «Oh issa!» e scalpicciare di nuovo. Poi, per quasi un minuto, un silenzio di stasi.

«Ci vuole ancora molto?» borbottò Pidge a braccia incrociate, ma con le labbra piegate in un lieve sogghigno mentre iniziava a capire la situazione.

«Ssh!» la rimbeccò Lance all’istante, preda del proprio cuore in tumulto.

Lui e Keith si stavano guardando negli occhi con un’incertezza da cardiopalma. Quando il paladino rosso aveva sentito qualcosa toccarlo era leggermente sobbalzato, per irrigidirsi l’attimo dopo in cui aveva capito di essere il destinatario del grosso pacco di Lance.

Davanti a lui, Lance si stava passando una mano sulla faccia sentendola calda, mentre con l’altra cercava di esprimersi a gesti secchi per incoraggiarlo a sciogliere il fiocco. Keith si mosse maldestramente - finendo col dare una gomitata a Hunk, anche lui ridacchiante della situazione nonostante gli occhi chiusi - e si liberò del nastro. Un istante dopo stava fissando il contenuto con un’espressione indecifrabile.

Shiro si schiarì la gola, seduto al tavolo con la testa appoggiata alla mano in una posa che sembrava comunicare quanto si stesse godendo la scena anche senza vederla. «Ci state tenendo sulle spine.»

«È emozionante! Anche questa è una tradizione?» domandò Allura, senza trattenere l’entusiasmo e tenendo le palpebre serratissime.

Lance e Keith li stavano ascoltando a malapena, immersi nella loro parentesi di imbarazzo. Ancora impacciato, Keith tirò fuori dalla scatola il proprio regalo e un bigliettino svolazzò di fianco a lui.

“Per ringraziarti di quel bonding moment che però non è mai avvenuto!”

Lance aveva cambiato colore e, di nuovo, a gesti, pregò Keith di nascondere il bigliettino.  

«Ok, potete aprire gli occhi!»

Nonostante fossero tutti già pronti a ridere, rimasero inermi di fronte alla scena.

Keith, con le gote sfumate di un rosa acceso, stava stringendo e contemplando il proprio regalo negli occhietti finti. Era un grande peluche a forma di ippopotamo, di una sfumatura insolitamente rossa e, anche se di pezza, sembrava capace di rendere il paladino rosso un bambino felice del proprio regalo.

«Grazie Lance» mormorò Keith, stringendolo al petto, e Pidge dovette allungare le mani e sostenere il paladino blu prima che gli crollasse addosso incespicando nelle proprie emozioni.


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Cow-T, settima settimana, M12

Prompt: Pesci

Numero parole: 234

Rating: SAFE


Fandom: Voltron LD

Personaggi/Ship: Lance, Hunk, Shiro

Note: //



"Lance, riesci a concentrarti un attimo?" sbuffò Hunk, dandogli una gomitata. Il ragazzo lo guardò con faccia da ebete, per poi trasalire quando avvertì il freddo della granita colargli sulla mano. Imprecò, spegnendo il macchinario al volo e guardandosi intorno alla ricerca di un panno per asciugarsi. Panno che gli fu passato dallo stesso Hunk, che continuava a fare segni di diniego e biasimo col capo.

"Che ti prende oggi?" borbottò, prendendo un altro bicchiere e scostando con una fiancata l'amico per completare l'ordinazione da sé.

"Il mio oroscopo dice che oggi incontrerò la mia anima gemella!" sospirò, urtando per sbaglio una bottiglia e cercando di prenderla al volo.

Il cliente della granita pagò e se ne andò con sguardo scettico, lo stesso di Hunk.

"Se stai così con la testa tra le nuvole non penso che incontrerai nessuna anima gemella."

"Non capisci! È destino! Oggi ci incontreremo! L'oroscopo diceva che sarà dei Pe-"

"È possibile ordinare?" una voce li distrasse entrambi.

Lance sembrò rimanerne folgorato. Scalzò Hunk dal posto e si sistemò in posa da flirt in cassa, un sorriso largo e suadente sul viso. Il tipo era proprio il suo tipo. Alto, muscoloso, occhi gentili e cicatrice da eroe sul naso.

"Caffè? Tè? Me?" e le sue sopracciglia fecero quella cosa per cui Hunk sentì un brivido lungo la schiena e pena per il cliente. "Dimmi che sei dei Pesci, ti prego."


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Cow-T, settima settimana, M12

Prompt: Oroscopo - Leone

Numero parole: 501

Rating: SAFE


Fandom: Voltron LD

Personaggi/Ship: Human!Lance/Lion!Shiro, Human!Lance & Lion!Keith

Note: ispirata alla AU creata da 33-Ko/nsf-ko e Kuroshiroganee (le trovate su Twitter!) su Lance che vive con Shiro e Keith leoni! **



Il sole non era ancora sorto sull'orizzonte piatto della Savana, ma i suoi raggi avevano iniziato a colorare le nuvole nel cielo di rosa e arancio.

Lance iniziò a svegliarsi al rumore ritmico di una coda sbattuta sul terreno, impaziente. Districò una mano da sotto una zampa di Shiro e si stropicciò un occhio, rigirandosi nell'abbraccio del leone. Un leggero verso gutturale gli fece inclinare il capo per adocchiare un altro leone dal pelo rossiccio, seduto a pochi passi e che continuava a frustare il terreno con la coda.

Keith emise uno strano sbuffo, grattando il terreno vicino a Lance. Il ragazzo lo guardò corrucciato, senza capire, e assonnato. Il calore di Shiro era così invitante e avrebbe voluto solo tornare a dormire, con il respiro regolare e vibrante del grande felino che facevano venire voglia di stringerlo. Ma il leone rosso continuò a reclamare l'attenzione dell'umano e Lance finì col doversi mettere almeno seduto per dargli retta, ma restandosene contro la massa di pelo morbido di Shiro.

Keith si placò all'improvviso, senza più muoversi. Lance sbuffò esasperato, emettendo a sua volta un verso che avrebbe voluto dire avanti, che c’è, perché mi hai svegliato?

Il leone rosso girò su se stesso e andò a frugare in mezzo all’erba alta che circondava il giaciglio di Shiro. Tornò con qualcosa in bocca che fece rotolare ai piedi di Lance. Era un pugnale da bracconiere. Lance passò lo sguardo dall’arma a un Keith molto contento della sua conquista e che spingeva la lama verso l’amico umano, che la prese con diffidenza.

Poi una lampadina gli si accese nella mente.

Stava sorgendo il ventottesimo sole del settimo mese. Come gli aveva spiegato Allura anni prima, era la data del suo compleanno!

E sei anche nato sotto il segno del Leone, aveva aggiunto, quando lui imbronciato aveva continuato a disegnare Shiro e Keith sul foglio, lamentandosi nei suoi versi strani dei vestiti scomodi.

Col senno di poi, il ragazzo ripensò a quei momenti con un po’ di nostalgia, ma non avrebbe scambiato per nulla al mondo la sua vita attuale con nient’altro. Anche se non era un leone, non avrebbe mai voluto vivere con gli umani, anche con quei pochi che si erano dimostrati amici. Andava bene così. Era felice così.

Shiro sbadigliò, iniziando ad aprire gli occhi e Lance affondò il viso nella sua criniera, mentre con una mano si allungava per cercare di accarezzare quella di Keith in segno di ringraziamento. Fu un gesto breve, perché il leone rosso non era tipo da smancerie, ma a Lance bastò per ridacchiare una prima volta e poi ancora di più quando Shiro si alzò, rovesciandolo per terra, e iniziò a leccarlo sui fianchi, facendolo contorcere per il solletico. Rimase senza fiato, mentre l’enorme leone bianco gli si accovacciava sopra, facendogli vibrare il petto con le fusa, mentre Keith sembrava sbuffare per tutte quelle coccole. Lance rise di cuore, con un sorriso gigantesco, prima di far risuonare il primo ruggito della giornata nell’aria tiepida del mattino.


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Cow-T, settima settimana, M11

Prompt: Tarocchi - La Forza

Numero parole: 4462

Rating: SAFE


Fandom: Voltron LD

Personaggi/Ship: Lotor/Allura, Lotor & Shiro, Keith & Lance. Gente varia.

Note: Star Wars!AU ad ampie linee.

Lotor (Anakin) è il Maestro Jedi di Shiro (Ahsoka? Ma anche Jango Fett per la questione cloni). Fin dall’infanzia, Lotor è profondamente legato ad Allura (Padme), Senatrice e Principessa di Altea. In segreto, i due mantengono una relazione che sboccia in una gravidanza. Keith e Lance sono due apprendisti Jedi. Kolivan (Windu?) è il Maestro di riferimento del Tempio Jedi, Sendak è il Conte Dooku, mentre il Cancelliere Supremo è Honerva (Palpatine). Honerva ha proposto a Shiro di prestare il suo DNA per la creazione di un esercito di cloni a difesa della Repubblica. Ho scombinato un po’ tanto le cose della storyline originale tra cui anche un po’ la Forza, sorry.





Per tutta la notte, Lotor rimase in piedi di fronte al vetro che lo separava da Allura. Shiro lo trovò così.

“Come sta?” chiese il padawan, dopo minuti interi passati a pensare a cosa poter dire e trovando ogni possibile domanda sia una tortura sia qualcosa di sbagliato.

“È stabile” replicò il Maestro Jedi e sembrò un’accusa verso ignoti che fece soltanto sentire Shiro ancora più fuori posto. L’aria era tesa, la Forza era un muro intorno a Lotor.

“Il Consiglio ha chiesto di vederti” iniziò il padawan, odiandosi per essere un ambasciatore in quel momento. “Il Maestro Kolivan vuole un rapporto da te.”

Lotor non rispose; l’aura intorno a lui sembrò bruciare in modo gelido. Shiro non si ritrasse e tentò di nuovo. “Rimarrò io a vegliare sulla Senatrice Allura. Per favore, Maestro…”

Lotor chiuse gli occhi. “Ti ho ripetuto mille volte di non chiamarmi Maestro” fu un rimprovero rassegnato, ma anche un’incrinatura in quell’atmosfera pesante che li circondava. Il Jedi si voltò verso il proprio padawan con uno sguardo indecifrabile a ottenebrarlo. Un brivido scosse Shiro profondamente, ma riuscì a non farlo trapelare. “Avvertimi immediatamente se si sveglia” ordinò il Galra e lasciò la stanza.

Il Tempio Jedi conservava la sua aura di pace e di luogo neutro, benché ormai non lo fosse più da troppo tempo. Dopo il recente attentato in Senato, dove diversi esponenti politici erano rimasti feriti o, al peggio, morti, Coruscant versava nel caos totale. Durante il breve viaggio verso il Tempio, Lotor aveva notato le pattuglie delle forze dell’ordine essersi quadruplicate, proteste dei cittadini contro la sicurezza e, in lontananza, nel cielo della mattina, ancora tracce dell’incendio che aveva consumato parte del palazzo governativo.

Giunto a destinazione, notò che il Tempio era fin troppo tranquillo. Non si imbatté in nessuno, finché non salì le scale verso la sala del Consiglio. Ma era un incontro che avrebbe voluto rimandare.

“Maestro Lotor! Maestro!”

Il Galra arrestò la propria camminata, voltandosi con pazienza. Lo scalpiccio dei due apprendisti si fermò un paio di gradini sotto di lui.

“Lance, Keith” salutò Lotor lento, tentando di non farsi influenzare dalle loro vibrazioni di preoccupazione. “Mi attendono al Consiglio.”

Il giovane padawan Altean non sembrò ascoltarlo.

“Come sta mia cugina!? Non mi dicono niente!” proruppe, salendo gli ultimi gradini anche quando il compagno tentò di fermarlo.

“Lance, lascialo in pace, deve-” protestò Keith, strattonandolo, ma Lotor alzò la mano per fermarli entrambi.

“Le sue condizioni sono stabili” rispose calmo, scrutando l’Altean. “Shiro è con lei, puoi contattare lui.”

“Voglio vederla!” insistette Lance, ma Lotor scosse la testa.

“Quando si sarà svegliata, È sotto stretta sorveglianza delle Guardie del Senato. Non vogliamo altri incidenti” e fece per risalire le scale, quando Lance lo afferrò per il braccio, fermandolo. Non lo stava sfidando con lo sguardo, sembrava terrorizzato, e a Lotor non piacque l’espressione di indecisione che aveva sul viso. “Che cosa c’è, padawan?”

“Io…” Lance lanciò un’occhiata al compagno e Keith lo ricambiò senza capire, le sopracciglia inarcate. “Io so” disse soltanto l’Altean, stringendo le dita sul polso del Jedi e cercando disperatamente di dare un senso a quell’affermazione con l’intensità del proprio sguardo.

Lotor si liberò con delicatezza e la stessa impassibilità dimostrata fino a quel momento, cercando di tenere a bada il ribollire che aveva dentro

“Allura sta bene. Va tutto bene” disse senza alcuna inflessione e senza guardarli. “Più tardi ti accompagnerò da lei, ma per adesso attenetevi al vostro programma giornaliero.”

“Ma-”

Lance, andiamo!” intervenne Keith, che anche se non aveva capito niente interpretò ragionevolmente quell’invito a levarsi dai piedi.

Nella sala del Consiglio l’aria era pesante e si percepiva tutta la gravità della situazione. Lotor fu accolto da sguardi criptici, ma se li fece scivolare addosso, concentrandosi unicamente sugli ologrammi al centro della stanza che riassumevano in lenti loop quello che era accaduto al Senato.

“L’attacco è stato portato avanti da uno dei presunti Sith sottoposti del Conte Sendak, Haxus. Il suo corpo non è stato ancora ritrovato, ma una delle dame della Senatrice Allura assicura che non può essere sopravvissuto alla sua stessa esplosione.”

Tra gli ologrammi, comparve la foto di una giovane ragazza dai marchi verdi sulle guance, il cui identificativo era uno strano soprannome, Pidge.

Kolivan riprese. “Nell’attentato sono morti tredici esponenti. I feriti complessivi sono trentaquattro, tra cui la Cancelliera Honerva.”

Nonostante la concentrazione che richiedeva la seduta, Lotor sentì distintamente diversi sguardi sulla propria figura, ma non si mosse, né accennò nulla che tradisse i propri pensieri. La posa di alterigia delle sue spalle e del suo sguardo trasmettevano però un messaggio di sfida, nell’attesa di sentire se qualcuno avrebbe osato dire qualcosa. Nelle ultime ore il suo esercizio costante era stato quello di rendere la Forza stabile intorno a sé, come una sorta di muro dietro cui ripararsi.

Ma Kolivan, impassibile, richiamò l’attenzione generale.

“La condizioni della Cancelliera non sono gravi. Ha ordinato un’indagine a tappeto per assicurarci che sia opera dei Sith aiutati dai Separatisti. Il Maestro Ulaz, il Maestro Thace e il Maestro Antok si recheranno nell’ultimo luogo dove sappiamo essere stato il Conte Sendak prima dell’attacco. Nel frattempo, la Maestra Krolia, il Maestro Slav e io interrogheremo i feriti e accerteremo le dinamiche. Il resto dei Maestri rimangono a disposizione.” Ci furono mormorii Questo è quanto. Maestro Lotor, una parola.”

In un generale mormorio di assenso, tutti lasciarono la sala a eccezione di Lotor e Kolivan.

“Shiro mi ha riferito che sei rimasto tutta la notte a vegliare la Senatrice Allura” iniziò, abbandonando i formalismi.

“Sì” rispose Lotor, guardandolo con lo stesso sguardo avuto per tutta la seduta del Consiglio.

“Dal rapporto medico è emersa una gravidanza di quattordici settimane. Ne sapevi qualcosa?”

“No” fu la risposta precisa, senza alcun vacillare.

Kolivan rimase in silenzio per diversi secondi, nella sua posa statuaria, come un dio ancestrale capace di vedere la verità attraverso le persone. Ma Lotor fu  impassibile.

“So che la Senatrice Allura si fida ciecamente di te. Il Conte Sendak non ha fatto mistero più volte di quanto Altea sia un impedimento cruciale per i Separatisti. La morte di Re Alfor ne è stato un esplicito esempio. Se la Senatrice è in un momento delicato tale, vorrei che tu e Shiro le rimaniate al fianco per proteggerla.”

Per la prima volta, l’espressione rigida e impostata di Lotor si ammorbidì per la sorpresa di quella richiesta e per la fiducia accordatagli. Il senso di colpo lo pungolò, fastidioso come un centinaio di spilli a pungerlo, ma non lasciò trapelare nulla. “Ci assicureremo la sua incolumità.”

Kolivan annuì, ma poi si fece pensieroso. “Un’ultima cosa.”

Lotor attese.

“Shiro è ormai pronto per diventare Maestro e la cerimonia avverrà prima che la Senatrice faccia ritorno ad Altea.”

Il Jedi assentì piano, concorde. “Perfetto.”

“Vi assegneremo un nuovo padawan ciascuno. Vorrei che diventassi il Maestro di Keith.”

Questa volta Lotor non fu così bravo a fermare i propri pensieri prima che arrivassero alla bocca. “È una decisione dettata dal nostro comune retaggio?” chiuse un attimo gli occhi e espirò forte. “Non intendo mancarti di rispetto, Kolivan. Ma avrai visto cosa succede ogni volta che si parla della Cancelliera Honerva in mia presenza” negli anni era diventato bravo a rimuovere ogni sentimento dal pronunciare il nome di sua madre; tuttavia, situazioni logoranti come una notte insonne e il dover reprimere emozioni forti come quelle provate alla notizia dell’attentato riuscivano a insinuarsi nel suo autocontrollo e creare delle falle. E le persone intorno a lui ne approfittavano con sguardi critici e invadenti. “Non parleranno meglio di Keith o della Maestra Krolia se verrà affidato a me.”

“Ritengo che Keith possa imparare molto da te” fu la replica risolutiva di Kolivan e Lotor non ci provò ulteriormente, annuì e basta.

“Per l’apprendista da assegnare a Shiro consiglierei Acxa. È disciplinata e impara in fretta” suggerì, avviandosi all’uscita della sala.

“Acxa è già stata affidata alla Maestra Krolia. Shiro addestrerà il padawan Lance.”

Di bene in meglio, pensò Lotor chiudendosi la porta alle spalle.

Arrivare su Altea dava sempre a Lotor l’impressione di poter lasciare i dissidi della Repubblica alle spalle e godersi la pace di quei luoghi usciti da una favola umana.

Nonostante i pareri dei medici che le avevano consigliato un congedo per maternità, Allura era di nuovo in piedi e utilizzava la mattina per tutte le faccende di natura politica. Questo fino a quando, all’ora di pranzo, Lotor non staccava letteralmente la spina ai comunicatori del suo studio, guardandola con rimprovero e buttando fuori l’aria dalle narici come un vecchio insegnante stanco.

“Stavo parlando con Blaytz, per tua informazione. Smettila di giudicarmi” si lamentò Allura, alzandosi con uno slancio troppo energico che le fece girare la testa. Lotor le fu al fianco in un battito di ciglia. “Scusami” mormorò lei, appoggiandosi contro il suo petto e chiudendo gli occhi per godersi il momento. “Non ho ancora chiaro dove sia finito il mio baricentro.”

Lotor sospirò, ma sembrò più il modo di nascondere una risatina.

“Oggi pomeriggio potresti evitare di sgattaiolare di nuovo qui nel tuo studio, ma restare con noi e riscoprire il tuo baricentro.”

“Mi stai invitando a una lezione di allenamento Jedi? Credevo volessi che stessi lontana da Lance e Keith e le loro spade laser tipo per sempre.”

“Io e Shiro abbiamo convenuto di sequestrare le loro spade finché non impareranno ad andare d’accordo.”

Allura lo guardò in faccia cercando tracce di beffa, ma non trovando nulla scoppiò a ridere, mentre lui rimaneva imperturbabile, o almeno ci provava, ma i muscoli intorno ai suoi occhi erano rilassati.

“È una questione seria. Finiranno con l’ammazzarsi a vicenda per sbaglio se continueranno a litigar per ogni cosa.”

“Dai loro un po’ di tempo e fiducia. Una sana competizione può migliorare entrambi.”

“Il fatto che tu definisca sana la loro competizione la dice lunga su quanto tempo passi segregata qui dentro. Quindi, oggi pomeriggio, farò chiudere lo studio da Coran e mi farò consegnare la chiave.”

“Da quanto tu e lui andate così d’accordo?” borbottò Allura, seguendo Lotor fuori dalla stanza, facendo entrambi attenzione a staccarsi e riprendere i rispettivi ruoli di Principessa e Jedi, anche se non c’era nessuno nei paraggi.

“Coran mi reputa un ottimo avversario a scacchi. Immagino sia questo.”

Procedettero lungo il corridoio per un po’ in silenzio, l’uno di fianco all’altro, finché Lotor le chiese di fermarsi poggiandole una mano sul braccio.

“Che cosa succede?”

Si guardò intorno, per scrupolo, anche se non avvertiva la presenza di nessuno.

“Hai poi deciso a chi dare la responsabilità della gravidanza?”

“Non ho cambiato idea e non voglio insistere. Questi bambini avranno un padre quando tu li riconoscerai, fino ad allora non ho interesse in pettegolezzi o simili. Nasceranno prima che il lutto per mio padre sia concluso e prima che io diventi Regina di Altea, non sono quindi tenuta a rivelare nulla su di loro.”

Ma Lotor aveva ascoltato solo metà del discorso. Poggiò una mano sulla curva di quasi cinque mesi di Allura, cercando poi i suoi occhi.

“Non mi avevi detto fossero gemelli” mormorò con un piccolo sorriso che era solo un decimo dell’emozione che sentiva dentro.

“Sì, be’, volevo fosse una sorpresa in realtà, ma i corredi che ho ordinato non sono ancora pronti…”

Lotor corrugò la fronte, la domanda gli si leggeva negli occhi e Allura l’aveva già intuita.

“Saranno due splendide principesse.”

Tutto precipitò nei tre mesi successivi.

Iniziò con il fallimento della missione dei Maestri Ulaz, Thace e Antok, che dal giorno in cui lasciarono il Tempio non vi fecero più ritorno. La perdita di tre importanti Jedi fu solo l’inizio della caduta definitiva di un piano già in sé inclinato. Gli attacchi del Conte Sendak, dei Sith al suo comando e dei droidi dei Separatisti erano estenuanti e stavano infiacchendo le difese della Repubblica, oltre che la sua autorità, di giorno in giorno. L’impiego dell’esercito di cloni (a cui Shiro guardava ancora con riserva per il patto stretto con la Cancelliera Honerva) sembrava portare solo benefici apparenti, dato che a ogni vittoria seguiva una pressoché inevitabile sconfitta.

La stessa Suprema Cancelliera, tuttavia, continuava a sostenere pubblicamente che la Repubblica avrebbe superato la crisi, quando poi, in privato, confidava le sue perplessità sui metodi, a suo dire, troppo antiquati e lenti.

Lotor non poteva evitare di sentire quei discorsi da quando era stato richiamato come guardia della Cancelliera, un compito su cui Kolivan non aveva voluto sentire ragioni, sostenendo che le minacce ad Allura sembravano scampate e che la sola presenza del Maestro Shiro e del padawan Lance sarebbe bastata a proteggere lei e i nascituri.

“Credi che la Cancelliera abbia ragione quando parla di lentezza nei meccanismi della Repubblica?” la domanda di Keith risvegliò Lotor dai propri pensieri.

“Tu cosa ne pensi?” rigirò la domanda il Maestro, scostandosi dalla vetrata dove fuori infuriava la pioggia. Erano in uno dei corridoi circolari che abbracciavano il Senato. Pochi passi e si sarebbero potuti affacciare sulla seduta in atto, sentendo anche meglio tutte quelle voci di politici che urlavano senza raggiungere soluzioni. In quel momento passò una piccola guarnigione di Cloni a pattugliare l’area e Keith si rabbuiò, voltandosi a guardare il panorama grigio oltre il vetro.

“Dovremmo dare la caccia a Sendak una volta per tutte e non stare qui a sentire queste chiacchiere” sbottò il padawan con astio. Con un’occhiata, Lotor si accertò che fossero soli.

“Sei nervoso da quando abbiamo lasciato Altea.”

Keith gli lanciò un’occhiata di sbieco.

“Tu no? Allura-”

“La Senatrice Allura. O Principessa. Rispetto, padawan.”

Keith sbuffò. “La Principessa è sempre stata nel mirino di Sendak. Ora solo perché non presenzia ufficialmente alle sedute date le sue condizioni, i Maestri pensano che sia meno in pericolo?”

Lotor lo scrutò attentamente in viso, tradendo il proprio nervosismo nell’incrociare le braccia a sua volta. “È ammirevole la tua premura verso la Principessa, ma mi chiedo se non sia un modo per mascherare la tua reale preoccupazione per Shiro. Sappiamo entrambi che anche lui è un obiettivo di Sendak.”

La mascella di Keith era così rigida che sembrava potesse spezzarsi. La sclera dei suoi occhi si tinse per un secondo di un bagliore giallo, mentre le iridi si assottigliavano, rivelando la sua natura Galra.  

Lotor sentì distintamente un tremore nella Forza.

Keith, calmati.”

“Stiamo solo perdendo tempo. Basterebbe una manciata di noi per sistemare la questione.”

“Stai parlando a tutti gli effetti come un generale Galra Separatista.”

Il ragazzo lo guardò un’ultima volta come se da un momento all’altro potesse attaccarlo, ma poi si arrese, appoggiandosi al vetro freddo con i palmi per placarsi.

“Lance mi ha confidato che ha un brutto presentimento.”

Questa volta Lotor lo guardò senza capire. “Cosa intendi? E da quando tu e lui parlate civilmente?”

Keith sorvolò sull’ultima domanda. “Secondo Lance, da un po’ di tempo l’equilibrio nella Forza è compromesso… e che il momento in cui il Lato Oscuro prevarrà è vicino.”

Lotor si massaggiò una tempia con pazienza. “Il fatto che Lance sia sensibile ai cambiamenti della Forza non fa di lui un indovino. Non è così che funziona. E usa termini troppo fatalisti.”

“Quando il Maestro Slav inizia a blaterare di percentuali calcolate in base alle vibrazioni della Forza però lo ascoltate.”

“Il Maestro Slav ha qualche decina di anni in più di esperienza, insieme a un passato di torture che lo hanno destabilizzato, ma rimane un Maestro capace e saggio.”

L’espressione di Keith era l’apoteosi del dubbio che voleva dire non ci credi nemmeno tu, ma lasciò perdere. “Mi fido di Lance” aggiunse soltanto.

“Questo, a mio avviso, è un turbamento nella Forza legittimo.”

Prima che Keith potesse protestare, qualcuno lo chiamò. Chiamò entrambi.

“Keith! Maestro Lotor!”

Col fiatone, dal corridoio spuntò Hunk, l’ingegnere di fiducia della Principessa Allura per le sue starship. Arrivò davanti a loro piegandosi in due per lo sforzo, mandando giù boccate d’aria.

“Hunk cosa fai qua?” chiese Keith scettico, ma l’altro ragazzo alzò una mano per chiedere ancora qualche secondo. Quando si rialzò, la pattuglia di Cloni passò di nuovo di fianco a loro e Hunk si distrasse a salutarli, riconoscendoli tutti da alcuni dettagli delle suit.

“Ehi, Kuron, Black, Space Dad, tutto ok ragazzi?”

Hunk” lo riprese Keith, anche fisicamente per una manica, guardandolo storto. Lotor fece cenno ai Cloni di proseguire.

“Oh, che modi. Sono ragazzi simpatici e rischiano la loro vita ogni giorno!” protestò l’ingegnere con un broncio tenero specchio capovolto di quello perennemente irritato dell’amico padawan.

“Hunk perché sei qui?” chiese calmo Lotor.

“La Principessa Allura vi vorrebbe come ospiti a cena questa sera! L’invito è anche per la Supremo Cancelliera, cioè è rivolto formalmente a lei, scusate, ho una lettera speciale con il sigillo della Principessa. A voi posso dirlo così, da amici” il ragazzo sorrise ampiamente.

Lotor e Keith si scambiarono un’occhiata scettica.

“Neanche partissimo adesso potremmo arrivare ad Altea in tempo per la cena” bofonchiò Keith.

“E date le condizioni attuali della Principessa, le è vietato generare dei wormhole” aggiunse Lotor con un pessimo presentimento, anche se l’espressione di Hunk non cambiò di una virgola e iniziò a fiutare l’opzione che non voleva contemplare e che arrivò con la risposta entusiasta del ragazzone.

“Be’, in realtà gli appartamenti della Principessa si vedono anche da qui!” disse, indicando un palazzo sull’orizzonte cittadino. “Siamo arrivati nel primo pomeriggio! Tempo infausto a Coruscant, non il migliore per viaggiare, ma sorpresa!”

Maestro e apprendista ebbero bisogno di qualche attimo per rispondere, soprattutto il primo.

“La Principessa non è stata autorizzata a venire qui.”

C’era una vena gelida nel tono di Lotor che sgonfiò completamente l’entusiasmo di Hunk.

“Ehm, non per mancarle di rispetto Maestro Jedi, ma la Principessa Allura non deve chiedere il permesso a nessuno per intraprendere i propri viaggi. Ecco, al massimo il parere di un medico.”

“È all’ottavo mese” precisò Lotor gelido, come se dovesse essere un motivo valido per tutti per fermarla.  “Shiro sa che non deve assecondarla.”

Hunk guardò Keith in cerca di aiuto, mentre si torturava le dita tra loro.

“Senta, Maestro Lotor, penso anche io che muoversi nelle condizioni, ehm, ingombranti, della Principessa non sia il massimo, ma il medico è con lei e la gravidanza procede a gonfie vele. In più se è Shiro a pilotare sembra di stare in crociera, per una volta nemmeno io ho vomitato. Quindi, dicevo, stanno tutte e tre bene. Gemelle, eheh, saranno meravigliose” concluse, dando una gomitata a Keith ancora in cerca di manforte.

“Nessuno mi ha informato.” Qualsiasi aplomb Lotor fosse riuscito a mantenere, in quell’ultima replica infuse una rabbia gelida da far venire i brividi sia a Hunk sia a Keith.

“Cosa sta succedendo qui?”

A spezzare la situazione fu una voce altrettanto vibrante. La Cancelliera Honerva era alle loro spalle, scortata da due guardie del Senato. La seduta si era conclusa senza che se ne accorgessero. “Maestro Lotor, ci sono problemi? Chi è quest’uomo?”

“Oh, eh, salve! Hunk, piacere! Ma nessuno in realtà, un semplice ingegnere che si diletta di meccanica alteana. Ma ho qui per voi un invito a cena da parte della Principessa Allura!” Hunk sottovalutò i propri movimenti frettolosi nell’infilare in tasca le mani e si ritrovò le armi delle due guardie spianate davanti. Keith intervenne, frapponendosi in mezzo, dato che Lotor sembrava presente solo fisicamente.

“È tutto apposto. È davvero l’ingegnere delle navi della Principessa Allura. È un amico” spiegò il padawan, invitando Hunk a porgere l’invito.

“Credevo che la Principessa Allura fosse a riposo per la gravidanza” commentò la Cancelliera, scorrendo la missiva.

“A quanto pare no” replicò Lotor, guadagnandosi occhiate da parte di tutti per l’acredine che si lasciò scappare. Si ricompose l’istante dopo, guardando la madre con la consueta espressione di fredda alterigia. Entrambi avevano imparato a comunicare seguendo i dettami dei loro ruoli. “Intende presenziare, Cancelliera?”

La donna ripiegò la lettera, spostando lo sguardo dal figlio a Hunk.

“Informate la Principessa Allura che attenderò volentieri alla cena. Sento la mancanza per i piatti tipici del mio pianeta natale.”

“Perfetto! Grande! Anche se sulla cucina alteana-” Keith diede una gomitata all’amico prima che potesse finire di dire la sua. “Sì, dicevo, comunicherò subito la vostra risposta alla Principessa. Venga dalle otto in poi! A più tardi!” e Hunk se ne andò com’era arrivato, lasciando un po’ perplessi i restati per il tono amichevole con cui si era rivolto alla più alta carica della Repubblica.

Lotor lasciò a Keith il compito di scortare la Cancelliera e si presentò in anticipo presso gli appartamenti della futura Regina di Altea. Ignorando Lance e Shiro, a cui lanciò un’occhiata ricca di biasimo, si diresse direttamente nella camera di Allura.

“Devo parlare con la Principessa. Da Solo” esordì, mandando fuori la servitù, tra cui la stessa Pidge che uscì a braccia incrociate sbuffando. “Che cosa significa?” esordì di nuovo il Jedi, una volta che si fu richiuso la porta alle spalle. Nonostante il tono d’accusa, gli occhi gli caddero sul pancione della donna e una fitta al cuore rischiò di intenerire i suoi intenti.

“Oh, ciao! Anche noi stiamo bene. Era più di un mese che non ti facevi vivo” replicò Allura piccata, ma si alzò ugualmente per andare incontro al suo amato.

Nonostante fosse alterato, Lotor non riuscì a impedirle di stringerlo o impedirsi di abbassarsi per baciarla. Era la perfetta visione reale che tutte le notti desiderava vedere. Ma questo non  placò la sua preoccupazione, che tornò a strisciargli addosso.

“Perché sei venuta qui? Non è sicuro.”

“Sappiamo entrambi che neanche Altea lo è del tutto. Senza di te meno che mai.”

Si abbracciarono di nuovo e Lotor le poggiò il mento sulla testa, chiudendo gli occhi. Avrebbe potuto rimproverarla e rimanere indispettito nei suoi confronti anche per tutta la sera, ma ciò avrebbe contribuito solo ad allargare la pozza di oscurità che si portava dentro ormai da un po’, e in quel momento, anche il solo tenere Allura tra le braccia, stava aiutando a risanare.

“Vorrei che una volta nate le bambine ti prendessi un po’ di tempo lontano da tutto questo. Sarai vulnerabile e io non potrò proteggervi. Non voglio che vi accada nulla, non-”

Allura lo baciò di nuovo tenendogli il viso tra le mani e poggiando la fronte contro la sua quando separò le loro labbra.

“Staremo bene. Saremo felici. Tutti e quattro.”

Lotor avrebbe voluto crederci davvero.

Allura sospirò, tornando a guardarlo e regalandogli un’ultima carezza sulla guancia.

“Stavo finendo di prepararmi, prima che irrompessi qui come un marito geloso. La Cancelliera sarà qui a momenti” e lo disse storcendo il naso, neanche avesse sentito un pessimo odore.

“Perché l’hai invitata, se non volevi vederla?”

“Speravo rifiutasse, così tu e Keith avreste potuto prendervi una serata libera. Però non potevo invitare solo voi due, visto che devi restare attaccato a lei per via dei tuoi doveri, anche se adesso mi sembra che tu non lo stia facendo…”

“Keith è più che in grado di scortare la Cancelliera da un appartamento a un altro.”

“Immagino che con tua madre… i rapporti non siano cambiati?”

“Preferiresti di sì? Vorresti chiamarla suocera?”

“Riesci a non rispondere con una domanda?” sbuffò Allura, staccandosi per tornare verso la specchiera e riprendere a sistemarsi. “E non vorrei chiamarla in nessuna maniera. Per quanto Alteana… non riesco a fidarmi completamente di lei.”

“Su questo siamo d’accordo” assentì Lotor.

Allura lo guardò attraverso il riflesso nello specchio, mordicchiandosi un labbro non ancora truccato. “Rimane pur sempre tua madre però…”

Lotor non distolse lo sguardo e sentì la risposta salirgli dalle viscere. “Mia madre è una donna che non ho mai conosciuto” sibilò, sentendo la Forza rumoreggiargli dentro come i tuoni di un temporale. “O vogliamo parlare di mio padre anche?”

La Principessa distolse lo sguardo con un gesto di diniego, senza insistere. “Non volevo indisporti.”

Il Jedi si voltò a guardare fuori dalla finestra cercando di riprendere a respirare regolarmente. Qualcuno bussò alla porta. Era Shiro. Li guardò entrambi, ma focalizzandosi su Lotor. “Tutto bene?” Negli occhi si leggeva che doveva aver percepito il turbamento del proprio Maestro, che tuttavia non si girò e non gli rispose.

“Sì” rispose Allura, cercando di sorridere. “Di là è tutto pronto?”

Shiro assentì. “Keith ha avvertito che saranno qui tra quindici minuti.”

“Grazie. Puoi chiedere a Pidge di tornare qui per aiutarmi tra cinque minuti?”

Il neo Maestro Jedi annuì, chiudendosi la porta alle spalle. Lotor si avvicinò di nuovo ad Allura, scostandole i capelli da una spalla e chinandosi a baciarla.

“Non voglio litigare con te. Non ora.”

“Neanche io” concordò la Principessa, reclinando la testa di lato.

“Ma vorrei sapervi al sicuro. Non potete rimanere qui. Non ora che manca così poco” continuò il Jedi, ricambiando il suo sguardo dallo specchio.

Allura si voltò, una mano salda sul pancione, e l’altra che andò a poggiarsi sulla guancia dell’amante. “Una settimana, non ti chiedo altro. Sono venuta anche perché ho bisogno di parlare di alcune questioni con i vecchi sostenitori di mio padre. Poi tornerò ad Altea e ti aspetteremo lì, tutte e tre.”

Lotor le baciò il palmo della madre, il dolore che lo spezzava dentro.



Quella settimana diventarono tre, ma Allura non fece mai ritorno ad Altea se non in una bara di cristallo.

La Repubblica cadde in mano ai Sith e ai Separatisti, ma nessuno aveva potuto prevedere che l’oscurità in cui furono inghiottiti provenne dall’interno. La Suprema Cancelliera Honerva gettò la maschera, rivelandosi come quell’oscura Maestra dei Sith di nome Haggar a cui il Tempio Jedi aveva dato la caccia fino a quel momento senza sapere che avevano protetto la minaccia fino a quel momento.

E senza che Kolivan o Shiro riuscissero a prevederlo o fermarla, Haggar coercì Lotor, facendo pressioni su quel lato oscuro che da mesi si stava allargando dentro di lui, inghiottendolo dall’interno. Nella smania di proteggere la Principessa, Lotor finì col ridurla in fin di vita. Il parto prematuro, la perdita di Lotor e della speranza la spensero lentamente, sotto gli occhi disperati di Shiro, che aveva visto tutte le proprie certezze franargli sotto i piedi.

Lance abbandonò l’ordine dei Jedi e fece ritorno ad Altea come futuro Re insieme alle spoglie della cugina. Keith rimase al suo fianco, rinunciando a sua volta ai voti, seppur continuò ad agire nell’ombra, entrando a far parte di quelli che un giorno sarebbero stati riconosciuti come l’Alleanza Ribelle tramite Matt, il fratello di Pidge. Delle principesse gemelle fu sparsa la voce che entrambe fossero morte insieme alla madre. Col cuore spezzato dal dolore, Shiro prese una delle due bambine e la portò con sé su Tatooine, dove si nascose e vegliò su di lei per gli anni a venire, mentre la sorella fu affidata a Blaytz, che la adottò a tutti gli effetti come principessa del proprio regno.
Di Lotor, per lunghi anni, non si seppe più nulla, mentre l’universo veniva riplasmato come Impero.


sidralake: (Default)
 

Cow-T, sesta settimana, M2

Prompt: Protectiveness, physically or verbally defending someone

Numero parole: 6464

Rating: NSFW (ma poco)


Fandom: Voltron LD

Personaggi/Ship: Shiro & Keith & Lance

Note: ambientata da qualche parte durante la S2, dopo l’episodio 8. È ‘na roba, senza né capo né coda. Volevo scriverla colo per il “Tempo Morto” >>






Mentre dagli spalti dell'Arena provenivano schiamazzi e suoni rimbombanti, l'aria nel corridoio di ingresso era tesa e stagnante.

"Porca puttana" sibilò tra i denti Lance accovacciandosi e tenendosi il braccio sinistro stretto al petto con l'altro. Aveva ancora metà del viso coperto di sangue, le ciglia che si appiccicavano tra loro in modo sgradevole.

"In piedi!" gli abbaiò la guardia, tirandolo su proprio per la spalla dolente, strappandogli un gemito che attirò l'attenzione anche degli altri prigionieri.

Keith scattò prima ancora che la guardia potesse percuotere Lance e si mise in mezzo, pronto a prendere il colpo con aria di sfida, ma niente arrivò anche solo a sfiorarlo. Se l'atmosfera prima era tesa, divenne solida in un battito di ciglia.

"È già ferito" tuonò Shiro, incurante del fatto che tutte le guardie gli stavano puntando le armi addosso. Non c'era un fiato se non quello di Lance e da un momento all’altro sembrava dovesse scoppiare l’inferno.

"Riposo" ordinò una voce. I soldati tornarono ai loro posti e l'attenzione fu catalizzata sul nuovo arrivato, il più alto in grado lì a giudicare dall'armatura. Il volto di Shiro si rabbuiò, mentre i prigionieri più in fondo iniziarono a mormorare tra loro qualcosa che suonava come è arrivato il Carceriere.

Intanto, nell'Arena, l'incontro in corso stava procedendo, tra le grida sempre più invasate degli spettatori.

"Il prossimo turno è tra pochi dobosh. Sarà un Tempo Morto tre contro uno. Lasciate solo i paladini di Voltron e allontanate tutti gli altri."

Le guardie sgomberarono il corridoio in pochi minuti, mentre il Comandante Drav si voltava verso i tre rimasti, valutandoli.

"Entrerà prima quello ferito, poi l'altro piccolo. Il Campione sarà l'ultimo" dispose e le guardie assentirono.

L'espressione di puro rancore sul volto di Keith non si affievolì, anche quando con lo sguardo cercò quello di Shiro senza capire di che cosa stesse parlando il Galra in comando. Nel mentre, Lance era troppo frastornato dal dolore per sentirsi spaventato adeguatamente.

"Che cazzo sta dicendo" gemette, girandosi anche lui verso il paladino nero.

Il Carceriere addolcì l'espressione in un sorriso affabile.

"Lascio spiegare a te, Campione, in cosa consista un Tempo Morto. Te lo ricordi?"

Non c'era una singola cicatrice sul corpo di Shiro che in quel momento non bruciasse per essere di nuovo lì, prigioniero nelle Arene Galra. Erano stati catturati durante una missione di liberazione che si era trasformata in un’imboscata. Ancora non riusciva a capacitarsene. Avevano lottato, ma quando Lance era stato ferito le cose erano precipitate. Probabilmente, se fosse stato solo, sarebbe impazzito, ma con lui erano stati catturati e trascinati anche Keith e Lance; il solo pensiero che potessero andare incontro agli orrori subiti da lui stesso in passato lo aveva indotto a una calma glaciale, in grado di tenere a bada il ribollire sotto pelle. Strinse i pugni, fissando con astio Drav come un tempo si sarebbe soltanto sognato di fare.

"Il Tempo Morto è un incontro a tempi. Saremo tre contro un solo sfidante, ma entreremo a turno dentro l'arena. Prima Lance, poi Keith, poi io. A distanza di tre... dobosh l'uno dall'altro."

"Quattro dobosh. Abbiamo deciso di divertirci un po' di più" lo corresse il Carceriere.

Il paladino nero sembrava pronto a saltargli alla gola.

"Possiamo farcela" affermò Lance, stirando un risolino sbilenco. "Tre contro uno. Ci stanno sottovalutando."

"Ho visto bene a mandare prima dentro te, vedo" commentò Drav sulla stessa ilarità. "Il primo turno di un Tempo Morto è quello della Carne da Macello. Uno stuzzichino per l'opponente. I Tempi Morti sono interessanti quando capitano prigionieri come voi, compagni di armi. Anche se gli incontri più toccanti sono quelli con le coppiette. Vedere l'amato o l'amata cercare di sopravvivere per tre dobosh senza poter fare niente. È toccante."

Lance non era più così sicuro della propria affermazione. Si voltò verso i compagni.

"Quattro dobosh durano poco" disse, senza sapere bene che cosa volesse intendere lui stesso, ma in cerca di sostegno. Anche se Shiro ricambiò lo sguardo, la sua mascella era troppo contratta per riuscire a farlo parlare. Un boato esplose dalle tribune, ma nessuno ci prestò attenzione, lì nel corridoio di ingresso.

"Quattro dobosh possono durare molto o poco, piccolo paladino, dipende dalle tue capacità. Hai le gambe lunghe, prova a correre più che puoi. Ma non sarai messo in panchina allo scadere del tuo tempo, anzi. Campione, non hai parlato di come finisce l'incontro."

Non ci furono spiegazioni da parte dell'interpellato, così Drav continuò.

"Il Tempo Morto finisce quando una delle due fazioni viene terminata. Quindi resterai nell'arena fino a quando ucciderete il vostro opponente-"

"O quando verremo uccisi noi" concluse Keith, lapidario. "Vittoria o morte."

Drav spostò la sua attenzione sul paladino rosso, assottigliando lo sguardo. "Circolano voci bizzarre su di te. Si dice che tu sia un piccolo ibrido Galra. Ci riserverai delle sorprese?" Come Shiro, anche Keith non rispose.

Si sentì un suono profondo e riverberante, che coprì per pochi istanti gli strepiti del pubblico.

"L'incontro è finito. Tra cinque dobosh cominciamo" annunciò Drav, guardando impassibile mentre l'arena veniva sgomberata dai precedenti lottatori.

Shiro approfittò della distrazione e del nuovo baccano per avvicinarsi a Lance.

"Ascoltami" iniziò serissimo e impersonale; sembrava che la sua voce fosse di qualcun altro. "Scappa. Qualsiasi sia la creatura che ci troveremo di fronte, non cercare di combatterla. Non sei nelle condizioni di sostenere una lotta."

Lance era spaventato come mai in vita sua. "Sì, ok, ma..."

Shiro si rivolse al paladino rosso. "Keith, a te daranno un'arma, ma sarà inutile. Vogliono vedervi soffrire. Vogliono che io vi veda morire. Non dategli questa soddisfazione. Il nostro avversario tenterà di uccidere per primo Lance anche quando saremo dentro tutti e tre, perché sarà il nostro punto debole."

"Ho capito" annuì Keith.

"Ragazzi mi state spaventando..." mormorò Lance, sentendo l'angoscia annidarsi nello stomaco con un senso di nausea più forte del dolore al braccio.

"Resta vivo" gli ordinò Shiro e non c'era compassione nei suoi occhi. Questo fece più male a Lance di qualsiasi altra cosa. Il paladino blu afferrò quello nero per il braccio, nel bisogno di dirgli qualcosa, di avere qualcos’altro oltre quelle parole, ma lo sentì così rigido che le dita non provarono neanche a stringerlo.

"Lance" lo chiamò Keith, mettendosi tra di loro e guardando il compagno negli occhi. "Vinceremo noi, ma devi rimanere lucido. Se ti viene un'idea... dimmela e basta, niente segnali. Lo sai che li interpreto male" e accennò un sorriso che avrebbe voluto infondere sicurezza in memoria di qualcosa che avevano già fatto. Tuttavia, il terrore stava divorando Lance al punto che non riuscì neanche a rispondere, non senza che Keith gli appoggiasse una mano sulla spalla sana, per scuoterlo leggermente. "Lance, rimani concentrato. Hai capito cosa ho detto?"

Il paladino blu abbassò lo sguardo e annuì. "Scappo. Analizzo. Non mi metto in mezzo perché sono il punto debole."

"Sei ferito" gli ricordò Keith, che dette un'occhiata a Shiro in cerca di appoggio, ma l'uomo non pareva li stesse ascoltando; la sua postura era rigida, il suo sguardo fisso sul centro dell'arena. Il paladino rosso riprese il discorso. "Analizza il nemico. Sarai quello con più tempo per trovare dove colpirlo. Ok?"

"... ok."



Lance fu buttato nell’Arena con uno spintone. Incespicò sui piedi per non cadere, ma fu l’ultimo dei suoi pensieri quando si ritrovò a essere fissato da centinaia, migliaia di occhi sconosciuti che subito gli fischiarono e gli urlarono contro. Peggio solo di quel trattamento c’era l’odore di morte che impestava l’atmosfera. C’erano chiazze a macchiare il pavimento, non solo rosse, ma di qualsiasi fosse il colore si capiva che fosse sangue, se non anche qualcosa di più. Tentò di trattenere i conati di vomito e ci riuscì solo perché fu distratto dall’annuncio per far entrare lo sfidante. Qualcuno stava parlando con un qualche tipo di microfono, non riusciva a individuare dove e non lo stava ad ascoltare, anche se aveva sentito nominare già “paladino blu”, “Voltron” e “perdenti”. Ci fu un rombare crescente, una sorta di countdown di urla, quando si aprì una grata simile a quella da cui era stato fatto uscire lui, ma molto, molto più alta e larga.

La creatura che Lance si trovò di fronte sarebbe potuta essere l’ultima cosa che avrebbe visto in vita sua. Alta, grossa e incattivita. Non dava l’idea di un essere senziente, non più per lo meno, dallo sguardo dilatato e sgranato. In un altro momento lo avrebbe definito come un qualche animale selvaggio uscito da Star Wars, ma sapere quella cosa viva, reale e in procinto di dilaniarlo, gli fece accantonare qualsiasi paragone e prenderlo per ciò che era: la sua morte.

“Resta vivo, Lance” si ripeté, stringendosi il braccio ferito per avere una scarica di dolore che lo svegliasse. “Quattro dobosh ed entra Keith. Keith il domatore di bestie. Altri quattro dobosh e poi Shiro metterà fine a tutto.”

L’annunciatore continuò a parlare e Lance continuò a sentire solo il sangue pompargli nelle orecchie come una tempesta. Solo quando si udì di nuovo il gong capì che era iniziata. Il mostro davanti a lui - uno Wazrog se aveva capito bene - spalancò le fauci e spianò le sue tre file di denti. Lance poté immaginarsi maciullato da quegli spuntoni grandi quanto la sua mano e non ebbe bisogno di imporsi di scappare. Scartò di lato, cercando un riparo che si accorse subito non c’era.

“Scappa” si disse ancora a voce alta. Il terreno tremò sotto ai suoi piedi e gli fece quasi perdere l'equilibrio. La creatura barrì, battendo in terra con le quattro zampe anteriori, graffiando il terreno. Lance la vide caricarlo e si tuffò dietro una delle quattro colonne all’ultimo. Il pilone scricchiolò quando tutta la potenza della belva gli finì addosso. Lo stesso paladino si ritrovò per terra per l’urto, ma almeno era scampato al primo inseguimento. Si guardò alle spalle e la creatura si stava scrollando la testa dopo la botta.

Incespicando, Lance si rimise in piedi e si allontanò, cercando di girare intorno alla bestia e trovare un punto cieco. Aveva i polmoni in fiamme e sentiva la tuta nera da paladino madida di sudore, ma cercò di focalizzarsi. Aveva una bestia enorme davanti, quattro zampe anteriori (una meccanica) e due posteriori, queste ultime flessibili e agili come quelle di un gatto. Il corpo era percorso da cicatrici, nonostante sembrasse avere una pelle spessa e dura, e uno dei corni in testa era spezzato. Aveva anche una coda poderosa, forse la parte con cui meno Lance avrebbe voluto avere a che fare dopo la bocca; un colpo di frusta e gli avrebbe spezzato la schiena.

La creatura levò di nuovo il proprio verso, vibrando nell’aria tanto da paralizzare il paladino anche solo così. Che possibilità avrebbero avuto? Non vedeva punti da colpire, non senza un’arma, e l’unica sarebbe stato il braccio di Shiro, una volta entrato, ma sarebbe bastato da solo?

Lance muoviti!” l’urlo era proprio del paladino nero, trattenuto dalle guardie nell’ingresso del corridoio. Il ragazzo si riebbe, avvertendo di nuovo il terreno tremare sotto le suole. Riprese a correre, nonostante i muscoli tesi dalla paura gli facessero male. Quanto tempo era passato? C’era un timer da qualche parte? Quanto sarebbero durati quattro dobosh in fuga per la propria vita?

Raggiunse di nuovo una delle colonne, piazzandocisi di fronte. Prima era stato un colpo di fortuna, ma ora poteva provare a usare con coscienza quell’inganno. Un trucco semplice, ma la bestia sembrava del tipo che cacciava finché non aveva la preda tra le zampe, o forse no da come si era fermata a qualche metro da Lance, artigliando il terreno e creando dei solchi. Sfidò l’umano con un verso più simile a un ululato, ma non si mosse. L’impazienza stava montando rapidamente in Lance, logorandogli i nervi.

“Andiamo!” gridò, allargando il braccio che non gli faceva male. “Vieni a prendermi!”

Da qualche parte qualcuno stava gridando contro il vociare delle folle, ma Lance non sentiva niente, concentrato sul momento in cui sarebbe dovuto scattare per togliersi di mezzo. La bestia partì, ma non corse come aveva fatto fino a quel momento: balzò in avanti. Colto alla sprovvista, Lance scattò a sua volta, ma in ritardo. Una delle zampe gli si parò davanti, sbarrandogli la fuga. Fu davvero questione di secondi; il paladino non trovò altra soluzione se non buttardi in terra all’ultimo. Non capì neanche cosa successe dopo che qualcosa lo colpì, togliendogli il fiato. Tutto si fece ovattato, mentre rotolava finendo in una delle pozze di sangue.

Il Wazrog aveva battuto comunque contro il pilastro un’altra volta e il suo grido di dolore riecheggiò tra gli spalti, ma per Lance fu solo il rimbombare di un incubo.

Cercò di tirarsi in piedi, ma aveva sbattuto anche il braccio ferito e il dolore gli mozzò il fiato. Il sangue su cui era finito gli diede la nausea, facendolo scivolare quando tentò di alzarsi.

Scappa. Non sei nelle condizioni di sostenere la lotta.

La voce di Shiro gli risuonò di nuovo tra le tempie, smorzandogli ulteriormente le energie. Non sarebbe riuscito a rimettersi in piedi. Era ferito. Ma anche non lo fosse stato, rimaneva l’anello debole tra Shiro e Keith. Loro erano fatti per sopravvivere lì dentro, non lui. Lui era un pilota di cargo che aveva sprecato la sua seconda possibilità. Paladino dell’universo, poi? Lui, che era senza talenti? Si rivoltò sulla schiena, rimanendo sdraiato. Non vedeva il soffitto dell’Arena perché era troppo buio. Di lì a poco ci sarebbe stato solo quello, con forse una luce in fondo al tunnel, come si raccontava. Voleva chiedere scusa per essere quell’inutile peso. Alla sua famiglia e ai loro sacrifici, ai suoi amici perché non era stato all’altezza. Agli altri paladini, che avrebbero dovuto trovare qualcuno migliore per il Leone Blu.

Il pavimento stava tremando di nuovo. Lance realizzò che fosse ormai davvero finita quando avvertì la presenza del Wazrog sopra di sé, a oscurare le luci dell’Arena e a riscaldare l’aria col suo fiato. Che schifo morire masticati, pensò, e l’idea lo disgustò al punto da farlo retrocedere e ripensarci a giacere lì in quella pozza di sangue vischioso e puzzolente. Ma non andò lontano quando con la mano scivolò un’altra volta, finendo di nuovo schiena a terra. Dalle tribune era ricominciato un ritmo serrato di urla. Ci fu anche il gong che doveva sancire il termine dello scontro, ormai chiaro. Il paladino blu serrò gli occhi.

Non ci fu nulla ad annunciare il colpo che prese Lance al fianco, e che non assomigliava per niente a una zanna o un artiglio. Gemette di dolore, ma non ebbe il tempo di lamentarsi davvero, mentre rotolava per terra in un intrico di braccia e gambe.

Cazzo Lance, vuoi morire!? Alzati subito e vai dietro la colonna! ORA!” era Keith e gli urlò nelle orecchie, mentre balzava in piedi. Lance saltò a sua volta più per la scarica di adrenalina che per il dolore che aveva per tutto il corpo. Non si mosse subito, non quando osservò il compagno come un miraggio mentre fronteggiava il nuovo verso di frustrazione e rabbia della bestia. Keith aveva in mano un bastone di metallo, una vecchia lancia a impulso scarica e ammaccata, ma se i Galra avevano supposto che fosse un’arma inutile, il braccio destro di Voltron la sfoggiava come si stesse preparando a piegare l’universo.

“Lance… muoviti” sibilò Keith, guardandolo con la coda dell’occhio - che per un attimo a Lance parve giallo, ma doveva essere una sensazione data dall’intontimento. Inciampò nei propri piedi e il dolore al braccio si risvegliò completamente, facendogli mordere il labbro, ma si avviò al riparo verso la colonna. Udiva i “booo” della folla, ma la sua concentrazione era solo per Keith.

“Stai attento ai balzi!” urlò, guardando come la bestia stesse flettendo le gambe posteriori. Keith tuttavia sembrava pronto; quando il Wazrog saltò puntando le quattro zampe davanti con l’intento di schiacciarlo, saltò anche Keith con l’ausilio della lancia, colpendolo forte su un occhio. Il Wazrog guaì così forte da far male ai timpani e si dimenò perdendo il controllo della caduta, finendo di nuovo contro uno dei piloni, quello dietro cui era nascosto Lance. Senza aspettare segnali, Lance circumnavigò a passo di gazzella la creatura in terra e corse dal paladino rosso.

¡Me salvaste la vida!” gridò, e Keith lo guardò con una smorfia e un’espressione confusa.

“Smettila di distrarti! Non è finita” ringhiò, riposizionandosi con la lancia. “E parla una lingua comprensibile.”

Il Wazrog ruggì e li caricò nello stesso momento, costringendoli a separarsi; diede la caccia prima a Keith, macinando la distanza così velocemente da distruggergli il terreno sotto i piedi con gli artigli. Uno di questi riuscì anche a raggiungerlo di striscio, aprendogli una ferita sul polpaccio, ma questo non fermò il paladino rosso dal correre. Tentò di portare la bestia contro la parete dell’arena per farla schiantare di nuovo, ma questa gli balzò davanti.

KEITH!” urlarono sia Lance sia Shiro a occhi sbarrati. Furono attimi al cardiopalma. Il paladino rosso non si sarebbe potuto fermare in tempo per non finire in bocca al Wazrog, ma sfruttò il terreno viscido; all’ultimo scivolò sotto il corpo della bestia, evitando per un soffio le zanne; si scorticò un braccio e dovette sacrificare l’arma, non prima però di colpire il Wazrog allo stesso occhio. Non gli andò così bene quando la coda, dimenata dal dolore, centrò lui in pieno petto, lanciandolo via.

Ci fu uno scroscio di urla, una doccia gelida per Shiro e Lance mentre quest’ultimo raggiungeva il compagno a terra.

“Sto bene” biascicò Keith riprendendo fiato e forzandosi a rialzarsi.

“Quel colpo deve averti rotto le costole!”

Sto bene! Vai! Dietro una delle colonne, ora!”

Entrambi si precipitarono a nascondersi, mentre il Wazrog barriva il proprio dolore, calpestando il terreno e facendo tremare tutto.

“Direi che ora è a un livello molto incazzato” constatò Lance dal loro riparo. “Sicuro non credo ci veda più da quell’occhio.”

“Devo recuperare il bastone, abbiamo solo quello per attaccare” biascicò Keith, ancora preda del dolore al petto.

“E come pensi di fare?”

“Ce la fai a correre senza farti prendere?”

Lance non rispose come avrebbe fatto di solito, sprezzante e sicuro anche solo dell’idea di dimostrare qualcosa a Keith. Abbassò lo sguardo e si strinse il braccio al petto. Lui era l’anello debole.

“Lance” lo richiamò Keith, cercando di non suonare pressante mentre teneva d’occhio la situazione. “Dovrai solo correre più veloce che puoi. Muoviti da una colonna all’altra. Al resto penserò io. Non ti prenderà.”

La bestia arrancava per il dolore e li stava cercando; il paladino rosso costrinse quello blu a guardarlo in faccia.

“Tu corri a destra, ok? Io corro verso il bastone appena inizia a inseguirti.”

“Lo porto alla colonna… ma non ci sbatterà di nuovo” iniziò Lance, il cervello un passo avanti alla paura. “Però posso… posso farlo impazzire un po’ tenendolo occupato.”

“Attento alla coda” il compagno sembrò soddisfatto.

Lance annuì. “Riesci a colpirlo all’altro occhio?”

Keith ricambiò il gesto. “È quello che voglio fare.”

“Renderlo cieco.”

“Sì. Dobbiamo resistere ancora un minuto e trenta.”

L’ormai famigliare quanto inquietante tremore del terreno li avvertì che non avevano più tempo.

Hasta la later, Keith!” gridò Lance e si lanciò di corsa oltre la colonna. L’inneggiare del pubblico disse al paladino rosso che le cose stavano andando come avevano appena progettato. Corse a sua volta, cercando con lo sguardo la lancia a impulso; l’urto contro la creatura l’aveva sbalzata lontana dal punto in cui lui e il Wazrog avevano impattato. Accelerò il passo quando la individuò in terra.

Keeeeeith!”

In un altro momento sarebbe potuta essere una scena comica. Il paladino rosso aveva appena raccolto il solo mezzo che avevano da mettere tra loro e la bestia, quando voltandosi vide Lance sbracciarsi nella sua direzione.

Corri!” stava gridando, con il Wazrog alle calcagna.

Per quanto reattivo fosse stato Keith fino a quel momento, non sembrava in grado di trasmettere il messaggio ai muscoli di muoversi quando quell’idiota gli stava portando addosso il mostro.

“Muoviti!” strepitò ancora Lance, gesticolando con il braccio sano e alla fine afferrandolo per un polso quando gli passò vicino.

Perché hai puntato a me!?” gridò ora Keith, con i nervi a fior di pelle.

“Non abbiamo parlato della seconda parte del piano! Pensavo intendessi fare un altro faccia a faccia!”

“Mi ha quasi ucciso!”

“È da quasi otto minuti che tenta di uccidere me!”

Le folle parevano divertite da quel teatrino.

“Manca poco” ansimò Keith, che con la coda dell’occhio cercava di capire se avrebbe potuto trovare uno spiraglio di attacco, ma il Wazrog era così grosso e arrabbiato che sembrava di essere rincorsi da un branco di elefanti imbizzarriti.

“Verso la colonna!” ordinò. Alla fine quei quattro piloni che formavano una sorta di ring interno all’arena erano l’unico pseudo riparo che potessero avere. Grandi abbastanza da permettere a due come lui e Lance di sfruttare le proprie dimensioni a vantaggio, considerando come il mostro avrebbe dovuto per forza circumnavigare il pilastro.

Il secondo tempo stava ormai scadendo. Keith continuava a tenerne conto. In tre, con Shiro, sarebbero riusciti a sopraffarre quella creatura. Dovevano resistere ancora un po’ e riuscire a colpire il Wazrog al secondo occhio per ottenere il vantaggio definitivo.

“Quando saremo lì dietro, non starmi in mezzo ai piedi!” urlò Keith. “Devo avere spazio di manovra!”

“Ricevuto!” replicò Lance, senza lamentarsi.

Solo secondi, pensò Keith. Avevano bisogno solo di resistere e sfruttare gli ultimi secondi. Potevano farcela. Dovevano.

Raggiunsero la colonna in scivolata, rotolandoci dietro. Le zampe della bestia sembrarono seguirli e scamparono ai suoi artigli per un baleno, sfruttando la forma stretta e lunga del pilastro per trovare più spazio.

“Spostati!” gridò Keith, pronto a lanciarsi ad attuare il piano. Ma Lance non lo stava ascoltando; stava alzando le braccia davanti il volto in un movimento a rallentatore e di istinto che il paladino rosso non capì finché con la coda dell’occhio non vide un qualcosa muoversi dietro di sé. Era la coda del Wazrog e stava per beccarli. Non la potevano evitare. Il mostro era così grosso da poterli chiudere su due fronti nonostante la colonna in mezzo.

Keith non ebbe neanche il tempo di pensare. Ruotò sul posto quel tanto che bastò per mettere tra sé e il colpo di frusta in arrivo il bastone a impulso. Nello stesso momento l’arena scoppiò in un boato assordante, tra suoni e voci, ma i due ragazzi percepirono solo il dolore.

Se la lancia attutì, la botta fu comunque violentissima. La coda prese Keith di traverso sul busto e lo scagliò indietro, contro Lance, ed entrambi finirono addosso alla colonna e poi in terra.

Keith era inerme sul pavimento sporco, senza fiato per il colpo ricevuto; Lance aveva battuto la testa e non si muoveva.

Lance…” esalò Keith con dolore e la vista sfuocata, allungando la mano verso il compagno e aggrappandosi al suo braccio. Il volto del paladino blu era macchiato di sangue fresco che gocciolava sul terreno. Su entrambi si estese l’ombra e la presenza pesante del Wazrog, insieme al vociare dagli spalti e al suono del gong. Shiro

Keith non chiuse gli occhi, anche quando di fronte a sé ebbe soltanto la bocca della creatura e le sue fila di denti lucide di saliva. Strinse le dita sul braccio di Lance, sperando come poche volte in vita sua.

Sulle tribune si gridava un solo nome, cadenzato da battiti di mani che il ragazzo scandì con i battiti del cuore. Gliene rimanevano pochi, ma sostenne ognuno di loro finché non sentì il suono di una voce famigliare; non stava parlando, ma gridando tutta la propria frustrazione.

Il paladino rosso non vide l’azione in sé, ma potè immaginarla; chiuse gli occhi quando il sangue del Wazrog gli schizzò addosso, caldo, vischioso e con un odore da far vomitare. Shiro fu preciso, sapeva dove voleva colpire per chiudere tutto subito, e il suo braccio meccanico affondò nel collo della bestia mentre era distratta dai due ragazzi.

Il primo pensiero coerente di Keith, mentre le folle esplodevano di acclamazioni per la vittoria lampo del Campione ritornato, fu che almeno Lance, da svenuto, non avvertì nulla, né il fetore né le urla per quella pantomima sadica.

Shiro anche li ignorò; era lì di fianco, rigirando Lance per controllarne le condizioni. Keith lo sentì sospirare tra un ansimo e l’altro.

“È solo… svenuto” disse il mezzo Galra, sputacchiando il sapore disgustoso di sangue che aveva in bocca.

La mano del paladino nero arrivò a tirarlo in piedi mentre ci provava lui stesso, con poco successo. Probabilmente Lance aveva avuto ragione sulla costola rotta, e l’ultimo scontro col mostro poteva averne aggiunte altre. Faticava ancora a respirare e si appoggiò al braccio di Shiro, mentre questi si era caricato Lance sulla spalla, senza aspettare l’arrivo delle guardie a scortarli fuori.

Dagli spalti intanto si udivano ancora gli spettatori osannare il Campione urlando un Bentornato! che faceva desiderare a Keith di fare una strage. Ma anche solo camminare verso l’uscita dell’Arena gli tolse il briciolo di energia rimastagli. Si accasciò contro Shiro, aggrappandosi al suo braccio per non cadere in terra, ma l’ultima cosa che sentì fu Drav dare ordine di portarli in infermeria.



Riprendere i sensi fu più traumatico di quando Keith li aveva persi. Si svegliò bruscamente, con due Galra dal volto coperto che lo stavano esaminando, prelevandogli del sangue. Scattò ancora prima di realizzarlo davvero, rovesciando uno dei due e facendo volare via la siringa. Fu una colluttazione breve, perché l’altro medico gli puntò addosso un blaster, intimandogli di calmarsi.

Fu sbattuto fuori dall’infermeria qualche minuto dopo, massaggiandosi il torace ma solo per una sensazione di pizzicore che per il dolore che aveva provato nell'arena. Se aveva qualcosa di rotto era stato sistemato.

Fuori, ad attenderlo, insieme a altre dozzine di prigionieri, c’erano Shiro e Lance. Il paladino blu era rannicchiato con le ginocchia al petto e il viso nascosto nelle braccia (ora entrambe sane), ancora sporco di sangue; il più grande era di fianco a lui, a braccia conserte, serrate, e guardava un punto cieco sul pavimento. La sua sola aura bastava a creargli il vuoto intorno, riempito da un brusio scandito ogni tanto ancora dalla parola Campione.

Entrambi alzarono il volto a vedere uscire Keith, il sollievo sul viso di entrambi.

“Mi hanno preso del sangue” fu la prima cosa che uscì dalla bocca di Keith, mentre si guardava l'incavo del gomito.

“Fanno di peggio” replicò Shiro senza pensarci e il paladino rosso lo guardò a sguardo sbarrato, imbarazzato. “Scusa. Questo posto-”

“Non importa” tagliò corto Keith.

Intorno a loro il resto dei prigionieri iniziò a muoversi verso il corridoio e Shiro stesso si staccò dal muro.

“Andiamo” disse.

“Dove? Di nuovo nell'arena!?” Lance trasalì, irrigidendosi e stringedosi tra le proprie braccia. Era stanco, sembrava tenere a malapena gli occhi aperti. Anche Keith non si mosse, le dita strette a pugno e le nocche bianche.

Shiro scosse la testa per poi fare cenno agli altri due di seguirlo.

Dieci minuti dopo, Lance si stava guardando in giro paonazzo, appoggiato a un muro per sostenersi. Gli avevano rifilato qualcosa, un antidolorifico, ma era come se gli avessero dato un colpo in testa e poi lo avessero sbattuto in una centrifuga. Finì col coprirsi gli occhi con una mano e lasciare andare un respiro sgretolato.

Erano nella zona docce. Lance non poteva pretendere che fossero bagni decenti, considerando che si trattava pur sempre di una pigione, ma almeno gli stalli per separare le docce, aveva protestato. C’erano dozzine e dozzine di alieni ovunque, nudi come qualsiasi cosa li avesse messi al mondo li aveva fatti. In meno di due minuti aveva visto genitali tali per cui neanche i più fantasiosi contenuti alien biology terrestri potevano prepararlo.

“Non vuoi toglierti quello schifo di dosso?” chiese Keith. Dava le spalle al resto delle docce, ma era rosso in viso anche lui nonostante cercasse di mantenere uno stato apparente di calma. Stava trafficando con la parte superiore della tuta nera da paladino, di quello che rimaneva tra sangue e strappi vari.

“Sì, ma…” Lance sospirò di nuovo, sentendosi così stanco che avrebbe raggiunto la doccia strisciando e ci si sarebbe rannicchiato sotto sperando forse di annegarci. Sempre che ci si dirigesse davvero. Non voleva neanche immaginare che schifo dovesse essere se ogni giorno prigionieri ricoperti di morte ci si lavavano.

“Anche se sono docce in comune, questo è il luogo più pulito che troverete dopo l’infermeria” disse Shiro che si stava liberando anche lui della tuta. “Starete meglio, dopo” concluse, finendo di togliersi quello che aveva addosso. Entrambi i ragazzi lo guardarono, per poi incrociare lo sguardo tra di loro e riabbassarlo, la sfumatura rossa sulle loro gote era molto più accentuata di prima.

Keith seguì l’esempio di Shiro in silenzio, al contrario di Lance che si coprì di nuovo il viso con le mani, desiderando interiormente di poter lasciare andare un urlo di frustrazione.

“Lagnati di meno” borbottò Keith di fianco a lui, a braccia conserte. Anche se il paladino blu non lo vedeva, bastava la sua sola presenza a farlo sentire a disagio, al pensiero che fosse nudo lì vicino. Non che Lance non avesse mai visto altri ragazzi nudi, ma era Keith - e anche Shiro. Nonostante pensasse che fosse colpa delle circostanze, era davvero troppo spossato per reagire e allo stesso tempo troppo in negazione per farlo. Voleva tornare al Castello dei Leoni, nella sua camera e nel suo pigiama blu; ancora meglio, voleva tornare sulla Terra, a casa. Stava davvero vivendo l’incubo di essere prigioniero del nemico? Aveva realmente rischiato di morire neanche un’ora prima, mentre alieni sconosciuti esultavano alla prospettiva? Voleva lavarsi via quello schifo, quel sangue dalla pelle e dai capelli, ma fare anche solo un passo in quel momento avrebbe concretizzato ancora di più quella realtà malata.

Lance.

Ma Lance scosse la testa, le mani premute quasi con dolore sul viso, in completa abnegazione.

Una presa decisa sui suoi polsi lo costrinse ad aprire le mani e guardare in faccia Shiro. Aveva i capelli umidi e già appiccicati alla fronte, l’acqua cadeva in gocce dalla punta del suo naso e dalle sue ciglia sul suo torace esposto, su cicatrici che Lance adocchiò per la prima volta. C’era qualcosa che gli ottenebrava gli occhi, di così profondo che il paladino blu distolse lo sguardo con la sensazione di essere inghiottito. Lui era ancora quello più debole, dopo tutto. Quella situazione era troppo per lui.

“Non sopravvivrai qui se ti tiri indietro” gli disse serio e diretto. Lance si irrigidì nella sua presa e iniziò a respirare dalla bocca, continuando a guardare un punto imprecisato.

Keith si fece più vicino, fissando Shiro con la fronte corrugata e poggiangoli una mano sul braccio. Sembrava di toccare l’acciaio, duro e freddo.

“Shiro” iniziò, ma senza sapere esattamente cosa dire. Nella sua testa suonava come non lo stai aiutando, ma la sua bocca non riusciva a mettere a parole il pensiero. Da quando erano stati portati nell’Arena aveva avuto la sensazione che Shiro fosse lontano, che si fosse alzato un muro tra di loro. Percepiva il bisogno del maggiore di salvaguardarli, ma allo stesso tempo si era accorto di quella rigidità nei loro confronti. La stessa con cui aveva detto a Lance di sopravvivere come fosse un compito da portare a termine, senza empatia. Non era da Shiro.

“Lance è stanco” iniziò, per sentire un attimo dopo la stessa stanchezza di cui parlava gravargli sulle spalle, invisibile ma pressante. “Anche io sono stanco. E…” cercò le parole, ma alla fine si abbandonò all’onestà. “Non ti riconosco, Shiro.”

Il paladino nero strinse involontariamente le dita intorno ai polsi di Lance, che si morse un labbro per non far uscire un suono, non mentre fissava come gli altri due si stavano guardando. Le parole di Keith parevano aver fatto breccia.

Shiro lasciò andare Lance, facendo un passo indietro e passandosi una mano sul viso bagnato. “Mi dispiace” disse, incespicando un po’ sulle parole. “Io…” scosse la testa. “Non avrei mai pensato di ritrovarmi di nuovo qui. Non di nuovo prigioniero e… e sentirmi chiamare Campione” si era preso la testa tra le mani, nel tentativo di bloccare i pensieri e i sentimenti che vi stavano turbinando. “L’ultima cosa che volevo era che qualcuno di voi si ritrovasse in questo inferno… o che… rischiasse di morirci” e fissò entrambi. Per un attimo, gli altri due paladini ebbero la sensazione che il volto del loro leader non fosse bagnato solo dall’acqua delle docce.  

Lance lasciò andare il respiro che aveva bloccato in gola, che suonò come un piccolo singulto, a metà tra sollievo e dolore. Non aveva neanche lui idea di cosa fosse o cosa stesse provando, ma vedere Shiro liberarsi di quelle sensazioni che lo aveva attanagliato fino a quel momento, lo fece stranamente sentire meglio. Sembrava più il paladino, l’eroe che ricordava.

L’attimo dopo, quando Lance cercò di spostarsi dal sostegno del muro per dire qualcosa di confortante, ebbe un piccolo blackout, ritrovandosi sostenuto dalle braccia di entrambi i compagni che lo chiamavano. Fece una smorfia.

“Questo schifo che mi hanno rifilato sta facendo più peggio che meglio” brontolò. Tra l’altro, aveva anche fame, ma sentirsi ancora addosso l’odore di sangue al contempo gli dava la nausea.

“Fatti aiutare. Dopo starai meglio” e memore di averlo detto anche prima, ma con un tono e una distanza senza calore, Shiro aggiunse un piccolo sorriso di scuse. “Dico davvero.”

Lance si ritrovò le dita degli altri due a liberarlo dalla tuta nera da paladino. Fu onestamente imbarazzante per diversi motivi e ringraziò di essere così prostrato dalla cattura, dallo scontro nell’arena e in generale dalle ultime ore per riuscire a dare forma a pensieri ambigui su cui ancora stava scendendo a patti con se stesso. In un altro momento, contesto, futuro, quella vicinanza, quell’aiuto a tratti obbligato, sarebbe potuto essere l’inizio di qualcos’altro di più intimo e profondo. Tuttavia, in quel momento, Lance accettò a occhi chiusi, le palpebre serrate, le mani un po’ impacciate - di Keith - che gli spalmarono addosso quello che probabilmente era sapone, dando sollievo alla sua pelle, e le dita - di Shiro - che gli insaponarono i capelli con gentilezza, per poi passare a togliergli il sangue rappreso anche dal viso. Nessuno dei tre parlò. Lance rimase il più fermo possibile, anche perché non si fidava del proprio equilibrio, ma sapeva che se si fosse sbilanciato gli altri due lo avrebbero afferrato prontamente. La sicurezza di quando erano tutti insieme, come un’unica entità a formare il Difensore dell’Universo, era tornato a pervaderlo e farlo respirare meglio.

A un certo punto Lance doveva aver perso i sensi, perché quando riaprì gli occhi non era più sotto il getto della doccia, ma era sdraiato su una panca e nell’aria c’era un odore di cibo che gli fece gorgogliare lo stomaco.

“Ehi?”

Guardando in alto, dopo aver sbattuto le palpebre un paio di volte per mettere a fuoco, Lance vide Shiro, seduto sulla stessa panca, un cucchiaio di cibo poltiglia viola in mano.

“Sei svenuto sotto la doccia” lo informò Keith, guardandolo dall’altra parte del tavolo, anche lui con un cucchiaio in mano. Aveva una smorfia in faccia, forse per quello che aveva appena riferito, forse per il sapore della roba nel piatto.

Lance si era tirato su, mettendosi a sedere e massaggiandosi la testa per un leggero capogiro. Si accorse che non indossava più la tuta, ma aveva lo stesso completo da prigioniero con cui avevano trovato Shiro quando era piovuto dal cielo prima che tutta quell’avventura nello spazio iniziasse. Anche gli altri due avevano la stessa divisa, logora ma stranamente pulita e inodore. Forse, dopo tutto, i Galra ci tenevano che non scoppiassero epidemie tra i loro prigionieri.

“Mangia qualcosa” suggerì Shiro, spingendogli un piatto davanti. Il paladino blu avrebbe volentieri sbranato un elefante in quel momento, anche se la vista del food goo in parte gli smorzava l’appetito. Si diede un’occhiata intorno. Come fuori dall’infermeria, e poi anche nelle docce, tutti i prigionieri continuavano a lanciare loro occhiate, indirizzate principalmente al Campione, creando intorno a loro una specie di vuoto reverenziale. Non era poi così male, considerando che se la sola presenza di Shiro li teneva lontano da altri guai, probabilmente avrebbero avuto anche il modo e il tempo di pensare a un piano per andarsene. Quel pensiero ottimistico gli fece ingurgitare il primo cucchiaio di poltiglia senza altre riserve. E così tutto il piatto, fino a strappargli un piccolo rutto che gli fece guadagnare un’occhiata schifata da Keith, a cui però rispose con un gesto che sembrava voler scacciare una mosca.

Con un sospiro, si sentì di nuovo stanco e si appoggiò alla spalla di Shiro. “Voglio che ce ne andiamo da qui al più presto” e suonò in tutto come una lamentela delle sue, leggera e capricciosa, ma così piena di speranza da riuscire a strappare un sorriso al più grande.

“Non sarà facile” disse quest’ultimo, scambiando uno sguardo con il paladino rosso. “Anche se ora so come sono fatte queste navi prigione, la prima volta sono stato aiutato. E Drav non ci leverà gli occhi di dosso un attimo.”

“Dici che quan in giro non c’è un’altra Lama di Marmora infiltrata come Ulaz? Avete un codice, una parola segreta con cui riconoscervi?” chiese Lance a Keith, la fronte corrugata seriamente.

Keith roteò gli occhi al soffitto. “No, scemo. Non funziona così.”

“Secondo me non sai neanche come funziona davvero. Sei stato con loro il tempo di farti ridurre a un tiragraffi sanguinolento.”

Keith sembrò sul punto di ribattere, ma Shiro bloccò la loro scaramuccia sul nascere. “Smettetela subito” disse, per quanto anche quello scambio aveva un che di tranquillizzante, essendo una routine a cui si erano abituati e che gli faceva ricordare per cosa sarebbe sopravvissuto quella volta. Per portarli lontano da lì prima che l’Arena li spezzasse come aveva fatto con lui. In un modo o nell’altro sarebbero sopravvissuti.

“La Principessa e gli altri ci staranno cercando” riprese, guardando prima l’uno e poi l’altro. “Riusciranno a trovarci, anche senza Voltron completo. E riguardo l’idea di un membro della Lama infiltrato… tenete gli occhi aperti. Sono certo che anche Kolivan farà in modo di aiutarci. Ma fino a quel momento, restate vivi.”

Restiamo vivi, intendevi dire. Tutti e tre” sottolineò Lance e Keith per una volta fu d’accordo col compagno attaccabrighe, annuendo con risolutezza. Il paladino blu riprese. “Non ce ne andiamo da qui senza di te. Che si fottano i fan del Campione. Tu sei il nostro leader. Senza di te non andiamo da nessuna parte! Siamo come i tre moschettieri ma, ecco, senza D’Artagnan tra le scatole. Uno per tutti?”

Keith gliela lasciò vinta, forzandosi a non rispondere negativamente, ma neanche dandogli corda. Shiro invece sospirò leggero, quasi rise, distendendo le labbra rigide. “E tutti per uno.”   


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Cow-T, quinta settimana, M1

Prompt: In fuga

Numero parole: 921

Rating: SAFE


Fandom: Voltron LD

Personaggi/Ship: Keith/Lance, involontaria Lance/Krolia, Shiro, Kolivan.

Note: post S8?



Sarebbe dovuto essere un capodanno tranquillo, diplomatico date le presenze extraterrestri, ma alle dieci di sera la festa era allo sbando, la musica era a palla con una playlist da balli di gruppo caraibici e qualcuno a caso - Lance, Veronica, Kinkade e Nadia - avevano tirato fuori gli alcolici in anticipo sull'ora prevista.

Un'ora e più dopo, quando Shiro, Keith, Krolia e Kolivan giunsero al party dopo aver finito con gli ultimi incarichi e riunioni di quel giorno (visto che l'universo non si poteva adeguare ai tempi dell'anno terrestre), trovarono più una festa simile a quelle delle confraternite del college che alla più famosa accademia aerospaziale della Terra - nonché sede terrestre dell'Alleanza Galattica.

Persino Iverson li accolse rosso in faccia, sollevando il bicchiere di carta a mo' di saluto.

Shiro e Keith si scambiarono uno sguardo. "Tutto bene, comandante?" provò il Capitano dell'Atlas con discrezione.

"Alla grande figlioli! Non so cosa ci abbia messo qui dentro quel mascalzone di McClain, ma devo strigliarlo di meno!"

Shiro e Keith si guardarono di nuovo. Krolia sbuffò alle loro spalle. "Voi umani reggete proprio male le vostre stesse bevande."

Due cadetti corsero davanti a loro solo coi pantaloni e rincorrendosi con un mocio a cui era stato affissa una stampella e una delle giacche bianche e nere di Shiro.

Kolivan si voltò verso l'ex paladino nero, la fronte corrugata. "È un'usanza per la fine dell'anno terrestre?"

Shiro si stava massaggiando una tempia. "Non esattamente."

"Non si può lasciare Lance da solo cinque minuti" brontolò Keith, guardandosi in giro con occhio critico e stanco, per ritrovarsi improvvisamente un braccio intorno alle spalle insieme a tutto il peso del proprietario.

"Il gatto è tornato!" era Lance stesso e lo disse gridando, ricevendo un urrà da qualche parte in mezzo alla folla. "Ce ne avete messo! Qui ci sentivamo soli senza di voi!" continuò l'ex paladino blu, agitando il bicchiere verso i nuovi arrivati, rischiando di soffocare Keith nel stringerlo.

"E hai fatto ubriacare Iverson per questo?" chiese Shiro, sollevando un sopracciglio ma anche un po' l'angolo della bocca.

Lance si portò l'indice della mano con cui reggeva il bicchiere alle labbra. "Shhh. Che non si è accorto della correzione! Continuava a dire che ubriacarsi non era decoroso, ma mi pare che anche ai nostri ospiti piaccia!" e nell'affermarlo guardò la sala dove, oltre ai componenti della Garrison, c'erano anche diversi alieni e non sembravano esattamente lucidi. "Veronica, Ryan e Nadia sono dei bartender nati! Cioè, capite? Non solo salvano l'universo, ma salvano anche le feste!"

Keith riuscì a districarsi dal braccio di Lance, la treccia tutta arruffata. Krolia stava ridendo con una mano sulla bocca e il figlio la guardò malissimo.

"Che c'è? Anche tuo padre era così quando beveva."

"Molesto?"

"Espansivo" corresse lei con un ghignetto che non le apparteneva e che sembrava intendere altro. "E simpatico."

"Oh oh!" saltò su Lance, mettendosi in mezzo. "Hai sentito la mamma, Keithy? Sono simpatico! Grazie mamma!"  

Shiro dissimulò in un colpo di tosse una risata. Keith non sapeva più chi guardare con sguardo omicida. "Lance!"

"Keith!" ricambiò il compagno ubriaco, alzando il bicchiere.

"Non chiamare mia madre... mamma" farfugliò l'ex paladino rosso, rabbrividendo nelle proprie spalle.

"Geeeeelosooooo?"

"Cosa!? No! È mia madre!" Anche Krolia rise, mentre Kolivan guardava il teatrino con le labbra in una linea meno severa del solito, come se per una volta capisse la scenetta.

"Ed è una gran bella mamma!" assicurò Lance e stavolta Shiro non riuscì a fingere niente, ma all'occhiataccia di Keith si ricompose - non senza scambiare uno sguardo con Krolia stessa.

"Lance, forse hai bisogno di bere un po' d'acqua fredda" offrì il Capitano dell'Atlas.

"No no no no, neanche per scherzo! Mancano... Oh! Ma manca pochissimo a mezzanotte! E siamo ancora sobri!"

Nulla fermò Lance dal sparire e tornare, portando a tutti un bicchiere. "Pronti per il brindisi!"

Da un palco in fondo all'enorme sala si levava un altro tipo di baccano; qualcuno stava annunciando l'arrivo della mezzanotte e gridava i numeri del countdown mentre apparivano proiettati su una parete.

"Tutti insieme!" strepitò Lance, alzando le mani in aria al grido di Dieci! e continuando così per ogni numero, rischiando più volte di colpire gli altri quattro. Erano al TRE! quando gridò "Keithy non ti sento!" mettendo un braccio sulle spalle di quella che però era Krolia. "Più forte o dovrò cavarti le parole di bocca!" continuò al DUE!, e Keith ce le aveva un paio di parole da dire, ma a meno UNO! si pietrificò quando sentì il compagno dire "Però se stai zitto è più facile baciarti!"

Allo zero ci fu un'esplosione di urla e tappi di champagne. E un black out per l'ex paladino rosso quando vide Lance baciare sua madre.

"... cazzo" esalò Shiro di fianco a lui. Lance si staccò dal bacio per voltarsi verso il Capitano dell'Atlas.

"Sarebbe un buon modo di cominciare l’anno, Shiro!" esclamò per poi mettere a fuoco Keith e corrugare la fronte. "Ma come hai fatto a… stare lì?" domandò, ma un attimo dopo gli si accese una lampadina sobria in testa e si voltò, squadrando Krolia. "Ah. Oh" ingoiò il vuoto. "Ops."

"Lance, è stato un piacere conoscerti" sorrise Shiro, levando il suo bicchiere per un brindisi e scoppiando a ridere un attimo dopo al "Ti ammazzo!" di Keith, che per quanto lo urlò sovrastò il casino circostante.

Lance incespicò nei propri piedi, farfugliò un "Non era quello che volevo fare!", ma si diede alla fuga come se avesse avuto l'Imperatore Galra stesso alle calcagna.


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Cow-T, quinta settimana, M1

Prompt: Scontro

Numero parole: 1101

Rating: SAFE


Fandom: Voltron LD

Personaggi/Ship: Shiro, Allura, Veronica, Lance, altri

Note: da qualche parte durante la S8 sull’Atlas. Ispirata a questa fanart: https://twitter.com/comettron/status/1105170442208198657  



Lance si lamentava che anche sull'Atlas non c'erano mai veramente momenti di riposo o, più sintetico, di "cazzeggio". Ok, era il nuovo Castello dei Leoni e, ok, stavano combattendo una guerra, ma quando staccavano dalla ricognizione o da piccole e marginali combattimenti, avrebbe preferito potersi svaccare su un divano e farsi quattro chiacchiere, socializzare ecco, e non ritrovarsi trascinato al deck di allenamento.

"È socializzare anche questo" gli fece notare Shiro, finendo di sistemarsi la maglietta bianca coi bordi arancioni.

"Mi piace parlare con le persone, non ricevere lividi" si impuntò il paladino blu.

"Se allenassi di più quelle belle gambe per sfuggire ai tuoi avversari prima che ti atterrino non saresti così lamentoso, fratellino" continuò Veronica, dandogli un buffetto in testa.

"Da quando in qua a te piacciono gli sforzi fisici!? Pensavo mi appoggiassi! Dov'è il sangue McClain!" protestò Lance, incrociando le braccia.

Veronica sorrise maliziosa. "Sei tu che ti perdi il lato divertente di tutto questo, Lancey. Prendiamo per esempio Shiro."

"Eh?" chiese quest'ultimo, sentendosi tirato in mezzo. Veronica gli fu al fianco, ma sembrò allo stesso tempo ignorarlo continuando a rivolgersi al fratello.

"Quando facciamo questi allenamenti puoi vedere più da vicino questi muscoli flettersi" e per sostenere la sua tesi, piegò il braccio umano di Shiro, indicando i deltoidi che si notavano benissimo anche da sotto la stoffa. "Capisci? Pensa a quando vieni afferrato in una presa al collo così" e simulò suddetta presa, trovandosi addosso al Capitano che ancora non capiva dove tutto stesse andando a parare. "Ti assicuro che qua dietro sento un sacco di cose interessanti."

"Veronica!" sbottò Shiro, realizzando e facendosi indietro con gli occhi sbarrati, ma la ragazza lo stava ignorando in favore del fratello.

"Hai capito ora? Puoi goderti questi momenti anche più di una conversazione in caffetteria."

"Sei diabolica" rispose Lance con profonda ammirazione. "Sapevo che avevo fatto bene a seguire le tue orme."

"Se dici così mi fai sentire realizzata, Lancey."



Dieci minuti più tardi, un ancora rosso in faccia Shiro stava brontolando quello che avrebbero fatto quel giorno.

"Niente corpo a corpo" precisò, rifilando un'occhiataccia a Veronica e Lance, che misero su un identico broncio. "Iniziamo io e Allura con i bastoni a impulso."

Tutti si spostarono lasciando il campo ai due sfidanti.

"Attiviamo le barriere di sicurezza?" propose Hunk, memore di un allentamento in cui i lividi erano venuti anche a chi non era sul ring. La proposta fu accettata con vigorosi cenni del capo da parte di tutti.

Allura e Shiro si mossero all'interno dello spazio di allenamento come i due leoni che erano, studiandosi mentre soppesavano il rispettivo bastone. L'aria si fece tesa tra gli osservatori, mentre sul viso di entrambi spuntava un sorriso di sfida.

"Avanti, Principessa" incoraggiò Shiro, piazzandosi in una posizione di difesa.

"Come vuoi, Capitano" replicò la compagna e in un battito di ciglia gli fu addosso, con una generosa dose di forza alteana che fece vacillare la posizione del capitano. C'era ancora chi non si era abituato a vedere Shiro messo alle strette da Allura e le bocche aperte si sprecavano.

Il paladino nero reagì - Veronica, nel mentre, dette un colpetto al fratello, indicandogli i muscoli sul braccio di Shiro - e respinse la principessa, che atterrò con una strisciata trasformata in rincorsa un attimo dopo. I colpi vibrarono potenti, insieme alle piccole scariche che le estremità dei bastoni emettevano, ma senza mai andare a fondo. Il primo punto fu di Shiro, dopo diversi fendenti andati a vuoto.

"Ahi" incassò Allura, balzando indietro e massaggiandosi la coscia dove aveva preso la scossa. Shiro sorrise, facendo spallucce. La ragazza non gli fece riprendere veramente fiato. Tra gli astanti intenti a guardare c'era già chi stava scommettendo, bisbigliando cercando di non farsi sentire.

"Venti su Allura" disse Veronica, il cui sguardo non mancava un'azione.

"Trenta su Shiro" ribatté Keith, incrociando le braccia.

"Ma se neanche ce li hai trenta dollari!" replicò Lance, squadrando il compagno. "E sei in debito dalla volta scorsa che Kinkade ha atterrato Shiro."

"Lo ha lasciato vincere."

"Seh, continua a ripetertelo."

Nel frattempo Allura e Shiro iniziavano ad accusare la stanchezza, ansimando. Erano tornati a squadrarsi, camminando in circolo, tutti e due in posizione di difesa.

"Puoi fare meglio di un bot di allenamento livello sei" lo provocò la principessa questa volta.

Shiro accettò il guanto di sfida lanciandosi verso di lei. Qualcuno trattenne il fiato, qualcun altro affilò la concentrazione. I colpi furono velocissimi come i movimenti con cui si spostavano. Allura provò a spazzare le gambe a Shiro, ma il Capitano non si fece cogliere alla sprovvista, bloccando il suo bastone col proprio e creando una finestra per colpirla con una rotazione a trecentosessanta gradi. La principessa si ritrasse ed evitò per un soffio una seconda punzecchiatura elettrica. Più che un incontro di allenamento sembrava uno scontro in piena regola.

"Principessa, miri di nuovo alle gambe!" il suggerimento venne da Coran, anche lui in tenuta da allenamento, che si sbracciava dall’altra parte del ring.

"Ehi! Niente consigli!" protestò qualcuno.

Ma né Allura né Shiro stavano prestando attenzione a quello che succedeva oltre la barriera di protezione, concentrati com'erano l'uno sull'altro. Colpo, parata, colpo, parata, colpo, mancato e così via. Le magliette bianche di entrambi erano madide di sudore, appippiccicate alla pelle e vagamente trasparenti.

"Wow" fischiò Lance, rapito.

"Cosa ti dicevo?" confermò Veronica con una risatina, seguendo lo sguardo del fratello fermo su come la stoffa fosse tesa sul petto di entrambi. “Capisco la fretta nel fare tutte le divise nuove, ma il bianco… per noi è stata una scelta azzeccata” continuò, dando una gomitata goliardica a Lance.

Lo scontro sembrava dovesse durare per sempre. C’erano i primi sbadigli da chi stava intorno al ring, nonostante i due paladini fossero uno spettacolo per gli occhi; anche quando Veronica tentò un paio di volte di distrarli con commenti a toni ben udibili su come si vedessero le tette a entrambi o se Shiro avesse gli slip con i cuoricini rossi, nessuno dei due ci cascò.

Poi, all’improvviso, Allura trovò un fianco di Shiro scoperto (per fortuna o sfortuna data dal suo nuovo braccio meccanico?) e in un paio di mosse il Capitano dell’Atlas cadde di schiena sul pavimento morbido. Non paga solo di averlo atterrato, con i capelli sfuggiti dal fermaglio che si sciolsero su un lato in nuvole bianche, la principessa si piazzò sopra Shiro, piegandosi a guardarlo con un sorrisino furbetto anche col viso rosso e il fiatone.

“Hai perso!”

Tutto intorno a loro c’erano solo sguardi da beoti ammirati che si svegliarono solo quando Iverson abbaiò loro di darsi una mossa e allenarsi.


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Cow-T, quinta settimana, M1

Prompt: In fuga

Numero parole: 2650

Rating: SAFE


Fandom: Voltron LD

Personaggi/Ship: Shiro & Lance, slight Shiro/Lance, Keith

Note: ambientata da qualche parte durante la S2.



Shiro agitò le catene, tirando, e Lance si lamentò.

“Riproviamo. Facciamolo insieme” ordinò Shiro, concentrato sul gancio murato sopra le loro teste, in cui passavano gli anelli di metallo.  

Ma tutto quello che fece Lance fu lasciarsi andare a peso morto con uno verso di noia e frustrazione. Il paladino nero sbuffò, guardandolo con severità.

“Non ti stai impegnando.”

Lance roteò gli occhi. “Shiro, guarda in faccia la realtà: è due ore che ci proviamo con risultati zero. Sono stanco, mi fanno male i polsi e le gambe. E se non ci riesci tu con le tue braccia da eroe dell’universo, come potrei riuscirci io con i miei due stuzzicadenti?”

“Quanto ti fanno male i polsi?” chiese Shiro, ignorando il resto. Guardò in alto, ma intorno a loro la luce era scarsissima e non riusciva a vedere bene la situazione delle mani di Lance.

“Sopportabile, considerando che li sento a malapena” borbottò Lance, lasciando andare indietro la testa con indolenza. Qualcuno degli altri paladini li avrebbe trovati, prima o poi, ne era certo; aveva smesso di agitarsi quando aveva capito che da soli non sarebbero andati lontani, quindi tanto valeva aspettare.

“Apri e chiudi le dita” ordinò di nuovo Shiro, ma non come prima, come il leader che era. Cioè, lo disse come il leader che era, ma con una discreta dose di preoccupazione in più.

Lance gli fu grato, anche se ancora ironicamente rassegnato nell’espressione.

“Torneranno sensibili” lo rassicurò, volendo pensarci il meno possibile.

Non passò molto che si sentì di nuovo tirare per le braccia; le manette che avevano entrambi erano attaccate alla stessa catena, che scorreva nel gancio in alto sul soffitto.

“Ehi, ahi!” protestò il paladino blu, tornando dritto con la testa per squadrare Shiro allarmato, che dava l’idea di non averlo ascoltato. “Ho capito che non sento niente, ma se forzi fa male lo stesso!”

“Adesso ti tiro su. Tu allacciami le gambe addosso.”

“... cosa?”

“Se ti sostengo, puoi riposare un po’ i polsi.”

Lance si stava ripetendo nella testa quel allacciami le gambe addosso, ringraziando la penombra per nascondere il rossore che sentiva alle orecchie. Shiro volle agire subito, quindi Lance si ritrovò a fare dei versi strani, tra strattoni e l’arrampicarsi tra le braccia del suo leader. Dopo un paio di tentativi andati a vuoto, più perché non era pronto, alla fine si ritrovò davvero addosso a Shiro, le gambe strette intorno alla sua vita.

“M-mi stai reggendo completamente” balbettò, osservando il viso del paladino nero per quel che riusciva.

“Ti tengo, non preoccuparti.”

Shiro aveva la faccia schiacciata contro il suo petto; da un lato era una fortuna che avessero tolto a entrambi le suit, così che ora non stesse scomodo, ma dall’altro poteva sentire il suo respiro affannato attraverso la stoffa della tuta e direttamente su una zona sensibile. Ingoiò un paio di volte, concentrandosi a pensare a qualcosa di freddo, gelido e assolutamente non eccitante.

“Come vanno i polsi?” chiese Shiro, per metà soffocato dalla stoffa. Lance trasalì.

“Oh, sì, i p-polsi s-stanno-” provò a muoverli e il dolore gli attraversò le braccia. Aveva le mani pallide ed esangui, la sensibilità quasi inesistente. “Cazzo” esalò, sforzandosi di muovere le dita.

“Lance!? Qual è il problema?”

Il paladino blu prese due respiri profondi e l’altro aspettò.

“Ce la posso fare” mormorò di nuovo il ragazzo, continuando a flettere le falangi. Dopo un po’ andò meglio. “Avevo sottovalutato l’insensibilità…”

“Recupera le forze” lo rassicurò Shiro e Lance lo sentì sorridere contro il proprio petto. “Ci serviranno le tue doti da cecchino quando ci troveranno.”

“Però non posso continuare a pesarti addosso così” protestò Lance, senza più alcuna traccia di ironia o abbattimento. Era sinceramente preoccupato, ma Shiro rise, facendogli vibrare il petto.

“Ci arrivi ai sessanta chili, Lance?”

Il paladino blu arrossì e bofonchiò qualcosa in spagnolo. “Non la capisco la bilancia in bagno, è tutta in altean” disse infine, stringendo inconsciamente le gambe intorno a Shiro.

“Non ti vedo mangiare molto” continuò Shiro, di nuovo serio, ma non con un tono di rimprovero.

“Be’ sai, quella poltiglia verde fa proprio schifo, e se Hunk non trova qualcosa con cui aromatizzarla mi passa la fame.”

“È solo per questo?”

Lance guardò di nuovo in basso e si sorprese a trovare Shiro a ricambiare il suo sguardo, per quanto ci riuscisse in quella posizione. Distogliendo gli occhi, Lance reclinò la testa di lato e ci mise un po’ a replicare, ma Shiro fu paziente.

“... mi manca casa” mormorò, a disagio ma sincero. “E so che non mi devo lamentare. Manca a tutti, credo, e stiamo svolgendo un compito importante… però…”

“Però questo non cambia il fatto che ti manchi” concluse Shiro, chiudendo gli occhi. “Anche ora che non sono più prigioniero nelle arene e il pensiero della Terra era l’unico che mi mandava avanti, ne sento la mancanza anche io.”

“Oh” Lance si sentì minuscolo e ancora più fuori posto. “Tu- tu più di tutti… dovresti poter tornare a casa.”

“Non c’è una priorità” e Shiro riuscì a dirlo con un sorriso quieto.

“Sì, ma tu-”

“Ora sto bene. Con voi, con questo obiettivo, ora mi sento libero.”

Lance lo guardò con la voglia di piangere che gli pizzicava gli occhi. Sentiva che c’era molto, molto altro e che Shiro stava dicendo quelle mezze verità solo per lui, per dargli coraggio e ci stava riuscendo, ma dall’altro lato avrebbe voluto ricambiare e infondergli la stessa sicurezza, senza alcuna promessa vana. Ma non si sentiva in grado di farlo, non aveva le basi per rassicurarlo che sarebbe andato tutto bene.

“Sarò il tuo sharpshooter di fiducia finché non torneremo a casa” disse, annuendo con vigore, anche se aveva idea di risultare come un bambino che promette alla mamma di fare il bravo.

“Conterò su di te” assicurò Shiro, sorridendogli con gli occhi. Onestamente, Lance non vedeva qualcosa di così bello da tanto tempo. Ebbe l’impulso di spostare il ciuffo di Shiro dalla sua fronte per guardarlo meglio, ma la costrizione delle manette gli ricordò che non poteva muoversi.

“Ci troveranno” disse Shiro, interpretando a modo suo quel movimento.

“Sì, sì sicuro…” continuò il paladino blu, mandando a mille le rotelle del cervello per aggiungere qualcosa. “Quando ti succede qualcosa Keith attiva il suo fiuto da segugio e sniff sniff ti trova!”

Shiro rise di nuovo, facendolo tremare. Lance voleva abituarsi a quella sensazione.

“Vacci piano con Keith” aggiunse alla fine Shiro, di nuovo senza rimprovero ma più per parlare. “Le persone non sono il suo forte.”

“Me lo ricordo molto bene dall’accademia e da come parlava con i pugni.”

Lo sguardo di Shiro sembrò indagarlo, alla ricerca di quei pezzi di passato che non poteva aver vissuto in prima persona.

“Com’era Keith quando… quando ci hanno dati per morti?”

Lance sentì le prime parole salirgli alla bocca come se non avesse aspettato altro che sfogarle, ma si fermò. Uno stronzo egoista che combinava solo casini, avrebbe detto il vecchio Lance. Quel Lance che non aveva ancora avuto modo di salvare il suo idolo e sparire nello spazio a bordo di un leone robotico gigante che lo avrebbe reso qualcosa di molto simile all’eroe che interpretava nei giochi quando era piccolo. Il Lance che era stato costretto a collaborare gomito a gomito con la sua nemesi, scoprendo cose nuove su di lui, cose diverse.

“Era intrattabile e insofferente. Cioè, a ripensarci ora che lo conosco, capisco che... soffriva molto. Forse, in realtà… anche all’epoca me ne ero accorto, ma- ma sai, sono stato uno stronzo anche io. Per me lui era quello che mi aveva fregato il posto tra i fighter pilot e aveva quel suo caratterino di merda e sembrava poter fare come gli pareva perché- solo perché era… è formidabile. E aveva te” sospirò, sentendo quei sentimenti nocivi trasformarsi in sensi di colpa. “Mi sono fermato alla prima impressione.”

“Ma gli stai dando una seconda opportunità” sorrise Shiro, riaggiustando un po’ la posizione e scusandosi quando strattonò le manette.

“P-posso scendere! Le mie mani stanno meglio…”

“Va bene così” lo rassicurò Shiro. “Il mio braccio destro sta facendo il duro lavoro, e tu non pesi. Non davvero.”

Lance finse di controllare la situazione del gancio e della catena, e buttò anche un’occhiata alla feritoia nella porta in caso di movimenti, per farsi passare il rossore.

“D-dicevamo di Keith” riprese, non sapendo che cosa inventarsi. “Gli sto dando una seconda opportunità? B-be’, diciamo che è lui che deve capire che siamo una squadra e può contare su di noi.”

“Vero” assentì Shiro.

“Ma non ci molla solo perché ci sei tu” continuò Lance con una smorfia.

Shiro non rispose subito, ci rifletté su, e il paladino blu si sentì in dovere di continuare per aggiustare il tiro su quello che aveva detto. “Ci sta lavorando, però. Anche dopo tutta la storia con la Lama di Marmora, il sapere di essere mezzo Galra e cose così… non è una persona egoista, non come credevo. Insomma, io non gli sto simpatico, no? Però quella volta che me la sono vista brutta con l'esplosione e Sendak e tutto, si è preoccupato per me.”

“Allora te lo ricordi” ridacchiò Shiro. “Potresti dirglielo. Quella tua negazione lo ha mandato in paranoia.”

“Magari quando saremo più amici” tagliò corto Lance, imbronciato. “Non voglio che si vanti di avermi salvato, questa cosa lo soddisfa troppo.”

“Dovrei vantarmi anche io di averti tenuto tra le braccia? Con questa volta siamo a due.”

“Che!?” strepitò il paladino blu. “Non sono una damigella in difficoltà! Sono… sono solo quello che viene preso di mira perché è gracilino! E poi non mi ricordo proprio che questo sia già successo!”

La nuova ondata di risate scosse interamente Lance, facendogli rimpiangere quel gracilino con cui si era auto definito.

“Quella stessa volta di Sendak… ti ho portato in braccio e in spalla per mezzo Castello, cercando di proteggerti perché eri privo di sensi. Ho fallito miseramente… ma siamo una squadra e possiamo contare l’uno sull’altro.”

Lance sbuffò. “Vedrete che un giorno ricambierò il favore e sarò così muscoloso che vi porterò uno per braccio!”

“Spero di no” replicò Shiro. “Vai bene così Lance. Non ci devi dimostrare più di quanto già fai.”

“Non ne sono sicuro…” mormorò l’altro, sentendo la ormai familiare sensazione di essere di troppo e inutile.

Dal corridoio delle celle si sentì un improvviso rumore, molto simile a una porta divelta o sfondata. Si sentirono anche delle grida confuse e dei flash di luce.

“Sono i nostri!” esultò Lance, dimentico della situazione. “Ehiiii! Siamo qui!” si agitò, sporgendosi incautamente e sbilanciando il paladino nero, che si riaggiustò al volo sui piedi.

SHIRO!” era Keith che stava gridando. “SHIRO DOVE SEI!?

“In fondo al corridoio!” replicò l’uomo, forte e chiaro. “La sesta cella sulla sinistra!”

“Wow, davvero te lo ricordavi?” chiese Lance sbalordito.

“Prendere nota di quello che ti circonda. È una delle basi dell’addestramento alla Garrison” sospirò Shiro.

“Be’, se avessi avuto te e non Iverson come insegnante, di certo avrei preso nota di chi avevo davanti. E non penso mi sarei mai distratto.”

Qualsiasi cosa il più grande stesse per replicare fu troncata dalla porta della loro prigione che veniva buttata giù. Il piccolo scontro con le guardie si era concluso e ora c’era solo un lungo silenzio scandito dagli ansimi di Keith che riprendeva fiato, il bayard rosso ancora stretto in pugno nella sua forma di spada. Stava fissando Shiro e Lance e la loro posizione.

“State… bene?” chiese, sempre a corto di aria e anche di un pensiero ragionevole.
I due compagni si scambiarono uno sguardo prima di districarsi, anche un po’ in maniera comica, e tornare entrambi in piedi con le braccia stirate in alto dalla catena.

“Stiamo bene” affermò Shiro, stavolta leggermente rosato lungo la cicatrice sul naso anche lui.

“Sì, perché ora non ti muovi e ci liberi, eh?” rincarò Lance, che sentiva un po’ freddo senza più il contatto col corpo del compagno. “E magari ci aiuti a trovare anche le suit così ce ne andiamo di qui?”

Keith sbuffò. “Prego, Lance. La prossima volta evita di farti catturare.”

“Ehi! Guarda che anche Shiro è stato catturato!”

Keith non gli rispose, concentrato a studiare la catena. Con un paio di fendenti fu in grado di reciderla. “Dovremo cercare le chiavi per le manette. O tornare al Castello.”

“La seconda” decise Shiro, sgranchendosi le spalle e le braccia. “Andiamocene di qui.”

“Per di qua” guidò Keith.

Fuggire dalla nave di quei pirati spaziali fu abbastanza semplice, considerando come Keith avesse già fatto fuori tutti quelli che gli avevano dato il benvenuto quando con Red aveva forzato la loro zona cargo, mentre Pidge aveva hackerato i sistemi, bloccando le porte delle sale comando e diversi corridoi dei piani superiori.

Recuperare le suit fu la parte più pericolosa, considerando che Shiro e Lance erano sia disarmati che indifesi. Almeno, Shiro aveva il proprio braccio, ma Lance proprio nulla.

“Stammi dietro” ordinò il paladino nero al blu, incurante di mettersi in prima linea.

“Statemi dietro tutti e due” abbaiò invece Keith con lo scudo spianato e in orizzontale per poterli coprire al meglio. Shiro tacque, ci ripensò e annuì, ma continuando a tenersi pronto a coprire il più giovane; se non fosse stata una situazione di potenziale pericolo mortale, Lance avrebbe quasi riso per come il micetto avesse rimesso in riga il più grande.

Trovarono la stanza con la refurtiva, con diversi vari oggetti che sarebbero stati rivenduti a qualche mercato nero. Appena i due ex prigionieri si furono rimessi le armature, Lance riattivò subito il suo Bayard, stringendo al petto il suo grosso blaster.

“Mi sei mancato piccoletto” affermò, facendogli anche le carezze.

Dalla porta, Keith roteò gli occhi. “Ti dai una mossa?”

“Andiamo Lance” lo esortò Shiro più pacato e stranamente poco teso, nonostante la situazione.

“Sharpshooter agli ordini, signore!”

Con tutti e tre di nuovo operativi, raggiungere l’hangar e saltare su Red fu molto più facile. Anche lasciare qui e lì qualche buco e qualche bastone tra le ruote che rallentasse del tutto i pirati dall’inseguirli e permettesse loro di fuggire senza preoccupazioni.

Keith, sei riuscito a recuperare Shiro e Lance?” era Allura e Keith aprì la videochiamata, permettendole di vedere con i propri occhi la risposta.

“Salve Principessa, ti sono mancato?” salutò il paladino blu con un largo sorriso, prendendosi tutto lo spazio.

“Stiamo bene” asserì Shiro da dietro, per palesare la propria presenza.

Meno male” questo era Hunk, sempre dal ponte di comando del Castello, insieme a Coran e Pidge. “Vi hanno torturati? Hanno usato delle sonde o preso campioni di DNA? Oh mio dio, se vi volessero clonare e rivendere i vostri cloni al mercato nero?

“Amico calmati” ridacchiò Lance, il pollice alto. “Nessuna tortura. Abbiamo-” guardò Shiro, per poi spostare lo sguardo di lato con un piccolo sorriso. “Abbiamo chiacchierato” e una sensazione tiepida gli si spanse nel petto a macchia d’olio. Durò qualche istante, il tempo di realizzare il silenzio e più di quattro paia di occhi, tra videochat e cabina che lo fissavano. Si schiarì la gola. “Intendo, ci stavamo torturando dalla noia, lasciati appesi in quel modo! E niente acqua! Muoio di sete! Perché ci avete messo una vita a trovarci!? Keith, mi aspettavo tempi più brevi da te, insomma! Ho quasi perso l’uso delle mani!”

“Ma se stavi in braccio a Shiro quando vi ho trovati” brontolò il paladino rosso.

Cosa!? Che storia è!?” si interessarono tutti dalla videochiamata.

“Che? Non vi sento! Ci sono interferenze!” e Lance, rosso in faccia, chiuse le comunicazioni.

“Non toccare Red” lo riprese Keith, che cercava di non distogliere l’attenzione dal campo di meteoriti che stavano attraversando.

“Tu tieniti per te certe affermazioni o qualcuno potrebbe fraintendere!”

E con la coda dell’occhio, Lance fu segretamente contento di vedere anche Shiro leggermente imbarazzato. Avrebbero dovuto riprendere quel discorso, in futuro. Magari anche la stessa posizione, fantasticò un po’ tra sé il paladino blu.


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Cow-T, quarta settimana, M2

Prompt: Dimenticarsi di qualcuno/qualcosa

Numero parole: 556

Rating: SAFE


Fandom: Voltron LD

Personaggi/Ship: past Shiro/Adam, Keith/Lance, Matt/N7

Note: What If Post S8



Doveva essere un Giovedì sera normale. Un invito a cena a casa di Matt e N7, Pidge autoinvitata perché non lo sapeva, ma ehi, era casa di suo fratello, Lance e Keith per animare l'aria - ma il fatto che Keith fosse in tremendo ritardo doveva far presagire a Shiro che qualcosa non andava.

"Ma no, vedrai che la hoverbike lo avrà lasciato a piedi. La tratta con riverenza, ma quell'affare ha i suoi anni e lui è ostinato. Tra poco ci chiamerà per andare a prenderlo!" lo rassicurò Lance, nonostante fosse da un po' che continuava a smessaggiare dal cellulare e non sembrava soddisfatto.

Arrivò una chiamata dopo un po', ma non parve di nessuno in ritardo. Lance cambiò stanza, la fronte corrugata dopo aver sillabato un "Sta bene". Shiro iniziò a sentirsi nervoso dopo che anche il cellulare di Matt squillò.

"È Veronica" disse stranito. "Avrà voluto chiamare Lance e ha trovato occupato" e rispose. Come con il paladino blu, anche la sua faccia divenne dubbiosa. E poi impallidì.

"Che cosa sta succedendo?" chiese Shiro con quella brutta sensazione lungo la schiena.

Quando Matt mise giù stava fissando il cellulare come se non fosse reale. Anche Lance tornò dall'altra stanza e aveva la stessa faccia, ma guardò Shiro.

"Che diavolo avete!?" saltò su Pidge, nervosa. "Qualcuno si è fatto male!?"

"No, no..." iniziò Lance, passandosi una mano tra i capelli. Guardò Matt e sembrò dirgli di continuare lui.

Il maggiore degli Holt si alzò da tavola. "Prendete le giacche" ordinò e guardò tutti, tranne Shiro, invitandoli a uscire.

Shiro non chiese di nuovo, attese e basta.

Matt si passò una mano sulla faccia. "Non so come dirlo. Si tratta di Adam. Sembra non sia morto."



Shiro era dietro il vetro a specchio della camera ospedaliera in cui si trovava Adam. C'era un medico e un infermiere con lui, oltre a Iverson in attesa. Con il Capitano dell'Atlas invece c'erano Matt, Veronica, Keith e Lance.

"Stavano facendo un altro dei censimenti post-invasione richiesti dal governo, quando le impronte digitali di Adam sono risultate nel nostro database" stava spiegando Veronica. "Iverson ci ha spediti a controllare" e lo disse accennando a Keith, che se ne stava a braccia incrociate a fissare Shiro, come se da un momento all'altro dovesse intervenire per fare qualcosa. Al suo fianco Lance gli aveva già dato qualche gomitata, ma non era servito.

"Le sue condizioni fisiche sono più che buone" continuò Veronica. "Gli stanno ancora facendo dei test, ma sembra che chiunque l'abbia trovato e curato fosse competente. La protesi al piede sarà sostituita con una di quelle progettate da Coran entro domani."

Shiro, nonostante tutti quei ragguagli, continuava solo a fissare la figura di Adam dall'altra parte del vetro. Il suo sguardo era intenso e con un senso di colpa così profondo che Matt si sentì colpevole a sua volta, in silenzio, ripensando alla missione Kerberos, agli anni di guerra coi Galra, a tutto.

"C'è solo una cosa a cui purtroppo i medici non sanno dare notizie positive" riprese Veronica in fine, appoggiando una mano sul braccio di Shiro, che non si mosse, come se non sentisse il contatto. "Sembra che... abbia perso completamente la memoria. Ricorda solo di chiamarsi Adam e che stava aspettando qualcuno."

Shiro chiuse gli occhi e nessuno riuscì a dire niente quando iniziò a piangere.


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Cow-T, quarta settimana, M2

Prompt: Dimenticarsi di qualcosa/qualcuno

Numero parole: 752

Rating: SAFE


Fandom: Voltron LD

Personaggi/Ship: Shiro/Lance/Lotor

Note: What If Post S8, omegaverse (Alpha!Shiro, Alpha!Lotor, Omega!Lance)




Lotor stava sorridendo. Quando lo faceva, Shiro era certo che sarebbe successo qualcosa di lì a breve e spesso significava sparare a qualcuno o correre a perdifiato per salvarsi la vita.

Il Principe Galra era ancora bersaglio di sovvertitori della nuova pace e cacciatori di taglie ingaggiati per portare la sua testa a chi ancora era fedele al defunto Zarkon. Nonostante ormai tutti sapessero che l’intero universo (e tutte le realtà) erano salve grazie a lui e Allura, per i Galra rimaneva un traditore. Per questo Shiro voleva avercelo sempre vicino quando erano in missione diplomatica; per questo motivo e per il fatto che da qualche mese quella stessa vicinanza avesse portato a far sbocciare qualcosa. Però quando sorrideva in quel modo era perché aveva riconosciuto guai in vista (guai di solito gestibili, se ghignava).

Shiro si fermò dal proseguire e si voltò verso Lotor, guardandolo con un eloquente cipiglio a dire che cosa succede? Erano nel nuovo palazzo congressi di Olkarion e diverse delegazioni erano in arrivo; di lì a un’ora ci sarebbe stato un dibattito, ma nel mentre tutti erano ai controlli della sicurezza, ma non sarebbe stata la prima volta che qualcuno riusciva a introdursi e fare danni.

Lotor ricambiò Shiro portandosi un dito alle labbra e facendogli cenno di seguirlo. Tornarono sui propri passi - il Capitano dell’Atlas sulle spine e pronto a scattare - e svoltarono in un corridoio deserto, con una porta che dava sullo sgabuzzino degli inservienti e altre dedicate ai bagni. Fu a una di queste porte che puntò Lotor, senza smettere il proprio risolino.

Scostando l’uscio, Shiro iniziò a capire, sentendo il naso pizzicargli.

“Qualcuno è in calore e si è dimenticato gli inibitori” svelò serafico Lotor.

Seduto per terra a ridosso del mobile dove erano incassati i lavandini, Lance, madido di sudore, fece una smorfia, alzando verso Lotor un dito medio. L’odore dell’Omega saturava l’aria del piccolo bagno nella sua interezza e Shiro ebbe un leggero fremito, ma scosse la testa per non lasciarsi sopraffare.

“Come ti senti?” domandò, accovacciandosi vicino al compagno ma senza toccarlo; la sola vicinanza bastava a fargli sentire il bisogno di dimenticare il resto e concentrarsi unicamente su di lui.

Lance emise un verso simile a un guaito, che se si era un Alpha come Shiro o come Lotor era un segnale più che chiaro dei bisogni dell’Omega. Ma mentre Shiro si sforzava di mascherare e sopprimere l’istinto, anche solo di rispondere a quel verso, Lotor non si fece problemi ad aizzarlo, con quel suo sorrisino compiaciuto. Shiro lo guardò male.

"Non sei d'aiuto" brontolò.

Lance, nel frattempo, si era nascosto il viso tra le mani. "Ho una voglia schifosa di essere scopato fino a perdere i sensi" confessò, facendo capolino dalle dita con i suoi occhi blu ora ottenebrati dal desiderio. La chiazza umida all’altezza del cavallo dei suoi pantaloni sottolineava il tutto.

Lotor rise di nuovo, lo sguardo affilato e predatore, e Shiro dovette stringere le dita sui pantaloni per tenerle occupate.

"Abbiamo una riunione tra un'ora" sibilò, come a volerli rimproverare. Perché con quei due succedeva così troppo spesso.

"Scusa daddy, ho fatto male i conti e pensavo di avere ancora una settimana prima del calore" spiegò ironico Lance, il cui sguardo puntava sotto la cintura di Shiro senza alcun pudore.

"Io non sono così indispensabile a questa riunione" annunciò invece Lotor e il paladino blu gli rivolse la propria attenzione insieme a un mormorio di gola molto soddisfatto.

"Voi due siete impossibili" si arrese Shiro. "Ce la fai a camminare per tornare in stanza?"

Lance assentì, allungano una mano ciascuno per farsi aiutare a rimettersi in piedi. "Ma se qualcuno invece mi portasse in braccio?" pigolò, cercando di fare una faccia da cucciolo. "Poi quello stesso qualcuno potrebbe buttarmi di peso sul letto ed essere il primo..." continuò, perdendo completamente il fattore innocenza.

Shiro e Lotor si mossero insieme per istinto a quella proposta e si ritrovarono a far cozzare le mani tra di loro. Lance ridacchiò - anche se sembrò farsi scappare un gemito - ma perse l'equilibrio; il Principe Galra colse l'occasione al volo.

"Mi sa che abbiamo un vincitore... senza rancore, daddy" bisbigliò il paladino blu, stringendo le braccia intorno al collo di Lotor, completamente assuefatto dalle proprie sensazioni.

Shiro roteò gli occhi, ma si diede un contegno. "Se avete finito, qui il tempo passa e abbiamo meno di ora adesso..."

"Assolutamente, andiamo!" annuì Lance. "Sia mai che non riesca a mandarti alla riunione senza un paio di orgasmi prima."


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Cow-T, quarta settimana, M2

Prompt: Dimenticarsi di qualcosa/qualcuno

Numero parole: 1541

Rating: SAFE


Fandom: Voltron LD

Personaggi/Ship: Lotor, Haggar/Honerva

Note: questa fanart ci sta perfect http://33-ko.tumblr.com/post/171640341409/young-lotor-c




Lotor aveva circa otto anni quando scoprì le prime verità su sua madre. Relegato a vivere su una nave spaziale lontano da quella di suo padre anche galassie a volte, Dayak continuava a istruirlo bacchetta alla mano, nonostante da rimproverargli ci fosse veramente poco.

Era curioso Lotor, ma discreto. Aveva imparato davvero molto presto che qualsiasi sgarro sarebbe stato punito severamente, come ordinato da suo padre la volta in cui gli chiese chi è mia madre?

Così aveva imparato a mantenere il sangue freddo quando una domanda gli ronzava così forte in testa da assordare qualsiasi altro pensiero; era diventato bravo a rispettare gli orari, a non fare ritardi ma neanche ad arrivare presto; a soffrire in silenzio o in un luogo dove sapeva che i suoi singhiozzi non sarebbero stati uditi. A volte si era dilettato in qualche furtarello, ma pochi. Non era bravissimo e aveva scoperto che non gli recava una gran gioia appropriarsi di qualcosa di nascosto. Preferiva poter prendere quello che gli pareva sotto gli occhi di tutti, perché sapessero che poteva farlo, perché era all'altezza delle conseguenze. Si era detto che un giorno sarebbe stato così; tuttavia, fino a quel momento, si accontentava di ciò che come Principe dell'Impero Galra poteva richiedere, che alla fine non era poco.
Però c'era questo pensiero per cui proprio non poteva fare a meno di rischiare e per cui, più di una volta, aveva fatto arrabbiare i suoi tutori. Erano le vecchie cose di sua madre. E non una semplice scatola di roba, ricordi e simili, ma un'intera stanza, una specie di biblioteca di libri, oggetti e ricerche.

Dayak era molto severa a riguardo, su ordine di suo padre. "Il bambino non può avere accesso" erano state le sue parole alle guardie davanti la stanza. Non lo aveva chiamato Lotor, o “il Principe”; aveva usato solo quel sostantivo che toglieva a lui qualsiasi potere. Perché era così che lo vedevano, alla fine. Era l'unico bambino in quell'immensa nave-castello. Oltre lui, i più giovani erano forse le guardie fresche di accademia o gli inservienti. Per diverso tempo Lotor aveva anche creduto di essere speciale perché l’unico. Lo chiamavano "il bambino" come se fosse stato una qualche sorta di onore, perché non ne esistevano altri. Non aveva neanche capito che quella fosse una fase, che un giorno sarebbe stato grande quanto chi lo circondava. A pensarci, si dava dello stupido e si vergognava. Poi gli erano capitati libri tra le mani, e vecchie produzioni video che Dayak usava per istruirlo, dove aveva visto altri come lui, altri piccoli e bassi e...
Aveva forse quattro anni, o meno, quando chiese alla sua tutrice "Cos’è una mamma?" Aveva imparato da un video sugli animali della vecchia Daibaazal che i cuccioli, come i bambini, nascevano da altri animali più grandi, le "mamme" e da lì, la domanda era mutata. “Dov’è la mia mamma?” Ma non c’era stata risposta vera, se non un “Questi non sono affari suoi, Principe Lotor. Non rivolgetemi domande sciocche. Non è importante ai fini della vostra educazione” ed era stata l'ultima parola in merito. Insistendo, perché sentiva di dover sapere, il bambino era stato spedito in camera propria senza cena.

E così Lotor, sentendo per la prima volta male al petto, aveva taciuto e aveva iniziato a fare ricerche per conto proprio, perché in fondo, finché sfogliava libri, Dayak era tranquilla. Da una semplice domanda era diventata un'ossessione che proprio non riusciva a tacitare nella sua mente. Non era come i dubbi che poneva a lezione, su un componente di un qualche oggetto o un evento storico. No, era quel concetto, quelle foto che aveva visto, di bambini come lui che tenevano la mano alle loro mamme. Lui sapeva di avere un padre, ma non aveva mai pensato a una madre prima di allora. Apparteneva a suo padre e, in quanto principe, un giorno sarebbe stato come lui, un imperatore. Ma poi aveva letto più e più libri su come i cuccioli e i bambini nascevano e c'era sempre una mamma, colei che ti tiene per mano, come aveva ribattezzato il concetto.
Dayak non era riuscita a togliergli quella domanda di bocca per diversi giorni, finché non lo aveva messo in punizione seriamente. Lotor era abbastanza sveglio da capire che insistendo non avrebbe ottenuto niente, tuttavia era come chiedergli di trattenere il respiro più di quanto già non riuscisse. Comprese che sarebbe dovuto tornare a essere il bambino tranquillo e diligente di prima, per farle abbassare la guardia e poi portare avanti le sue ricerche per conto proprio.
E fu così che scoprì diverse cose. Conscio della ritrovata libertà, scovò in biblioteca un vecchio libro con l'albero genealogico della sua famiglia; sull'ultima pagina era vergato il nome che cercava. L'imperatore Zarkon sposato all'alchimista Honerva di Altea.
Lotor aveva già sentito parlare di Altea diverse volte. Era una delle parole che agli adulti intorno a lui piaceva meno, perché si trattava del pianeta da cui proveniva Re Alfor, l'uomo che aveva distrutto Daibaazal.

Per lunghe notti Lotor si chiese se Dayak facesse bene a non parlargli di sua madre, se questa era originaria di Altea. Voleva dire che era cattiva e che forse era per quello che suo padre non voleva mai avere a che fare con lui, perché gli ricordava quelli che avevano distrutto il suo regno precedente.
Dayak si complimentò con Lotor per la sua tranquillità, nei giorni successivi, ma il bambino ci fece poco caso, perché in testa continuava a riaffiorargli ancora quel nome, come una maledizione. Ma nonostante questo, il bisogno di sapere chi fosse Honerva, che aspetto avesse, dove fosse, era più forte di qualsiasi altro pensiero negativo.
Continuò le sue ricerche in biblioteca. Quando Dayak si addormentava sulla sedia, lui sgattaiolava nei reparti in cui gli era vietato andare e leggeva tutti i tomi che trovava. Riuscì anche a rubarne uno, intitolato "Storia moderna del pianeta Altea". Se prima aveva avuto dei dubbi, quel libro gliene mise ancora di più, quando si trovò davanti una foto di sua madre. "L'Alchimista Honerva, amica e consigliera di Re Alfor, giovane sposa dell'Imperatore Zarkon, sta dedicando la propria vita alla ricerca della quintessenza" recitava la didascalia. Ma anche una volta letta, Lotor non poté che guardare soltanto la fotografia. Fu la prima notte della sua vita in cui pianse tutte le lacrime che aveva per un vuoto dentro più brutto di quando Dayak lo mandava a letto senza cena.
Quel libro fece ritorno in biblioteca solo dopo che Lotor ebbe scansionato in segreto le pagine e fatta una copia da tenere con sé, nascondendo il tutto in un vecchio manuale sui miti di Daibaazal che sapeva Dayak non gli avrebbe mai sbirciato o tolto.
I pensieri su sua madre mutarono ancora e Lotor non riuscì più a immaginarla come un mostro capace di distruggere un pianeta. In una delle pagine che aveva trattenuto c'era un trafiletto dedicato a lei, dove si parlava delle sue ricerche, di come per tutti avrebbe rivoluzionato il mondo con le sue scoperte e del suo matrimonio, che aveva consolidato un’alleanza millenaria tra Altea e Daibaazal. Anche se era solo un bambino, non riusciva a immaginare come tutte quelle belle cose potevano aver reso sua madre innominabile.

Da lì, facendo sempre il bravo per non essere punito, Lotor aveva continuato a collezionare tutte le informazioni che poteva, a scoprire quella sala con gli oggetti di sua madre, e a cercare di immaginare come sua madre potesse essere sparita… o morta. Una possibilità che lo rattristava, ma che era conscio di dover tener presente.

Non scoprì niente per anni. Nonostante le ricerche silenziose, all’ombra dell'obbedienza che dimostrava, nulla venne alla luce fino a quando compì quattordici anni e con più autorità di prima, e Kova a fargli da palo, fu in grado di accedere ai registri storici degli ultimissimi anni.

La verità fece male.

La verità fece così male che lo portò a fare il gesto più stupido che avesse mai fatto.

Rubò un incrociatore e volò alla nave di suo padre. Forse l’unica sua fortuna fu che lui non ci fosse, perché, col senno di poi, sarebbe stato punito così severamente da riportare ancora i segni sulla pelle. Non che questo avrebbe arrestato il tumulto che aveva dentro.

Atterrato, nessuno lo fermò nella sua avanzata verso la persona che cercava, non quando, per la prima volta, fece vibrare la propria autorità con un tono che non ammetteva repliche.

“Sono il Principe Lotor, fatemi passare!”

E così, guardia dopo guardia, era arrivato davanti alla strega, davanti a Haggar.

“Mio principe” aveva sussurrato lei, con quella sua espressione dalla fronte corrugata, la linea delle labbra che non sembravano aver mai sorriso, quegli occhi vitrei e senza pupille visibili. Sembrava smarrita nel guardarlo.

Lotor non seppe cosa fece più male, se riconoscere in lei quei lineamenti della foto che teneva conservata gelosamente, o la completa indifferenza nei suoi confronti da sempre. La donna di quell’immagine gli avrebbe sorriso come faceva con le persone che la circondavano. Sua madre non avrebbe permesso che vivesse segregato e oppresso, un principe alla stregua di un prigioniero, punito per desiderare sapere il nome di chi lo aveva messo al mondo.

Sua madre non si sarebbe dimenticata di lui.

“Tu non sei lei.”


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Cow-T, quarta settimana, M2

Prompt: Dimenticarsi di qualcosa/qualcuno

Numero parole: 1024

Rating: SAFE


Fandom: Voltron LD

Personaggi/Ship: Lance, Lance/???, Lance & Veronica, Pidge, Coran

Note: primo tentativo (fallito) di Hanahaki Disease





Dopo quel mi dispiace, Lance iniziarono colpi di tosse sporadici, mascherati con qualche risolino a dissimulare, mentre la mano massaggiava il petto.

“Ti sei raffreddato?” era la domanda più frequente a cui il ragazzo aveva finito col rispondere sì, un malanno di stagione.

Erano all'inizio dell'autunno e poteva starci. Nessuno sapeva e i diretti interessati a malapena incrociavano gli sguardi, evitando quanto possibile di ritrovarsi invischiati in qualche momento di gruppo troppo invasivo. In fondo, l'universo era ancora nel suo pieno dopoguerra, i focolai Galra insorgevano e le Lame di Marmora insieme all'Atlas se ne occupavano. Lance aveva la sua nuova vita come insegnante diviso tra la Galaxy Garrison e Nuova Altea; tutti gli altri si stavano ricostruendo un avvenire, quindi non c'era da prestare troppa attenzione ai dettagli.



"Dovresti farti controllare questa tosse, dura da un po' troppo" aveva insistito Pidge durante una delle loro videochiamate. Il gesto vago di Lance stava per essere accompagnato da una delle sue battute per minimizzare, quando quella stessa tosse incriminata lo colse impreparato e più forte del solito. Dallo schermo, Pidge saltò in piedi, avvicinandosi alla webcam allarmata, ma Lance la sentiva a malapena mentre percepiva qualcosa ostruirgli la gola. Tossì così forte che credette di strozzarsi e poi avvertì qualcosa di umido nella mano.

"Lance... quello è sangue!? E quello è un pe-"

Lance interruppe la chiamata, terrorizzato. Nel palmo della mano, macchiato di vermiglio, c'erano anche dei petali blu.



I medici umani, da cui Veronica e Pidge lo portarono il giorno dopo, poterono solo riscontrare una crescita sospetta nei polmoni, ma la diagnosi finale fu di Coran.

"Lance... c'è qualcuno di cui sei innamorato che ti ha respinto?" fu molto serio nel chiederlo, e davvero molto preoccupato. L'ex paladino blu distolse l'attenzione, continuando a tenersi una mano al petto, stringendo la stoffa della maglietta col bisogno di aggrapparsi a qualcosa. La sorella gli appoggiò una mano sulla spalla per poi abbracciarlo quando lo sentì singhiozzare.

Coran spiegò che si trattava della Malattia dei Fiori. Qualcuno aveva rifiutato i sentimenti di Lance e ora questi stavano crescendo nei suoi polmoni, mettendo radici e soffocandolo poco a poco.

Anche di fronte a quella assurdità, Lance non proferì parola, ma tremò, ricominciando a tossire fino a trovarsi altri petali e un fiore completo nel palmo della mano, il sangue a sporcargli le labbra.

"È un Non ti scordar di me" riconobbe Veronica, spaventata e con le lacrime agli occhi. Prese tra le mani il volto del fratello, tentando di costringerlo a guardarla. "Lancey, hermanito, chi è questa persona? Che cosa è successo?"

Non ci fu verso di cavargli di bocca un nome. Per la prima volta, Lance era silenzioso, trincerato nel proprio dolore. L’unica cosa che disse, alla fine, fu che quella storia rimanesse tra loro; il solo pensiero che altri potessero sapere lo portò ad alzare la voce per far giurare ai tre di non dire niente, finendo col tossire di nuovo.

"Coran, qual è la cura?" chiese Pidge con gli occhi sbarrati nel vedere Lance piegato su se stesso, respirando a fatica. "Dobbiamo fare qualcosa, subito."

Allo stadio in cui si trovavano, l'unica soluzione era un'operazione di estirpazione, sperando che le radici dei fiori non avessero imbrigliato completamente i polmoni.

"Andrà tutto bene, numero tre" gli sorrise incoraggiante Coran. "Ti guariremo."

Quello che non disse a Lance, mentre lo sedavano e lo sistemavano su uno dei lettini dell'ospedale, lo spiegò alle due ragazze con gli occhi lucidi.

"Estirpando i fiori, porteremo via a Lance anche i sentimenti verso chiunque si sia confessato, insieme anche alla memoria di questa persona e... la possibilità di innamorarsi di nuovo. Mi dispiace."

"Intendi che dimenticherà completamente qualcuno?" sussurrò Pidge.

"Esatto. Come se non lo avesse mai conosciuto."

"... e non potrà più amare nessuno?" continuò Veronica in un sussurro.

"Mi dispiace."



L'operazione durò otto ore e fu impossibile che la voce non si spargesse; era pur sempre Lance, l'ex Paladino Blu di Voltron che aveva salvato l'universo e che ora era sotto i ferri, rischiando la vita e nessuno sapeva perché o per cosa.

Pidge e Veronica iniziarono a ricevere messaggi su messaggi, senza sapere cosa rispondere, troppo occupate a continuare a convincersi che tutto sarebbe andato bene.

"Veronica! Pidge! Cos'è successo!?" Shiro fu il primo ad arrivare, il giorno dopo. A lui seguì Hunk con Shay e Romelle, poi fu il turno di Matt e Keith. Tutti si erano mobilitati dai quattro angoli di galassia dov'erano, tutti con la stessa identica domanda, tutti con il terrore in viso. L'operazione era riuscita; nei polmoni dell'ex paladino blu non c'era più un singolo fiore di Non ti scordar di me e Lance riaprì gli occhi al rumore delle persone nella stanza.

Nonostante la debolezza, riuscì anche a sorridere, alzando un pollice. Parlare non sarebbe stato possibile prima di un po' di tempo, aveva spiegato Coran, così passarono a Lance un blocco e una penna.

Mi dispiace, vi ho fatto preoccupare e siete corsi tutti qui, ma ci vuole altro per ammazzarmi, scrisse, voltando il foglio verso gli astanti. Tutti risero rincuorati, per poi attende quando lo videro scrivere di nuovo, più concentrato. Questa volta, Lance non girò il blocco ma lo passò alla sorella.

Chi è quello con la tutina nera sexy e aderente?

Veronica capì all'istante.

"Lance deve riposare" annunciò, ignorando le proteste stesse del fratellino. Li fece uscire tutti e uscì anche lei.

Veronica si chiuse la porta alle spalle per poi cambiare completamente espressione. Strappò il foglio dal blocknotes, lo accartocciò e lo spinse contro il petto di Keith, fregandosene della reazione degli altri.

"Vattene da qui. Non ti azzardare più ad avvicinarti a mio fratello!" urlò feroce, tanto che Shiro e Matt dovettero mettersi in mezzo. "È colpa tua se ha rischiato la vita! È colpa tua se ora non potrà più amare nessuno! Sparisci dalla sua vita!"

Keith, senza ancora riuscire a comprendere cosa stesse succedendo, aprì il foglio accartocciato, rileggendo quelle parole scritte nella calligrafia di Lance e impallidì.

“È molto meglio se te ne vai” mormorò Pidge in tono piatto, nonostante il dolore e l’odio nello sguardo. “Per lui non sei più nessuno.”


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Cow-T, quarta settimana, M2

Prompt: Piangere senza riuscire a smettere

Numero parole: 3046

Rating: SAFE


Fandom: Voltron LD

Personaggi/Ship: Lance

Note: … stavolta è scritta un po’ coi piedi, la rivedrò in un secondo momento, però ho questo headcanon da parecchio e gli ho regalato un po’ di parole.





Quando Lance incontrò la pioggia per la prima volta era appena morta la sua bisnonna. La mamma era triste, il papà era triste, la nonna era triste. Lance aveva circa tre anni e Veronica gli raccontò che quando tante persone sono tristi insieme il cielo le sente e piange con loro. Per tanto, tanto tempo quella convinzione rimase radicata in lui.

A dieci anni, Lance non sapeva cosa significasse stare fermo, mangiare tranquillo o smettere di fare mille domande. Era un ragazzino vivace fino all’esasperazione e faceva ammattire ognuno dei suoi famigliari, ma era anche la briciola di casa e a fine giornata tornare e trovare il suo sorriso e i suoi mille racconti era parte della felicità dei McClain.

Il giorno che sparì e non ci furono schiamazzi ad attendere nessuno, la sua famiglia perse per la prima volta un pezzo di cuore, senza immaginare che un giorno sarebbe successo di nuovo.



Era un giovedì pomeriggio e Lance si chiedeva chi nel mondo fosse così tanto triste da far piovere. A lui non dispiaceva stare fuori, a zonzo, a cercare di prendere le gocce d’acqua con le piccole mani chiuse a conca. A volte, quando era sicuro che nessuno lo ascoltasse, cercava di dire al cielo che andava tutto bene e che non c’era bisogno di piangere, che poi le persone sarebbero tornate felici.

Quel giorno, mentre era fuori a giocare con i pulcini nel cortile, aveva iniziato a cadere una pioggerellina sottile. Sapendo che la abuelita si era  addormentata davanti al solito programma televisivo, Lance non si preoccupò di dirle che usciva. Lo faceva tutti i giorni, gironzolava fino al limitare della proprietà di famiglia, esplorando e cercando neanche lui sapeva bene cosa. A volte aveva la sensazione che qualcosa lo chiamasse, e si ritrovava ad alzare un sacco di sassi e guardarci sotto, come se la voce provenisse da lì. Quando iniziava poi a piovere, come quel giorno, si distraeva, perché la pioggia era bella, anche se molti pensavano fosse triste. Lui trovava che fosse piacevole, anche se lo inzuppava e gli faceva sentire freddo. E poi, se riusciva a consolarla, smetteva e tornava il sereno (e in realtà era lui che, poi, si sentiva un po’ triste).

Lanca stava girovagando al limitare della proprietà dei suoi, chiacchierando col cielo, quando sentì una vocina stridula. Si fermò e tornò qualche passo indietro, assicurandosi di aver sentito bene.

«Minino!» esclamò, quando sentì bene il piccolo miagolio acuto. Al suo esclamare, il gattino pigolò più insistemente e, insieme a lui, anche la pioggia parve farsi più forte.

«No, minino, non piangere, o anche il cielo lo farà!» escamò Lance. Senza pensare alla regola numero tre, mai superare la recinzione, il bambino si intrufolò in uno dei grossi buchi della rete, incurante del vecchio cappellino che gli cadde alle spalle, e si inoltrò sulla collina. Il terreno era fangoso ma pieno di piante e piccoli arbusti a cui aggrapparsi e non scivolare.  

«Minino dove sei!?» vociò Lance per farsi udire sopra la pioggia. Sentiva il miagolio venire da ovunque e da nessuna parte, come quella voce che a volte immaginava lo chiamasse. «Andrà tutto bene! Ora ti trovo!»

I miagolii del gatto rimbombavano e divennero più forti e Lance trovò da dove provenissero quando coi piedi, invece di calpestare il terreno, batté contro qualcosa di legno. Abbassando lo sguardo, vide delle vecchie assi inchiodate e sentì di nuovo il gattino.

Sporgendosi, scoprì un pozzo, non troppo profondo, circa tre metri, con le pareti di mattoni irregolari e diversi rampicanti a ricoprirla. Sul fondo, gli occhi blu di Lance ne incontrarono un paio quasi dello stesso colore, in un musino di pelo grigio lisciato dalla pioggia. Il gattino, di forse tre mesi, miagolò al bambino, mettendosi ritto sulle zampe posteriori e allungandosi quanto poteva sulla parete, gli artigli che grattavano la roccia.

«Quanto sei piccolo!» esclamò Lance, sorridendogli. «Ora non c’è più bisogno di piangere minino! Cerco qualcosa per tirarti su!»

Prima di riuscire a perlustrare bene i dintorni, Lance dovette tornare tre volte a rassicurare il gattino che andava tutto bene, perché appena spariva alla vista questo ricominciava a piangere. Il bambino decise di continuare a far sentire la propria voce al piccoletto, mentre cercava tra le piante una qualsiasi cosa per avere un’idea.

«A papá piacerai subito! A mamá anche, penso. A volte mi parla del gatto che aveva quando era piccola. Per piacere ad abuelita non dovrai farti le unghie sui mobili in salotto! Sono molto vecchi e lei ci tiene tanto perché li comprò con abuelito quando si sposarono.»

Lance continuò a chiacchierare sempre più forte man mano che si allontanava di qualche passo e sembrò funzionare. «Quando saremo a casa però dovrai promettermi che non ti affezionerai a Rachel! Sennò ti vorrà tutto per sé! Le voglio bene, ma non quando prende i miei giocattoli e se li tiene! Oh-» esclamò alla fine, scostando l’ennesima pianta. «Ho trovato una corda!»

Era una vecchia corda, spessa e robusta, anche se scivolosa e zuppa di acqua piovana. Lance iniziò a tirare per vedere dove finisse e pian piano la estrasse dal terreno fangoso. Quando dissotterrò anche il secondo capo, ci trovò all’estremità un gancio arrugginito più grosso della sua mano.

«Wow!» esclamò meravigliato, rigirandosi l’oggetto tra le mani. Il gattino ricominciò a miagolare, non sentendolo più. «Arrivo! Ho trovato come tirarti fuori!»

Il primo tentativo non andò come Lance aveva immaginato. Calò la corda dentro il pozzo e aspettò che il gattino la usasse per arrampicarsi, ma questo continuò solo a miagolare e miagolare verso di lui.

«Sali sulla corda! Forza! Arrampicati con le unghie!» cercò di spiegargli, ma il piccolo felino ignorò la fune e continuò ad allungarsi verso Lance e pigolare. Il bambino sbuffò, togliendosi i capelli umidi dalla faccia e cercando un’altra soluzione.

Sul fondo del pozzo c’erano varie cose. Dei vecchi sacchi di iuta pieni di non capiva cosa, delle bottiglie di vetro spesso e verde, una cassa rotta e un secchio. Fu guardando quello che Lance ebbe l’idea.

Recuperò la corda e col gancio cercò di afferrare il manico del secchio. Non ebbe molto successo, tranne sbatacchiare contro le pareti la ferraglia troppo pesante, paventando il gattino che corse a nascondersi nella cassa sfondata.

«Scusa minino, scusa!» farfugliò Lance, ritirando su al volo con entrambe le mani la corda, continuando a far cozzare il gancio di ferro. «Ehi, vieni fuori! Non ti voglio fare male! Sto cercando una soluzione!»

Lance continuò a chiamare il gatto e a supplicarlo di farsi vedere, nonostante la pioggerellina che ancora cadeva e che ormai lo aveva completamente infradiciato. Pensò e continuò a pensare, finché non notò che sotto una delle assi che chiudevano in parte il pozzo era installato un anello, in ferro come il gancio.

«Minino! Ho trovato! Vengo a prenderti!»

Mettendo in piedi troppo di fretta, Lance scivolò sul terranno fangoso ma si rialzò subito. Fece il giro del pozzo e attaccò all’anello il gancio, dandogli un paio di strattoni per testarlo. Anche se arrugginiti e col legno a scricchiolare, i due pezzi sembrarono reggere. Lance asciugò la corda al meglio con la maglia sotto la felpa, togliendo il fango e rendendola più maneggiabile; poi guardò giù nel pozzo. Non soffriva di vertigini; se fosse scivolato sarebbe atterrato sui sacchi, un atterraggio parzialmente comodo. Poteva farcela. La missione recuperare il gatto e risalire aveva inizio!

«Il Cavaliere Lance arriva a salvarti, minino!» proclamò, iniziando la discesa. Nonostante avesse tentato di pulirla, la corda era ancora scivolosa e in un paio di volte Lance perse la presa, soprattutto sul finire, atterrando sui sacchi ammuffiti come previsto.

«Ahia» si lamentò, tirandosi a sedere e passandosi le mani sul fondoschiena, ma qualsiasi dolore sparì quando il gattino gli saltò in grembo, miagolandogli forte contro la faccia. Lance si mise a ridere, avvicinando le dita per fargliele annusare, ma sembrava non ce ne fosse bisogno; il piccolo felino iniziò subito a strusciarsi contro la mano e a fare le fusa.

«Sei proprio carino!» ridacchiò Lance, quando il gattino andò a dargli le testate sotto il mento. «Però dopo le coccole! Ora dobbiamo risalire!»

Una volta sistemato il micetto nel cappuccio della felpa, Lance tornò alla corda. La pioggia continuava a cadere anche lì nel pozzo, rendendo il terreno una piccola pozza d’acqua. Lance trovò riparo in corrispondenza del coperchio sfondato, dove era appeso il gangio, in una zona un po’ più asciutta. Facendo un grosso nodo alla fine della corda e usando le maniche della felpa per cercare di fare più presa, Lance iniziò la risalita.

Ok, aveva creduto sarebbe stata più facile, ma a metà era già stanco, anche se il conforto delle fusa del gattino lo spronarono a proseguire.

«Forza minimo, fai il tifo per me!» cercò di scherzare Lance, anche se era già teso al massimo per lo sforzo, perché la corda continuava a scivolargli.

Quello che lo colse impreparato fu il forte scricchiolio che sentì sopra la testa. Stringendo le la corda tra le dita e le gambe, Lance guardò in alto e nello stesso momento qualcosa sopra cedette, facendolo sobbalzare in giù. Un piccolo urletto gli scappò dalle labbra e il gattino ricominciò a miagolare con insistenza.

«Calmo! Calmo! Va tutto bene! Non ha ceduto prima, non-» ma il resto della frase fu troncato dal rumore secco delle travi che si spezzavano; con un altro brevissimo grido Lance impattò più forte di prima sui sacchi, mentre i pezzi di legno gli finivano addosso. Uno lo colpì in fronte e il bambino perse i sensi.



La prima cosa che Lance sentì quando riprese i sensi furono le fusa del gattino contro la testa. La seconda, un attimo dopo, fu il dolore della caduta. Con un braccio iniziò a togliersi i detriti di legno da dosso, per trovarsi a osservare quanto c’era andato vicino a essere colpito in faccia dai pezzi di ferro. Ma prima che un sentimento di paura potesse fargli ripensare alla caduta, il gattino lo distrasse chiedendo attenzioni a gran voce.

La piccola palla di pelo grigia, nonostante la situazione, non sembrava intenzionata a spostarsi o allontanarsi da Lance, ma il bambino, quando guardò in alto la cima del pozzo, e come il legno di fosse spezzato, e il fatto che non ci fosse più la possibilità di arrampiscarsi fuori, iniziò a spaventarsi lo stesso.
«Minino, non va bene» disse, parlando più per bisogno che per necessità. «Accidenti, ora come usciamo da qui?» e si guardò intorno. C'erano solo quelle quattro cose che aveva visto da fuori, i sacchi, la cassa sfasciata, le bottiglie di vetro e il secchio. Deglutì a vuoto, alzandosi e sentendo anche delle spiacevoli fitte al piede su cui doveva essere atterrato malamente. Ma non ci pensò.
«Abuelita starà ancora dormendo... e mamma e papà non torneranno da lavoro prima di stasera» continuò a dare voce ai pensieri che veloci gli sfrecciavano in testa. «Forse Rachel... Rachel potrebbe accorgersi che non ci sono!» proseguì speranzoso, guardando il gattino, per poi avere un altro pensiero poco incoraggiante. «Non se si chiude in camera come suo solito e ignora tutto e tutti...»
Fece il giro del pozzo, le scarpe in tela sudice tra pioggia e fango. C'erano diverse piante rampicanti contro la parete. Gli venne un'idea e provò a tirarne una, ma si ritrovò di nuovo col sedere per terra, a lamentarsi per la botta. Il mugolio di dolore però diventò un singhiozzo, e poi un altro e un altro ancora. Il gattino gli sgusciò da sotto una gamba per portarsi davanti a lui e, anche se bagnato e sporco di fango così tanto da sembrare marrone e non grigio, gli poggiò le zampine addosso e si strusciò con la testa, continuando a miagolare e fare le fusa. Tuttavia, Lance sembrò inconsolabile, man mano che la paura aumentava senza trovare un modo per risalire.
«Come faccio? Non possiamo uscire di qui e... e sarà ora di cena quando vedranno che non ci sono! Passeranno ore... e-» si strinse nelle proprie braccia, piangendo più forte, con le lacrime calde che rotolavano sulle guance infreddolite. Il cielo, sopra di lui, rumoreggiò più forte, facendolo trasalire.
«Oh no» mormorò, ma continuando a singhiozzare irrefrenabile. «No ,per favore cielo, non- non piangere forte anche tu. Starò b-bene» tentennò, strusciandosi il naso gocciolante contro la manica della felpa. Ma la pioggia non parve credere alle sue parole e le gocce iniziarono a picchiare più forte.
«No no no no!» si spaventò Lance, tirandosi indietro contro la parte più asciutta del pozzo, una minuscola porzione sotto quello che rimaneva del coperchio sfondato.
Il rumore del temporale riempì un quantitativo di tempo di cui Lance non tenne neanche il conto, mentre piangeva a sua volta senza riuscire a smettere. All'inizio, nonostante i singhiozzi, si ripeté che sarebbe andato tutto bene, che mamma o papà, o uno dei suoi fratelli, lo avrebbero trovato. Ma più passava il tempo, più il maltempo imperversava. Iniziarono i tuoni e il piccolo gattino si infilò sotto la sua felpa, miagolando spaventato.
«Minino... se piangi anche tu qui non smetterà mai....» ma nessun cielo parve in ascolto di Lance.
Nell'ora successiva, Lance provò a gridare aiuto. Ogni volta che una folata di vento vibrava contro le pareti in pietra e attraverso i frammenti di legno, il bambino urlava più forte, ma nessuno arrivò.
Il pomeriggio divenne sera e Lance sistemò i due sacchi l'uno sopra l'altro, e il secchio ancora sopra, per potersi distanziare dai centimetri di acqua che avevano riempito il fondo del pozzo.
«Non possono dimenticarsi di me...» stava dicendo Lance a un gattino tutto tremante di freddo, che lo guardava senza più miagolare, probabilmente avendo finito la voce. «Lo so che sono l'ultimo arrivato... e non ho giocattoli o vestiti miei... mi passano tutto i miei fratelli e le mie sorelle... però ad abuelita io piaccio, sai? Mi chiama sempre briciola, perché sono nato prima del previsto e ho fatto spaventare tutti» in un altro momento quella storia lo avrebbe fatto ridacchiare, perché sua nonna la raccontava sempre con troppa enfasi e tanto dramma, come le telenovelas in tv, ma ora Lance riusciva solo a singhiozzare. «Però Luis e Marco con me giocano poco... perché dicono che devono fare cose da grandi. È vero che quando giochiamo mi diverto, ma dura sempre poco... Veronica dice sempre che deve studiare per entrare alla Galaxy Garrison. Lei vuole esplorare le stesse. È tosta, dice, ma le piace tanto. Un giorno porterà anche me a visitare gli alieni...» tentò di asciugarsi di nuovo le lacrime, ma tra il suo viso e la manica facevano a gara a chi fosse più fradicio. «Poi c'è Rachel, ma lei vuole starsene per conto suo perché dice che fa “cose da femmina"... ma sai, a me i vestiti che si compra lei piacciono un sacco... e anche le bambole. Abuelita ogni tanto ci gioca con me con le bambole, ma finisce sempre che si addormenta.»
Ormai nessuno dei due saltava più al sentire i tuoni. Erano diventati così frequenti e costanti, che non ci stavano facendo più caso.
Lance riprese a singhiozzare, involontariamente, stringendo il gattino mezzo addormentato. «Voglio andare a casa» piagnucolò. «Voglio mamá. Voglio andare al mare con papá. E poi voglio vedere le stelle di notte con Veronica e rubare gli smalti a Rachel... e voglio fare uno scherzo a Marco e poi correre via e farmi portare a prendere il gelato da Luis» il pianto si fece di nuovo rumoroso e forte, neanche si accorse di star chiamando "mamá" a voce alta, con la pioggia che picchiettava come un tamburo.
Fu il gattino a distrarlo, miagolando forte anche lui, ma non contro Lance come prima, ma verso una parte del pozzo. Lottando, si liberò e sgusciò da sotto la felpa, e continuò a miagolare, tentando più volte di andare verso l'altro versante del pozzo, ma il pavimento era completamente allagato.
«Che c’è?» chiese Lance, asciugandosi il moccio da sotto il naso. Tremava di freddo, ma si avvicinò al piccoletto per capire. E poi lo sentì. Lotano, sotto i tuoni... sentì il suo nome, urlato forte.
«MAMÁ! PAPÁ! SONO QUI! SONO LANCE!» scattò, più forte che poté. Prese in braccio il gattino e non si preoccupò dell'acqua che gli arrivava alle caviglie, ma si mise al centro del pozzo, guardando su e coprendosi la fronte con la manica per non venir frustato dalla pioggia. «SONO QUI! NEL POZZO! VOGLIO ANDARE A CASA!»
Le voci si fecero sempre più vicine, sempre più speranzose, finché Lance vide prima una luce e poi l'apparire di due teste oltre il bordo.
«Mi niño!» urlò sua madre, sporgendosi di istinto. «Lance! Lance!» continuò a chiamarlo e anche Lance la chiamò a sua volta, piangendo ancora e tendendo le braccia.
«Lance, sei ferito? Stai bene!?» a urlare di fianco a sua madre era suo zio Francisco, che con la torcia lo illuminò, accecandolo.
«Tío! Tío tirami fuori! Voglio andare a casa!»



Un paio di ore più tardi Lance era a casa, imbacuccato nell’accappatoio di sua madre dopo un lungo bagno caldo - che costrinsero a fare anche al nuovo acquisto a quattro zampe di casa McClain - e circondato da tutta la sua famiglia. Non smise più di parlare e ce ne volle per farlo smettere di piangere e chiedere scusa a profusione per essersi allontanato, ma dopo una cena ristoratrice e le coccole di tutti, Lance sembrò scordarsi di aver passato il pomeriggio in fondo a un pozzo a prendere la pioggia, ma anzi, raccontò la sua avventura con dovizia di particolari epici ed eroici, senza smettere di accarezzare la sua nuova e morbidissima gattina - sì, scoprirono che era una femmina - tutta fusa e piccoli morsi affettuosi.

«Come la vuoi chiamare?» si interessò Rachel, facendola giocare col suo dito indice. «Perla è un bel nome! Che dici? Chiamiamola così, dai!»

«Nah» replicò Lance, riprendendola in braccio per guardarla negli occhioni blu. «Voglio chiamarla come la pioggia! Lluvia!»



Sei anni più tardi, mentre i giornali parlavano ancora della sparizione di tre cadetti della Garrison Galaxy, una gattona con lo stesso nome delle “lacrime del cielo”, a detta dei nipoti di Lance, se ne stava sul davanzale di una delle finestre di casa McClain a guardare verso le nuvole, in attesa del ritorno del proprio padrone.


sidralake: (Default)
 

Cow-T, quarta settimana, M2

Prompt: Piangere senza riuscire a smettere

Numero parole: 6270

Rating: SAFE


Fandom: Voltron LD

Personaggi/Ship: Shiro/Keith, Shiro/Keith/Lance, Allura & Pidge

Note: Modern!AU + Soulmate. Grazie alla socia per il titolo. Le statistiche sono buttate a casissimo e irragionevoli.




Keith non capiva che cosa si fosse rotto, quando tutto aveva sempre funzionato perfettamente. Pensava che le cose avrebbero seguito il loro corso naturale. Erano anime gemelle, era qualcosa di simile alla scienza, non poteva non funzionare - anche se Pidge aveva molto da ridire a riguardo quando se ne usciva con un paragone simile.
Eppure c’erano stati i primi cedimenti. Alla fine del primo anno, nonostante la sensazione fosse quella di esserci sempre stati l’uno per l’altro, come se l'incontro fosse stata solo una mera formalità a una vita passata ad aspettarsi sapendo che, ehi, sono proprio qui, mi incontrerai.
Keith non era un tipo romantico. Non con una vita in cui sua madre era sparita quando lui era piccolo e suo padre era morto salvando degli sconosciuti da un incendio. Keith aveva avuto un’infanzia costellata di casini, porte chiuse e gente che gli diceva cosa fosse giusto essere. Era sopravvissuto, ecco cosa aveva fatto. Era stata dura riuscire a uscire dal pantano in cui il mondo grigio che lo circondava lo aveva incastrato; a volte si chiedeva anche come ci fosse riuscito, chi avesse creduto in lui in qualche maniera, da sempre.
La risposta sembrava essere stata Shiro. Quando si erano poi conosciuti, per caso - per sbaglio, avrebbe detto il vecchio Keith, perché una persona meravigliosa come Shiro non la si poteva sperare di incontrare neanche in venti vite diverse... be', comunque, si erano trovati. Si erano sfiorati e in quel tocco ecco i colori. Ecco che il mondo grigio aveva iniziato a vivere, a fiorire come diceva Allura, quando le prendevano i momenti romantici.
Keith aveva passato due giorni col mal di testa per quei cambiamenti tutti insieme e così anche quello sconosciuto, Takashi Shirogane. Gli aveva chiesto di vedersi per un caffè. Per, be', conoscersi. Perché sì, succedeva tutti i giorni di incrociarsi con la propria anima gemella, ma di solito capitava agli altri. Eppure, quella volta, il protagonista del film era proprio Keith e non aveva idea di come, perché, se crederci davvero. Anche solo la vicinanza di Shiro lo faceva stare bene. Sfiorarsi, anche solo per salutarsi a quell'incontro dove il caffè si era raffreddato tra una chiacchiera e l’altra, aveva reso i colori ancora più vividi.
"Dicono che... ci voglia del tempo" aveva detto Shiro, che continuava a guardare di sottecchi Keith, sorridendo come se non riuscisse a farne a meno. "Per i colori, perché diventino stabili e appaiano tutti. La frequentazione aiuta. Se vuoi."
"Lo voglio" era stata la risposta di Keith, salvo poi accorgersi di averlo detto a bruciapelo senza pensarci, e suonando terribilmente come un altro tipo di lo voglio, che strappò una risata a quell'uomo che gli aveva chiesto di chiamarlo semplicemente Shiro.
Aveva avuto ragione. C'era voluto del tempo e vedersi, di frequente, perché il mondo intorno a loro potesse acquisire quella vitalità cromatica per cui poesie, canzoni, libri, film e anche libri di scienza - come sbuffava Pidge - descrivevano dalla notte dei tempi.
E Keith, così poco incline a condividere gli spazi, perché era sempre stato un lupo solitario, aveva trovato la frequentazione di Shiro fin troppo naturale. Non si era neanche accorto di come le cose funzionassero perché, per una volta, tutto seguiva un corso naturale. Shiro non gli metteva fretta - e si scusava anche di essere molto più grande - ma sembrava ogni giorno sempre più felice di vedere lui, Keith, e non solo i colori che li circondavano. Qualcosa che aveva rischiato di mandare in paranoia Keith, non abituato a essere il centro dell'attenzione di qualcuno che non fosse un assistente sociale.
Sei mesi a seguire, dopo la loro prima, travolgente volta insieme a letto - la prima in assoluto per Keith - Shiro gli aveva chiesto di andare a stare da lui e il ragazzo aveva detto prima ancora di rifletterci. Forse perché aveva aspettato questo per tutta la vita? Un posto proprio? O perché amava Shiro, anche se non lo avevano ancora detto ma tutto, tutto parlava per loro? Perché la mattina dopo il rosso, agli occhi di Keith, fu così brillante da lasciarlo ipnotizzato da una stupidissima tazza della colazione che Shiro gli aveva regalato come benvenuto, asserendo che quel colore gli donava.


Erano passati altri sei mesi e Keith sentiva di essere arrivato alle pagine finali di quella favola. Come se accettare l’invito a vivere sotto lo stesso tetto avesse avviato un meccanismo inverso, proporzionale alla loro felicità. Era tornato un fastidioso vuoto al petto, sotto lo sterno, a volte così opprimente da togliere il respiro. E poi le lacrime. Le Lacrime erano state uno dei due campanelli d’allarme che aveva assicurato a Keith che qualcosa non andava. Lacrime indesiderate, che potevano arrivare nel bel mezzo della notte come all’ora di pranzo. Semplicemente, piangeva. Senza alcun motivo apparente, per un qualche malessere fisico o reazione. E non riusciva a smettere, non c’era verso. Poteva solo armarsi di un pacchetto di fazzoletti e rintanarsi dove nessuno avrebbe potuto commentare. Il più grosso problema era allontanarsi da Shiro con qualche scusa, perché non si preoccupasse o, peggio, fraintendesse. Non che Shiro non potesse sostenere delle lacrime, anzi, era probabilmente l’unica persona al mondo con cui Keith si sarebbe messo a piangere apertamente. Ma andava bene avendo un motivo plausibile e non quello che sembrava un pessimo sgambetto del destino. Aveva trovato la propria anima gemella, cos’altro doveva volere di più? Tuttavia, come aveva capito presto, quella era stata solo la prima avvisaglia. Il secondo problema era un colore. Uno che aveva aspettato comparisse, ma dopo un anno, ancora niente.

Keith stava guardando fuori dalla finestra dell'appartamento, la sua tazza rossa stretta tra le mani, il tè preferito di Shiro che profumava la stanza, e lui che continuava a fissare con odio il cartellone pubblicitario affisso sul palazzo di fronte. La pubblicità di un profumo, nulla di eclatante, Gocce di Mare, con una modella in un abito... grigio. Un’immensa sfumatura grigia, più scura sul finire e che risaliva come spuma sul corpo rosato della donna. Il trucco differiva, era più sulle tonalità violacee. Quello lo vedeva. Ma il resto non andava. Non era possibile che quell’abito fosse grigio, quando sotto c'era scritto Blue Essence.
Keith aveva un enorme problema ed era sempre più difficile da tenere segreto.

Infastidito dall’ennesimo sfregio a quella sua mancanza, dette le spalle alla finestra, ma inevitabilmente fece una panoramica dell'open space che era la casa di Shiro e diversi oggetti gli balzarono all’occhio: qui e lì, tra tutti i colori presenti, spiccavano dei grigi innaturali. La copertina di un libro, l'etichetta di una bottiglia, un panno da cucina.
Era stato da un medico, senza dirlo a nessuno. O meglio, aveva finito per confidarlo a Pidge e Allura, sia perché le due erano in grado di fiutare le frottole a due isolati di distanza, sia perché, tra le conoscenze di Keith, erano le massime esponenti sia della teoria dei colori sia delle anime gemelle su i due fronti che da sempre si davano battaglia, la scienza e il romanticismo (o pre-destinazione anti libero arbitrio, come la gremlin amava sottolineare). A detta del medico, era tutto a posto. La vista di Keith non aveva nulla che non andasse, le analisi fatte per scrupolo erano perfette, inclusa la tac al cervello e tutti gli esami ai nervi degli occhi. Il responso sul fatto che Keith non riuscisse a vedere il blu non era un problema clinico. E questo non aveva per niente rassicurato il ragazzo, ma aumentato la paranoia.
Era un dato oggettivo che da qualche tempo le cose tra lui e Shiro si erano raffreddate, come quel colore blu che non riusciva a percepire o quelle lacrime instancabili e indesiderate. Quella mancanza che Keith aveva sempre avuto nella vita, che pensava di aver colmato con la presenza di Shiro, non era tornata solo come un’impressione passeggera, che di tanto in tanto gli faceva massaggiare lo sterno distrattamente. Era pressante, lì ad attenderlo in giorni che iniziavano anche tranquilli e lo fagocitava prima di sera, rendendolo intrattabile, neanche stesse combattendo contro un fantasma senza avere possibilità. Shiro in pochi mesi, a volte a ripensarci gli sembravano solo giorno, aveva colmato, se non abbondato, tutto quello che dalla vita Keith non aveva mai avuto: una famiglia, un posto da chiamare casa, l’amicizia, l’affetto… perché dopo un anno tutto quello dovesse sfumare senza nessun motivo logico, Keith non riusciva ad accettarlo.
Da quando avevano iniziato a vivere insieme la sua vita aveva iniziato finalmente a mettere radici, mentre i colori si erano stabilizzati. Keith non li conosceva, perché non era mai stato un gran sostenitore di quel cambiamento che ti completa la vita. Come tutti i bambini, aveva letto i libri sui colori quando era stato alle elementari. Libri che aiutavano a gettare delle basi per il grande giorno, spiegando che il pistillo delle margherite è giallo e la corolla bianca, l'erba dei prati è verde, le mele sono rosse, i gatti possono essere neri, le melanzane viola, la pelle rosa, il cielo azzurro e il mare blu.

Non aveva mai prestato troppa attenzione a qualcosa che alla fine poteva benissimo non accadere, quando nella sua vita succedevano fin troppi avvenimenti spiacevoli. Non era mai stata una sua priorità, ma ora cercare di capire perché il cielo continuasse a essere di un colore indistinto era di vitale importanza; aveva ragione di pensare che fosse alla base dei suoi problemi silenziosi con Shiro.

Perché era ormai ovvio che a Shiro quella situazione creasse del disagio, anche se non ne avevano mai parlato. Ogni volta che qualcosa che sarebbe dovuto essere blu gli capitava tra le mani, guardava Keith e lo riponeva, o perdeva il filo della conversazione. E Keith si sentiva in colpa. Sembrava come se quel blu maledetto avesse tracciato una linea di confine tra di loro, una sorta di fosso che non potevano travalicare. E non poteva continuare così. Non scoppiando poi a piangere senza nessun motivo, a coronare la tensione. E tutto per un fottuto colore.



"Uhm… ti sarebbe utile un fazzoletto?" esordì Pidge dopo che Keith si fu messo comodo sul divano vicino alla finestra, nel piccolo appartamento di Allura. Il ragazzo trasalì, tastandosi le guance e trovandole umide.

“Merda” si lasciò scappare. Con poca grazia e frettolosamente, con le dita cercò di asciugarsi il viso, ma il pianto continuò silenzioso come ogni volta, facendolo sentire impotente. Pidge gli allungò una scatola di kleenex con espressione comprensiva, anche se il suo sempiterno piccolo ghignetto sembrava voler fare capolino.

“Tranquillo, abbiamo la soluzione anche a questo. Abbiamo fatto un po’ di ricerche sulle anime gemelle.”

Lo suo sguardo sospettoso e arrossato di Keith passò da lei alla proprietaria di casa, che finì di servire il tè prima di sedersi vicino all’amica sul divano dirimpetto. “Tutto bene, Keith? Come ti senti?” domandò con un tono intenerito dalla scena.
"Sto bene” sbottò lui, praticamente ficcandosi due fazzoletti negli occhi e reclinando la testa, facendo appello a qualsiasi essere o cosa perché finisse. Ci volle qualche minuto perché finalmente Keith potesse tornare una persona normale senza lacrimazioni improvvise. Fissò le due amiche, accantonando quel siparietto perdi tempi. “Voi due avete fatto insieme delle ricerche sulle anime gemelle? Non vi siete scannate?" domandò il ragazzo, cercando segni di unghiate o capelli fuori posto. Pidge roteò gli occhi, sbuffando.
"Non siamo rozze come te. Abbiamo una divergenza di opinioni, ma le abbiamo appianate in favore tuo e di Shiro."
Allura sorrise, porgendogli una tazza accompagnata dal tintinnio dei braccialetti al polso. Keith notò la forma aristocratica della porcellata, modellata in curve che ricordavano un fiore. Peccato che i colori fossero un accostamento spaventoso di tonalità sbagliate, ma in fondo, né Allura né Pidge avevano ancora incontrato la loro anima gemella. Sarebbe stato divertente il giorno in cui Allura avesse scoperto il colore delle sue tazzine preferite - e forse non sarebbe stato neanche troppo lontano come avvenimento, visto come Pidge stesse lavorando a un prototipo rivoluzionario di occhiali in grado di bypassare quel problema di grigi.
"Vedrai che si sistemerà tutto" lo rassicurò Allura con un sorriso. "Shiro è teso per la situazione e si sente in colpa, ma questa cosa che abbiamo trovato io e Pidge potrebbe aiutarvi."
Keith la guardò senza capire. "Perché Shiro si sente in colpa? Cosa c'entra lui?”

Il disorientamento sui visi delle ragazze a quella domanda fu lampante. Pidge si prese il viso tra le mani, soffocandoci un'imprecazione.
"Lo sapevo! Uomini! Non sanno parlare tra di loro!"
"Oh mio dio, ma non te lo ha detto?" continuò Allura, imbarazzata ma scandalizzata quanto l’altra.
"Cosa non mi ha detto!?" incalzò Keith, iniziando a sentire sulla nuca un formicolio poco piacevole.
"Credi di essere l'unico a non vedere il blu, eh? Guarda che anche per Shiro è così. Non è un tuo problema, è un vostro problema!" spiegò Pidge, scuotendo la testa e consolandosi con uno dei biscotti nell’alzatina al centro del tavolo.
Keith si sentì molto stupido; improvvisamente la riottosità di Shiro aveva un senso, essendo la stessa sua. Fu il suo turno di passarsi una mano in faccia e prendersi qualche secondo, per poi imprecare.
"Esattamente, Keith. Anche se io direi che siete proprio due cogl-"
"Linguaggio!" borbottò Allura. "Avanti, diamogli le buone notizie."
Keith tornò attento, anche se aveva una mano chiusa a pugno e le unghie conficcate nel palmo.
"Io e Allura pensiamo che tu e Shiro rientriate in una piccolissima e rara percentuale di anime gemelle triplici" esplicò subito Pidge, sganciando la bomba; mise sotto al naso dell’amico dei fogli stampati da internet, mentre Allura appoggiò di fianco un piccolo libro, un'edizione ingiallita di inizio secolo. "Se ne parla poco, perché scientificamente ha ancora meno senso delle anime gemelle in sé-"
"Ma esistono svariate fonti e delle basi fin dall'antichità, se si sa cosa si sta cercando!" la interruppe Allura.
"Sì, ci sono stati diversi poeti e autori che ne hanno scritto, ma i casi accertati e classificati negli ultimi anni sono tipo... pochissimi. Ma positivi."

Keith era più confuso di quando era entrato. Continuò a passare gli occhi dall’una all’altra e poi ai risultati della loro ricerca.
"Cosa intendete con triplice?"
"Che non siete solo tu e Shiro. Vi manca una terza parte. Ed è anche il motivo del tuo iniziare a piangere senza riuscire a smettere."
Il mondo di Keith vacillò per un istante. "... che cosa significa?"
Pidge ghignò. "Mai sentito parlare dei ménage à trois?"
"Pidge! Sii seria!" la bacchettò Allura, ma l'altra rise e basta.
"Be', è quello che succederà, quando troveranno la loro parte mancante!"
"No, ferme” boccheggiò Keith, senza riuscire a mettere in ordine le parole che voleva dire. “Io e Shiro non vediamo il blu perché una terza persona... uno sconosciuto deve ancora entrare nelle nostre vite… ? Piango perché anche questa - gesticolò confuso - terza parte piange?"
"Esatto!" squittì contenta Allura, non riconoscendo il tono smarrito del ragazzo.
Pidge fu più pragmatica, sorseggiando il suo tè col mignolino alzato per prendere in giro l’amica. "Anche tu e Shiro eravate perfetti sconosciuti, quando vi siete incontrati. Nel novantadue percento dei casi funziona così, per le anime gemelle."
"Sì ma, ho sempre avuto la... ecco, la sensazione di conoscerlo" farfugliò Keith, perché a parte averlo confessato a Shiro una volta, non lo aveva mai detto a nessun altro, ma aveva troppa confusione in testa per tenere quel particolare per sé.
"E ora quella sensazione non ce l'hai più?" continuò Pidge, che sapeva esattamente quale fosse la risposta, ma Keith era restio ad ammatterlo. Incrociò le braccia, guardando da un’altra parte; per un pessimo scherzo del destino, anche lì fuori dalla finestra c'era la stessa pubblicità della Blue Essence. Avrebbe voluto lanciargli contro una di quelle tazzine troppo variopinte.
"Shiro è... è tutto per me" sussurrò, mentre dentro la sua testa si consumava una lotta.
Allura addolcì lo sguardo, allungando la mano per posargliela sul ginocchio con un sorriso comprensivo. "E tu sei ciò che Shiro ha sempre cercato da quando lo conosco" e se lo diceva Allura, che era stata la ex ragazza di Shiro, poteva darle il beneficio del dubbio.
Pidge lo guardò a sua volta, sospirando e grattandosi la testa.
"Senti, non ti abbiamo detto questa cosa per compromettere il vostro rapporto. Tu sai quanto reputo assurda tutta ‘sta predestinazione amorosa, ma c'è poco da fare: funziona. Almeno, nel novantotto percento dei casi le anime gemelle sono felici. E se tu e Shiro rientrate in questa rarità non sarà diverso. Sempre di anime gemelle si tratta ma... siete in tre” il momento serietà tuttavia sparì un attimo dopo, soppiantato dalla logica. “Sto ancora facendo ricerche, perché, insomma, tre parti davvero? Tre anime legate o un’anima in tre? Ma poi parliamone, nessuno è riuscito ancora a dare delle basi solide tramite metodo scientifico al concetto di anima, ecco. Rimango dell’idea che sia una questione di chimica.”
"Pidge" la richiamò Allura, paziente.
"Va bene, va bene. Ascolta Keith, questa terza persona non minerà la vostra relazione, tutto il contrario. Non vi dividerà, si... ecco, si aggiungerà” e la quattrocchi alzò indice e medio di una mano, per poi alzare anche l’anulare. “Secondo alcuni racconti medievali, questa eccezione delle anime gemelle triplici deriverebbe dal concetto di tre come numero perfetto. Sai, la santa trinità tipo, eh?” ma dal tono non sembrava prendersi seriamente neanche lei.
"Questa persona non si metterà tra voi, sarà parte di voi. Non dovrete scegliere con chi stare o avere delle preferenze. Sarà come è stato con Shiro" si aggiunse Allura, con il suo sorriso rincuorante, interrompendo lo sproloquio poco costruttivo. Si chinò in avanti e picchiettò sulla copertina del libro messo vicino ai fogli. Gli amanti sconosciuti, recitava il titolo. "L'autore di queste poesie era come voi, anche lui in una relazione di anime gemelle a tre. Sono riuscita a trovare solo questa vecchia edizione, ma ti assicuro che se hai bisogno di certezze ti sarà di aiuto."
Keith prese in mano il libro, anche se non riusciva davvero a dargli peso in quel momento. Voleva solo correre a casa da Shiro.




Leggere le poesie divise a metà Keith; le sentì penetrargli sotto pelle e lasciargli sentimenti contrastanti, come se avesse potuto sfiorare con mano quella mancanza che sentiva, stringerla e farla propria, ma tutto durava l’attimo in cui poi cadeva e tornava alla realtà, con le mani vuote. I pianti improvvisi e non richiesti continuarono e Keith non riuscì a non trattenere qualche imprecazione contro quella ancora sconosciuta terza anima gemella proprietaria delle lacrime. Continuava a chiedersi cosa avesse da piangere in continuazione e senza degli orari precisi, facendo fare a lui i salti mortali per spiegarsi con i colleghi di lavoro o quando si trovava in posti affollati.

Parlare con Shiro invece fu liberatorio e passarono la notte a chiedersi scusa e a fare il sesso più dolce e liberatorio che avessero mai provato, come se avessero potuto toccare davvero quell'anima che li legava, continuando a mormorarsi tutte le paure che per settimane si erano costruiti intorno alla mancanza di un colore. Capitò anche uno di quei pianti indesiderati mentre erano insieme, e Shiro impedì a Keith di scappare in bagno, tenendolo ferme mentre gli asciugava una per una le lacrime e gli lasciava piccoli baci sulle guance. Keith non capì come si sentì, in un subbuglio di emozioni per la tenerezza o per una vena di gelosia verso l’autore delle lacrime. Nel dubbio, rimase abbracciato a Shiro senza alcuna intenzione di lasciarlo andare.
Affrontare la faccenda della terza anima gemella fu però un altro paio di maniche, soprattutto per l'ostinazione di Keith che in due funzioniamo alla grande, è una stronzata. La pazienza di Shiro fu miracolosa come al solito nel cercare di indorare la pillola. Se non erano completi, a suo dire, probabilmente c'era un perché. E se l'arrivo di quella terza persona poteva eliminare del tutto la sensazione di mancanza (e le lacrime) che ancora aleggiava tra di loro, che a volte si frapponeva tra di loro, allora cercarla poteva essere la scelta migliore. Keith però non riusciva ad accettarlo e lo fece solo perché era Shiro a chiederglielo.
"Eri restio anche quando mi hai incontrato la prima volta" scherzò quest’ultimo, quando tornarono sull'argomento anche quel giorno.

Era domenica ed erano al centro commerciale per fare spese. Essendo prossimo il Natale, era stata la scelta più sbagliata che potessero fare, ma Allura aveva insistito che andassero in luoghi affollati, dove era più probabile incappare nella propria anima gemella. Keith ancora sbuffava come un bollitore.
"Era diverso. Venivo da una situazione che non pensavo sarebbe mai cambiata e tu... tu hai riordinato la mia vita a occhi chiusi! Tu sei perfetto!"
"Vorrei che questa tua idea la rivedessi, ho i miei difetti anche io."
"Come ti pare" borbottò Keith, le mani affondate in tasca in maniera controproducente, visto che era il contatto quello che scatenava la percezione dei colori. Urtare per sbaglio qualcuno era la scena più classica in cui un’anima gemella si poteva trovare. Tuttavia, la folla nevrotica del centro commerciale ispirava in Keith zero fiducia. "Mettiamola così: non ti ho dovuto incontrare in questo inferno di persone! E' stato tutto più-- più naturale e poco invasivo!"
Shiro rise. "Keith… non sarà un intervento chirurgico dove rischiamo di perdere qualcosa o qualcosa ci sarà impiantato a forza."
Keith aprì bocca, ma all'ultimo non gli diede soddisfazione di rispondergli. Cambiò tattica. "Chi dice che questa terza parte sia nella nostra stessa città? E non sia, che ne so, in Messico! O in Eurupa!"
"Disse il ragazzo del Texas arrivato a New York per puro caso."
"Non è stato un caso-!" ma Keith imprecò, capendo di essere caduto nella trappola.
"Hai sentito Pidge, ed era più restia di te ad ammetterlo. Per loro natura, le anime gemelle tendono a spostarsi verso il luogo dove si trova l'altra..."
"Mi hanno sbattuto i servizi sociali qui a New York" fece presente Keith, incrociando le braccia.
"... nell'ottantasette percento dei casi" finì Shiro, che continuava a ridersela. Si chinò di fianco per baciarlo e, per un istante, anche se in mezzo a un tramestio che Keith davvero non sopportava, tutto sembrò essere perfetto lo stesso.
"Non sei neanche un po' curioso di sapere come sia il blu?" domandò Shiro, riprendendo a camminare e adocchiando le vetrine. Avevano unito l'utile al dilettevole, decidendo anche di fare i regali di Natale.
Keith tenne il broncio, appoggiandogli la testa contro la spalla. "E se con questa terza... anima gemella" faticò a dirlo. "Le cose non andassero davvero? Non posso essere così fortunato da trovare un altro te" sbuffò, rosso in faccia.
"Ci sarà un altro tipo di carattere con cui vai d'accordo, oltre al mio" Shiro era davvero troppo divertito da quelle confessioni e intenerito allo stesso tempo. "Con Pidge e Allura vai d'accordo."
"Sono amiche..." poi un pensiero lo rabbuiò e fermò Shiro dal proseguire. "Senti, se la terza parte fosse una.... una donna, io avrei dei problemi" confessò, guardandosi nervosamente intorno come se all'improvviso tutti fossero dei nemici. "Cose da anime gemelle o meno, io non... non mi sento a mio agio con-" e si bloccò, gesticolando con sguardo febbrile, ma Shiro lo fermò prima che tutto diventasse imbarazzante.
"Keith, respira. Io non credo sarà una donna" lo rassicurò, stringendogli le dita fredde e portandosele alle labbra per baciargliele.
"Cosa te lo fa dire?"
"Sensazione?"
"Ti prego Shiro, non è una risposta!"
L'uomo sospirò. "Non è qualcosa di cui vado fiero, ma quando stavo con Allura a volte cercavo di indagare lo stesso quella sensazione di mancanza che sentivo, tentando di capire che tipo di conforto avrebbe potuto darmi la mia anima gemella. E, non so come spiegarlo, ma quando ti ho incontrato, tu incarnavi perfettamente la forma di quella mancanza... ora che la sento di nuovo, come dire... le vibrazioni sono ancora quelle."
"Mi fido di te" sospirò Keith.
"Ho capito che per te non è facile, ma proviamo a fidarci entrambi. Facciamo dei tentativi, e se non vanno, penseremo a qualcos'altro."
Keith capitolò. "Va bene... ma non mi metterò a stringere la mano a sconosciuti o a urtarli per sbaglio... non sono ancora così disperato."

“Assolutamente d’accordo, non vorrei che venissi arrestato per molestie” ridacchiò Shiro, guadagnandosi uno spintone. “Che ne dici se ci concentriamo sui regali, per oggi?”
Keith sbuffò, annuendo, e si fece trascinare per negozi, continuando a detestare un po' tutto e tutti, ma se aveva Shiro al fianco poteva tenere duro.
Questo finché non entrarono in una profumeria e Keith si ritrovò davanti quella che era diventata la sua nemesi. Su un'intera parete del negozio troneggiava la pubblicità della Blue Essence.
"Questa è una persecuzione” sbottò, guardando malissimo la modella con quell’abito così grigio da dargli ormai il voltastomaco. “Neanche fosse bella” aggiunse con una smorfia.

“Sarai bello tu” replicò una voce a pochi passi da lui, distraendolo. “Devi essere sulla lista dei bambini cattivi di Babbo Natale per entrare e offendere così un povero cartello pubblicitario” continuò con una melodrammatica mano sul cuore quello che si rivelò essere un commesso.

“Cosa!?” Keith lo guardò con diffidenza, risistemandosi il berretto che gli stava scivolando sulla fronte. Il naso gli pizzicava un po’ per la miscellanea di odori del negozio e cercò si ritrovare Shiro spaziando l’ambiente. Ma fu distratto di nuovo.

“Fammi indovinare, sei uno di quei tipi che non ha mai creduto a Babbo Natale” continuò il commesso, mani sui fianchi e un angolo della bocca sollevato neanche avesse trovato qualcuno da torturare.

Keith era confuso, ma non sapeva se per l’atteggiamento arrogante o per il discorso. Lo guardò assottigliando lo sguardo.

“Non sono mai stato in nessuna lista di Babbo Natale” replicò imbronciato e con un’onestà disarmante anche per se stesso, avendo implicitamente ammesso di non aver mai passato dei gran natali. Lo aveva affermato con così tanta naturalità che neanche gli diede peso.
L’espressione del commesso di addolcì, almeno nello sguardo, che Keith notò essere grigio, ma di una tonalità diversa da quella di Shiro. Erano belli, anche se sembravano stonare nell’insieme dato dalla carnagione caffellatte e dal capelli castano scuro. Erano come privi di…

Keith sbuffò tra sé, passandosi una mano in faccia con rassegnazione.

“Ehi amico, se c’è qualche problema sono qui per aiutarti! È letteralmente il mio lavoro” ridacchiò il commesso, indicandogli con un ampio cenno il negozio. “Il cartello della Blue Essence non lo tirò giù neanche se mi preghi, ma abbiamo un reparto di profumi da uomo molto fornito.”

“Non mi interessa il profumo” borbottò Keith, cercando di nuovo Shiro in mezzo alle folle assiepate davanti agli espositori. “Sono… siamo qui per un regalo. Credo.”

“Oh, sei un bambino sperduto allora!”

Di nuovo, Keith lo guardò come se quel rivolgersi a lui in maniera così sfrontata fosse uno scherzo o se il ragazzo fosse serio. “Mi stai prendendo in giro?” il pensiero divenne parole e Keith avrebbe voluto strapparsi la lingua da solo. Tuttavia, il commesso non sembrò aspettarsi di nuovo quella sincerità e ridacchiò ma cercando di tenere serrate le labbra per limitare l’eccesso.

“Può darsi, ma diciamo di no, se ti lamenti in cassa di me poi mi tolgono punti! Quindi,” si schiarì la voce, “lascia che ti aiuti nella tua quest! Chi stiamo cercando?”

“Shiro.”

Il commesso annuì lentamente e con pazienza. “Ok, Shiro. Che sembra il nome di un cagnolino adorabile, ma presumo sia una persona, giusto?”

Keith lo guardò male di nuovo. “Shiro è la mia anima gemella” sbottò, per arrossire un attimo dopo dandosi dell’idiota per aver sottolineato il loro legame come una quindicenne sognatrice e innamorata.

Per la prima volta, qualcosa sul viso del commesso non sembrò così divertito, ma più simile a una tristezza rassegnata, anche se la dissimulò bene. “Ok. Shiro. Mi sai dare una descrizione così ti aiuto a cercarlo?”  

Fu come chiedere a Keith di descrivere il suo gusto di gelato preferito; il suo viso si colorò di entusiasmo, fu improvvisamente loquace e gesticolò senza rendersene conto.

“È più alto di me, così. Spalle larghe. Ha un cappotto grigio in lana, i capelli neri ma un ciuffo bianco e gli occhi grigi”

“Wow, per fortuna che alla tua anima gemella piacciono le tonalità grigie, non saprei come avrei fatto diversamente” asserì sarcastico il commesso. La potenziale figura di merda colpì Keith in pieno, facendogli bruciare le guance dall’imbarazzo.

“Posso cercarlo da me” aggiunse Keith alla svelta.

“Ma no, no. Non mi sono offeso. Tanto prima o poi l’anima gemella si incontra, no? Secondo la mia abuelita io non sono fatto per vedere il mondo grigio per sempre.”

“Abue.. lita?”

“Mia nonna, la mia nonnina, in spagnolo. Sono di Cuba” spiegò il commesso, mentre si guardava intorno alla ricerca del fantomatico Shiro. “Sono venuto qui per studiare e, be’, credo anche per trovare la mia anima gemella, visto che ho questa fissa per New York da tipo sempre” ridacchiò tra sé, poi guardò Keith con un nuovo brillio negli occhi, stavolta di curiosità. “Non mi sembra che tu abbia un accento di qui, ma neanche particolarmente marcato. Di dove sei?”

Keith soppesò la domanda per un po’, ma alla fine non ci trovò nulla di male a rispondere.

“Texas” ma non aggiunse particolari che comprendessero orfano, affidamento o servizi sociali, anche se ebbe uno strano impulso a dirlo.

“Un ragazzo del Texas nella Grande Mela per la sua anima gemella, sembra la didascalia di un film!”

Keith rise senza pensarci. “Vale anche per te” la confidenza fu strana ma lasciò correre.

Il commesso gli puntò addosso due dita-pistola, facendogli l’occhiolino.

“Si intitolerebbe Just a boy from Cuba! Potresti starmi simpatico, anche se l’ho visto che hai un mullet lì dietro! Gli anni ‘80 sono finiti, ti hanno informato?”

Keith sbuffò, ma senza prendersela. Quel tipo sarebbe andato d’accordo con Pidge.

“Oh, se il tuo Shiro è un manzo da un metro e novanta con l’eyeliner perfetto credo di averlo trovato.”

“Cosa? Dov’è?”

“Qui” e indicò a pochi passi da loro, alle loro spalle, appena fuori dal raggio d’azione delle loro chiacchiere. “Ehi, Shiro!”

Confuso dalla voce, Shiro si guardò intorno, per individuare poi la mano sventolante del commesso che gli indicò Keith. Si avvicinò, scambiando prima un’occhiata intima con il compagno per poi squadrare il commesso con l’aria colpevole di chi pensa di non ricordarsi qualcuno.

“Piacere, Shiro! Il tuo ragazzo non ti trovava e si è affidato al mio eccellente occhio da cecchino per scovarti! Quando passate in cassa lasciate una buona parola per il vostro amichevole commesso di profumeria!” ridacchiò, facendo un passo indietro come di commiato, anche se non si allontanò davvero. “Se poi vi serve una mano per scegliere qualche regalo, rimango a disposizione.”

Nonostante a Shiro mancasse qualche tassello in quel riassunto veloce, accettò l’offerta.

“Volevo un parere sul profumo Gocce di Mare per un regalo.”

“Che!? No!” Keith intervenne di istinto, facendo voltare gli altri due, ma lui guardò in faccia solo Shiro. “A chi vuoi regalarlo!? Non compreremo quel-- quel-” non trovò le parole per esprimere il concetto di odio ingiustificato che aveva verso quel prodotto.

“So che ad Allura interessa” spiegò il compagno, suonando un po’ come una scusa un po’ no, perché non capiva il comportamento di Keith.

Anche il commesso lo guardò scettico. “Amico, cosa ti ha fatto di male la Blue Essence? Giuro che la loro linea di prodotti rispetta l’ambiente e non fanno test sugli animali.”

“È blu” bofonchiò Keith, incronciando le braccia.

“È blu” ripetè Shiro, in un sospiro, capendo cosa intendesse.

“Ehi, ma che problemi avete voi due col blu?” intervenne il commesso in atteggiamento di ramanzina con le mani sui fianchi. “Ok, capisco che iniziare a vedere i colori può essere un trauma, ma ora non ditemi che il blu è brutto perché mi sentirò personalmente offeso!”

“Non ti riguarda” borbottò Keith di nuovo a disagio per creare situazioni imbarazzanti e risultare poi scontroso. Doveva mettere una croce sopra i centri commerciali e auto bannarsi.

“Ok, d’accordo” concesse il commesso, ricordandosi del proprio ruolo. “Ma qui sono il responsabile delle vendite della Blue Essence, visto come i miei colleghi trovano divertente che sia l’unico colore che io riesca a vedere, quindi piano con le offese. E poi, come stavo dicendo, i prodotti di questa linea sono davvero buoni, lasciano la pelle-”

“Cosa hai detto?” lo interruppe Shiro.

“Stavo dicendo che sono prodotti di un’ottima qualità! Oltre al profumo c’è-”

“No, aspetto. Prima, che cosa hai detto? Riguardo al blu.”

“... che è l’unico colore che vedo. Sentite, mi state simpatici, davvero, e non lo dico perché poi possiate lasciare una bella recensione - cioè, anche - ma fuori di qui vi sarete scordati di me, quindi facciamo che adesso io rientro nel ruolo di commesso che prova a vendervi qualcosa e voi tornate a essere clienti in cerca di regali di Natale, ok? … Shiro, perdona la franchezza, ma il tuo sguardo mi sta mettendo in soggezione.”

Shiro lo stava esattamente guardando come fosse il proprio regalo di Natale.

“Puoi vedere solo il blu? Come? E perché?” brontolò Keith, ancora perso nei propri sentimenti negativi verso quel colore per realizzare. Shiro gli diede una gomitata e un’occhiata eloquente, ma il compagno farfugliò solo un “Ahia!” massaggiandosi la parte lesa.

Nella confusione di chiacchiere e scalpiccii affrettati, Shiro allungò una mano verso il ragazza sconosciuto che aveva davanti, dimentico di tutto il resto.

“Possiamo presentarci di nuovo? Mi chiamo Takashi, ma Shiro va benissimo” offrì.

L’espressione del commesso non era delle più convinte; era certo che da un momento all’altro sarebbero scappate fuori telecamere nascoste e quello fosse tutto uno scherzo per incastrarlo sul fatto che perdesse tempo al lavoro, nonostante fosse tra quelli con il numero di vendite più alto proprio in virtù del suo essere tanto amichevole. Tuttavia, quello Shiro aveva una presenza a cui non si riusciva a dire no, quindi gli strinse la mano.

“Sono Lance”

Accadde. Per tutti era uno spettacolo che succedeva una sola volta nella vita, se si era fortunati. Per Shiro non fu nuova, ma bellissima lo stesso; avvertì la stessa sensazione, lo stesso brivido della prima volta, quando un anno prima aveva conosciuto Keith.

“Piacere, Lance. Hai degli occhi blu veramente molto belli” disse e c’era solo una sconfinata dolcezza nel suo tono, un po’ come sentire qualcuno dire bentornato a casa.

Lance, al contrario, aveva perso l’uso della parola. Continuava a fissare la mano che stringeva la sua, e nessuna delle due era più grigia. O almeno, non del tutto. Due toni diversi, un rosa chiarissimo e uno più tendente al cioccolato. Era così perso in quella contemplazione che neanche udì Keith commentare offeso e Shiro replicare con una risata roca, liberatoria. No, lo guardo di Lance, ancora basso, fu attirato da altri piccoli dettagli, come gli adesivi sul pavimento del negozio, colorati a indicare il percorso per i reparti, o un elastico giallo caduto a qualcuno, e ancora la pila di volantini con le promozioni del periodo.

Shiro gli strinse la mano, stretta alla sua, per farlo tornare in sé. Lance lo guardò in faccia.  

“Certo che tu non cambi davvero molto” rise nervoso, riferendosi ai suoi capelli bianchi e neri e gli occhi grigi. Poi, fu colto da un pensiero che gli procurò un filo di panico, mentre adocchiava Keith, senza mai lasciare andare le dita di Shiro. “Non è possibile” disse, troppo frastornato per elaborare. “Voi due siete già… perché io riesco a…”

“È una storia che stiamo ancora cercando di capire” risposte Shiro, anche se in quel momento era l’ultima cosa che gli interessava.

“Ehi” intervenne di nuovo Keith, che stava guardando malissimo le loro mani. “Che cazzo sta succedendo?” e sembrava davvero offeso.

Lance ritrasse la sua, a disagio, ma allo stesso tempo senza riuscire a distogliere l’attenzione da Keith, confuso nel vedere affiorare pochi colori su di lui, ma rimanendo rapito dalla tonalità violacea dei suoi occhi, che letteralmente lo lasciarono in apnea per qualche secondo.

“Io…”

“Keith” lo richiamò Shiro. “Penso che compreremo quel profumo ad Allura. E che pagherai tu.”

“Cosa!? Non esiste.”

Ma Shiro rise, scuotendo la testa e tornando a rivolgersi a Lance. “Ti dispiace prendere una confezione e darla a lui?” e gli fece l’occhiolino.

Lance obbedì come sotto incantesimo - il fascino di Shiro stava rapidamente acquistando una prospettiva diversa - e afferrò una delle scatole di Gocce di Mare, ficcandola in mano a Keith frettolosamente.

Era successo appena cinque minuti prima, ma Lance avvertì di nuovo la stessa sensazione avuta con Shiro. Quel grigio che vedeva nel cappotto di Keith mutò e divenne una fiamma nel buio, colorandosi di rosso intenso per una frazione di secondo. Poi Lance sentì una fitta alla tempia e si ritrasse.

“Piano” Shiro gli appoggiò una mano sulla schiena per sostenerlo. “Avrai un po’ di mal di testa all’inizio. Domani andrà meglio.”

“Mi viene da piangere” bofonchiò Lance. Aveva così tante emozioni dentro ad agitarsi che iniziava a fargli male anche il petto. E due lacrime lasciarono davvero i suoi occhi.

“Per tutto questo tempo è stata colpa tua” la voce di Keith lo raggiunse tremante.

Quando alzò il viso, Lance lo vide con le guance rigate e un’espressione omicida. Stringeva la confezione del profumo così tanto da averla rovinata, mentre la guardava come se lo avesse offeso nel profondo. Poi Keith spostò la propria attenzione al cartellone pubblicitario della Blue Essence, completamente diverso, completamente blu come quel mare in gocce che pubblicizzava.

“Lance” chiamò, tornando con un’occhiata verso di lui e verso i suoi occhi, molto più belli e in armonia col resto di lui. “Prendiamo questo profumo. E anche te. Voglio andare a casa.”


sidralake: (Default)
 

Cow-T, quarta settimana, M2

Prompt: Dimenticarsi di qualcosa/qualcuno

Numero parole: 1234

Rating: SAFE


Fandom: Voltron LD

Personaggi/Ship: Shiro & Lance, Baby!Allura, past Allura/Lance

Note: POST S8.
Un Lunedì sera scrivi questa cosa, il giorno dopo gli autori di Voltron dichiarano “eh, ci siamo immaginati Lance che cresce una piccola Allura e il suo amore romantico diventa platonico” WTF. No, pigliatevi l’ANGST.




Lance stava cantando una ninna nanna da più di mezz’ora ormai e Shiro si decise a chiudere il libro che stava fingendo di leggere. Lo abbandonò sul tavolino e si alzò dalla poltrona, sentendo addosso tutta la stanchezza di quei giorni, ma senza che questa lo portasse a dormire, anche solo un sonno esausto. Quando si affacciò alla cameretta allestita alla bell’e meglio, trovò Lance esattamente come l'aveva lasciato: ancora sulla sedia a dondolo, ancora con la piccola Allura tra le braccia.
Erano quasi le undici di sera e nel cielo brillava Ilyan, il satellite naturale di Nuova Altea, con le sue sfumature sfumate di rosa. I raggi filtravano dalla finestra e illuminavano in pieno l’ex paladino blu e la piccola principessa. I marchi di entrambi, piccoli come i petali di un fiorellino appena sbocciato quelli di Allura, e azzurri come due gocce d'acqua quelli di Lance, baluginavano di un tenue bagliore, stimolato proprio dalla luna.
Shiro si avvicinò piano, senza dire una parola. Rimase lì ad aspettare ancora un po', ma anche se Lance lo aveva notato non accennò a smettere, lanciandogli un'occhiata rapidissima per poi distogliere l'attenzione, come se servisse a non renderlo reale e prolungare quel limbo.
In silenzio, Shiro prese una seria e la sistemò davanti a Lance. Si sedette in una posa stanca, i gomiti appoggiati alle ginocchia e le dita intrecciate scompostamente.
Le parole di quella nenia spagnola andarono esaurendosi; Lance chiuse gli occhi e smise anche di cantare. Allura continuò a dormire, la testolina appoggiata alla sua spalla e un pugnetto stretto in bocca.
"Non riesco a staccarmi" sussurrò il ragazzo; le mani gli tremarono appena, insieme alla voce, rimarcando la sensazione di stanchezza e vuoto che si trascinava in quei giorni.
Shiro gli poggiò una mano sul ginocchio, in un piccolo gesto di conforto e incoraggiamento a parlare.
A Lance servì qualche minuto ancora, prima di poter parlare di nuovo. "Non è giusto. Prima il sacrificio, ora questo..." sospirò, ed era un sospiro pieno di lacrime. "Non fraintendermi, saperla viva è più importante di ogni cosa... ma..."
Non ci riuscì; gli sfuggì un singhiozzo che gli scosse il petto e la bambina si mosse con un piccolo verso di protesta. Lance si allarmò, rinsaldando la presa tentando di riprendere a cantare, appoggiandole una mano sulla testa, ma il suo corpo non ne voleva sapere di smettere quei tremori e lui non andò oltre la prima strofa.

Shiro allungò le braccia e si fece passare la piccola, che si agitò indispettita, guardandolo con un broncetto tutto contrito. Ma bastarono le sue grandi mani calde, in coccole lente e affettuose, per far arrendere qualsiasi principio di malcontento nella piccolina. La principessa sgambettò un po', nella nuova posizione accoccolata, e tentò di afferrare con la mano il ciuffo dell'ex paladino nero, tutta concentrata nei suoi tentativi.
"Si è dimenticata di me. Non si ricorderà mai di… noi" la voce di Lance non sembrava la sua, ed era così piccola e misera che Shiro si irrigidì a sua volta. "Crescerà, diventerà di nuovo la Principessa Allura di Altea e... vivrà un'altra vita, senza sapere chi ero io per lei."
Non c'era modo di rispondere a quella constatazione senza sentire il cuore stringere nel petto e fare male.
Erano passati quasi cinque anni da quando la loro avventura a bordo di Voltron era finita. Cinque anni in cui avevano ricostruito dalle macerie intere civiltà che l'Impero Galra aveva piegato e spezzato per migliaia di anni. Avevano ricostruito anche le loro vite, un po' alla volta, pezzo dopo pezzo, passo dopo passo, senza smettere di essere quella squadra di cui l'universo aveva avuto bisogno, nonostante non agissero più insieme.
Non era stato facile per nessuno di loro. Avevano imparato a convivere con i fantasmi, gli scheletri e i sensi di colpa, ma i giorni di tempesta si erano rasserenati e il futuro era tornato ad avere una prospettiva affrontabile.
Poi, una notte, senza alcun preavviso, tutti e cinque avevano distintamente sentito un vecchio brivido lungo il corpo e un ruggito inconfondibile in testa. Di lì a poche ore, su Nuova Altea avevano fatto ritorno i cinque Leoni di Voltron, nello stupore generale di chi era stato svegliato di soprassalto, temendo che tutto potesse ricominciare.

Ma due pianti li avevano scossi più di qualsiasi altra congettura. Due pianti di bambini, di neonati, uno proveniente da Black e uno da Red. All’apertura delle loro fauci meccaniche, gli ex paladini si erano arrampicati all'istante dentro i robot fino alla cabina di pilotaggio, per trovare sui rispettivi sedili due infanti. Non c'era voluta che un'occhiata per riconoscerli. Erano Lotor e Allura.

I giorni successivi si erano alternati tra riunioni generali per cercare di capire il significato di quell’evento e momenti in cui tutti sembravano dimenticarsi della faccenda, occupandosi dei bisogno dei due neonati.

Lance, dapprima restio, ora non pareva più in grado di lasciare Allura da sola un istante. Shiro lo aveva osservato prendersene cura diviso da sentimenti diversi, passando dall’entusiasmo nello scegliere quale tutina metterle ad attimi estemporanei, in cui il suo sguardo sembrava vuoto nel guardarla nella culla. Non era stato l’unico ad accorgersene e, durante una riunione in cui Lance era stato volutamente lasciato in disparte, con gli altri si era concordato di tenerlo d’occhio.

Non tanto perché potesse fare qualcosa di stupido, il pensiero non aveva sfiorato nessuno di loro, quanto invece il timore che quella faccenda avrebbe potuto portare Lance a comportarsi di nuovo come nei giorni post guerra, dove i suoi sorrisi erano congelati e la sua presenza un fantasma di quello che era stato il paladino blu.

Non mancava istante in cui Keith ribadisse che avrebbero dovuto affidare Allura a qualcun altro e non a Lance, avanzando l’idea che sarebbe potuta crescere con le Lame di Marmora come era stato deciso per Lotor, ora alle cure di Kolivan, Krolia e delle sue ex generalesse. Ma nessuno avrebbe avuto davvero cuore di portare Allura lontana da Nuova Altea e da Coran, che per la prima volta in cinque anni aveva riacquistato lo stesso brillio negli occhi. Questo però significava anche che Lance sarebbe rimasto a gravitare intorno ad Allura, essendo Nuova Altea anche la sua nuova casa. Era una situazione complicata.

Tra le braccia di Shiro, Allura si riaddormentò di nuovo, nonostante desse l’idea di combattere il sonno, tra uno sbadiglio e l’altro. Con attenzione, l’uomo la sistemò nella culla, rimboccandole le coperte e dandole un’ultima carezza sulla testa. Anche se in silenzio, in quei giorni, Shiro non riusciva a non mascherare la tenerezza e l’affetto di saperla di nuovo viva, al di là di cosa potesse significare il suo ritorno; sentiva ancora bruciare addosso il loro ultimo abbraccio, il desiderio di fermarla e non lasciarla andare. Ma ora, c’era qualcun altro che in quel momento non voleva se ne andasse, perdendosi in se stesso.

Voltandosi, trovò Lance rannicchiato sulla sedia a dondolo, gli occhi umidi in un pianto silenzioso, ma con la potenza di un tuono in grado di scuotere le fondamenta. Shiro gli si inginocchiò davanti, cercando la sua attenzione. Gli offrì la propria mano umana e rimase in attesa finché, chiudendo gli occhi, Lance la afferrò.

“Non sei solo” rimarcò Shiro in tono fermo e sincero. “Non posso prometterti nulla su cosa succederà, ma lo affronteremo insieme. Sei con me?”

Lance annuì, soffocando i singulti in una mano, e lasciò che Shiro lo abbracciasse e lo consolasse.  


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Cow-T, quarta settimana, M1

Prompt: Rivelazione

Numero parole: 2019

Rating: SAFE


Fandom: Voltron LD

Personaggi/Ship: Keith/Lance, il resto dei paladini

Note: Modern!AU, sono tutti maggiorenni.



Di lì a mezz'ora si sarebbero dovuti incontrare con gli altri per il loro venerdì sera di bagordi, ma erano già in ritardo. Keith si era offerto per passare a prendere Lance alla scuola dove faceva lezioni di nuoto. La sessione per i bambini doveva essersi conclusa già da un po', ma quando entrò trovò la segretaria della piscina a scuotere la testa e indicargli con un cenno il corridoio.
Arrivando davanti al vetro che dava sulla grande vasca, insieme agli altri genitori, Keith constatò che tutti i bambini erano ancora dentro l'acqua e non solo loro. Lance era immerso fino alla vita, vestito con i pantaloncini e la polo che usava nei giorni in cui, in teoria, non sarebbe dovuto entrare in acqua. Ma era inutile farglielo presente.
Nonostante il ritardo, la maggior parte dei parenti lì sembravano divertiti dalla scenetta. I ragazzini erano divisi in due squadre e stavano giocando a una variante di ruba bandiera, ma con stili diversi di nuoto.
"Finché non finiranno non riavremo le nostre pesti" sospirò divertita una nonna, salutando con un cenno quello che doveva essere il nipote. "Qual è il suo?" domandò verso Keith.
"Quello vestito" sospirò Keith, facendola ridacchiare nel capire che si trattasse dell'istruttore.
Venti minuti dopo, i bambini uscirono correndo dallo spogliatoio, vociando e saltellando, mentre Keith se ne teneva a distanza standosene appoggiato contro il muro, il casco saldo a un braccio.
"Prossima settimana rivincita del team papere!" promise Lance, uscendo per ultimo e ricevendo un assordante "Siiiii!" all'unisono da tutti i ragazzini.
"Hai ancora i capelli fradici" brontolò Keith, lì di fianco. Lance sussultò per non averlo notato.  
"Devo dire a Giselle che dei phon a muro ne è rimasto solo uno funzionante. Ho dovuto asciugare velocemente i capelli di tutti col mio" sospirò il ragazzo. Aveva un asciugamano arrotolato al collo e lo usò per riprendere a frizionarsi la testa mentre si incamminava verso la sala staff.

Keith gli rimase dietro e suo malgrado l’occhio gli cadde sulla sua figura, come troppo spesso ormai accadeva. Quando Lance usciva dalla piscina profumava nonostante l'odore di cloro di fondo. La pelle poi sembrava sempre perfetta e morbida. Portava i pantaloncini corti a lasciare le gambe scoperte, lunghe e lisce, un invito per lo sguardo.
"... dov'è?"
Keith tornò in sé, ma senza cogliere il soggetto. "Cosa?"
"Terra chiama Keith? Pronto? Il locale! Dove andiamo stasera? Allura non ci voleva tornare nell'ultimo dove siamo stati. I cocktail erano dosati malissimo. Dios, ancora non mi ricordo un accidenti di quella sera."
Keith la ricordava molto bene invece e forse non era il caso di ripensarci, o si sarebbe dovuto chiudere in bagno prima di poter salire sulla moto.
"Ho l'indirizzo, non mi ricordo il nome" fu la rapida risposta. "Siamo già in ritardo però. Datti una mossa."
"Yes, sir" sbuffò Lance, entrando nella zona staff. Keith in automatico lo seguì e Lance lo fissò con la coda dell'occhio, mentre andava al proprio armadietto. "Sai, non penso di aver bisogno del bodyguard per cambiarmi. O di un mullet petulante che mi rovini il buon umore dicendomi sbrigati Lance! Faremo tardi!" scimmiottò con voce volutamente stridula e una posa da donzella d’altri tempi.
Keith incrociò le braccia, la giacca di pelle che scricchiolò tendendosi sulle braccia e le spalle.
"Bene!" sbottò, annoverando l'ennesimo motivo perché sono un idiota a farmi piacere questo cretino nella sua colonna di punteggi mentali. Uscì, sbattendo anche la porta. "Se fra cinque minuti non sei fuori ti porto via di peso e in mutande!"
Da dentro la stanza, Lance non fu da meno. "Dovrà esserci un'invasione aliena prima che tu possa bearti della possibilità di portarmi in braccio da qualche parte!"
Un quarto d'ora dopo erano finalmente fuori dalla piscina, con i cellulari di entrambi che avevano iniziato a trillare di notifiche nella chat comune.
"Siamo in ritardo per colpa tua" sottolineò di nuovo Keith, passando il casco a Lance.
"Siamo in ritardo per colpa tua" gli fece il verso l'altro con una smorfia, salendo a cavalcioni sulla moto dietro di lui. "Non posso presentarmi all'aperitivo che puzzo di cloro e ho i pantaloncini, dammi tregua. Non sono come te che ti infili il primo sacco di juta ed esci."
Keith stava per accendere la moto ma si fermò, girandosi di scatto e mancando per un soffio il casco dell'altro.
"Non mi vesto male!"
"No, infatti hai un armadio dal titolo cinquanta sfumature di nero. Mai pensato di fare il becchino?"
Keith lasciò perdere, accendendo la moto e partendo. L'unica soddisfazione che ebbe da lì al locale fu ascoltare Lance urlare "Rallenta!" ogni due minuti e sentirlo stringerglisi contro quasi a togliergli il respiro.
"Tu sei pazzo!" sbottò Lance quando parcheggiarono, togliendosi il casco senza badare ai capelli sparati in ogni direzione - che di solito era la sua prima preoccupazione su tutto. "Se ti vuoi ammazzare vedi di non farlo quando ci sono anche io a bordo!"
"Rilassati Lance" ghignò Keith, ancora a cavalcioni sulla sua kitty. "La prossima volta non fare tardi, così non dovrò correre."
Entrarono al Makai con Lance che ancora stava imprecando in spagnolo e Keith che si massaggiava sovrappensiero il petto, lì dove Lance aveva affondato le dita per reggersi.
Il locale era ancora piuttosto vuoto, così individuarono subito gli altri, tutti con un sorrisone sulle guance.
"Non pensate che sia bellissimo questo posto?" esordì Allura. Aveva un finto ibiscus nei capelli, enorme e di un colore sgargiante. Oltre a quello, intorno al collo aveva anche una collana di fiori, come pure tutti gli altri. Hunk e Pidge ne misero una a Lance e Keith prima che potessero dire ma.
"È un posto in stile hawaiiano, quindi" concluse Lance, guardandosi intorno, per poi tornare su Allura e sfoderare un sorriso identico al suo. "Mi piace! Dove posso prendere anche io un fiore come il tuo?"
E i due si dileguarono verso il bancone a importunare il barista per altri accessori.
"Tutto bene?" chiese quindi Shiro, quello più tranquillo e che sembrava si stesse godendo il divanetto che avevano prenotato. Si era messo più che comodo, occupando quasi due posti, ma avevano scelto uno dei tavoli migliori per la serata proprio per rilassarsi. Aveva ancora i vestiti del lavoro, anche se erano rimasta solo la camicia e i pantaloni eleganti, mentre la cravatta e la giacca dovevano essere al guardaroba. Come gli altri, anche lui sfoggiava una collana floreale e un bicchiere di Piña Colada.
Keith alzò un sopracciglio, osservando proprio il drink, mentre gli si sedeva di fianco. "Hai già iniziato a bere?"
"Non chiederglielo" intervenne Pidge, facendo un gesto con la mano come scacciasse qualcosa di rompiscatole. "Ha avuto una pessima giornata e vuole tornare a casa senza ricordarsi come si chiama."
Keith fece tanto d'occhi. "Che è successo?" giusto perché per lui il non chiedere con Shiro non aveva valenza.
"È passato il procuratore in centrale a farmi la ramanzina sulle prove dell'ultimo caso."
"Tradotto" riprese Pidge, con un ghigno. "Da Lunedì Shiro si farà una settimana di scartoffie perché ha agito di testa sua."
"Ma hai chiuso il caso prima che finisse male!" esclamò allibito Keith.
"Ma non ha seguito la procedura" insistette la ragazza, che sembrava trovare tutto molto divertente.
Shiro scosse la testa, finendo di scolarsi in due sorsi il cocktail. "Va bene così. Ho preso lo stronzo che ha ferito Matt. Una settimana alla scrivania non sarà niente."
"Ecco, a proposito, come sta tuo fratello?" chiese Hunk, spizzicando gli antipastini.
"Si lamenta e fa il filo alle infermiere. Sta fin troppo bene. Lo spediranno a casa tra qualche giorno. Vi saluta."
Lance e Allura tornarono in quel momento, raggianti come se avessero incontrato Babbo Natale.
"Taaa-daaaan!" esordirono, allungando una scatola decorata con un buffo pattern di ananas con gli occhiali. "Guardate qui!"
L'interno traboccava di oggetti per la festa, tutti a tema Hawaii. C'erano altre collane, i più svariati fermagli, delle camicie con coloratissime fantasie assurde e anche le tipiche gonnelline da danzatrici.
"Alla fine di questa serata tirerete fuori il peggio di voi, lo sapete, sì?" e Pidge indovinò il pronostico anche quella volta.


Mentre lei e Keith erano i guidatori designati, gli altri quattro del gruppo non ci pensarono due volte a sfondarsi di alcool fino a diventare l'anima della festa. Erano quasi le due di notte e al centro della pista da ballo Shiro, Lance e Allura dominavano la scena, tutti e tre con i finti gonnellini, collane hawaiiane al collo, girate ai polsi e Shiro anche in testa, mentre Allura e Lance avevano gli ibiscus finti. Hunk invece era al bancone a chiacchierare amabilmente con una delle bariste, Shay, sulle specialità del posto.

Quando fu ora di andar via iniziò la parte comica, in cui Keith e Pidge si trovarono a sorreggere in qualche maniera Shiro e a portarlo alla macchina, riacchiappare Allura che si mise a ballare anche nel parcheggio, e staccare Hunk da Shay, lasciandole il numero al posto suo perché era troppo ubriaco per azzeccare la sequenza delle cifre.
"Ce la fai con Lance in moto?" chiese Pidge scettica, osservando Lance che ancora se la ballava da solo all'uscita del locale, senza essersi tolto né gonnellino né ibiscus, regalati dal proprietario. Keith assentì, dandole la buona notte e osservando l'auto andarsene, con Allura e Shiro che lo salutavano come due ragazzini dal parabrezza posteriore.
"Keeeeeeef" urlò Lance, buttandoglisi di peso addosso e rendendolo sordo da un orecchio. "Balliiiiiamooo."
Ma più che ballare, Keith si ritrovò a districarsi dalle braccia di Lance come fossero tentacoli.
"Cerca di calmarti, ti porto a bere qualcosa di caldo per la sbronza" sospirò il moretto, arrendendosi a farsi abbracciare e non trovando in realtà molto da dire, visto che, in fondo, Lance gli piaceva. Peccato il piccolo particolare che fosse etero.
"Ma io voglio ballare con te" ridacchiò Lance, staccandosi e ondeggiando sul posto come sentisse ancora la musica. Afferrò le mani di Keith e lo trascinò di forza, rischiando di farlo inciampare.
"Lance! Sei ubriaco, smettila! Lo sai che non ballo."
"Sono un uccello e questa sarà la mia danza per l'accoppiamento allora!" sbottò Lance, facendo una giravolta che quasi lo fece cadere, ma senza fermarlo. E Keith era troppo sbigottito da quell'ultima frase per reagire.
"Che diavolo stai dicendo?"
"Se tu non ti vuoi fare avanti, allora ti conquisterò con la mia danza, mullet selvatico!"
E fu di parola perché continuò a scatenarsi intorno a Keith, in movimenti imbarazzanti del bacino, baci lanciati tra una giravolta e l'altra e strusciamenti equivoci. L'ultima mossa fu un casquette e Keith dovette prendere al volo Lance che ancora rideva divertito.
"Ti ho conquistato, mullet?" chiese ansante, il viso accaldato e sudato.
"Mi stai prendendo in giro" replicò Keith, che davvero non sapeva più che cosa pensare o se pensare.
"Quanto fai il difficile! Allora serve un bacio!" e il cubano non perse tempo ad afferrare Keith per la testa e fare quanto detto. Le labbra di Lance erano dolciastre e alcoliche, ma quando Keith sentì la lingua insinuarsi nella sua bocca si riprese, staccandosi.
"Fermo!" strepitò, avvertendo le guance in fiamme, e doveva avere due occhi spalancati neanche avesse visto un fantasma. "Che diavolo significa!?"
Lance, incespicando sui piedi, una mano sul fianco e una a mimare una pistola, gli fece l'occhiolino. "Fai di me ciò che vuoi, baby" ridacchiò.
"Lance, a te… a te piacciono le donne" disse Keith neanche fosse una spiegazione inconfutabile, nonostante il tono smarrito. Una spiegazione che il battere rumoroso nel suo petto non pareva d’accordo a sostenere.
Lance, di nuovo, sbuffò una risata, muovendo le mani in gesti scoordinati.
"Mmpfhh... quello! Quello era prima! A Lance piacevano le donne!" affermò, ma si bloccò l’attimo dopo, pensieroso. "No, aspetta. A Lance piacciono ancora le donne. Però gli piace anche-" e gesticolò verso Keith, a indicarlo tutto. Poi spalancò gli occhi, colto da un un’altra idea. "Por Dios, credo di essere bi. Perché tu sei un mullet, ma sei anche un ragazzo!" ridacchiò ancora, le mani sul petto. "Lance e Keith, la coppia che nessuno si aspettava! Come suona?"
Suonava che Keith, quella rivelazione, la stava ancora processando.


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Cow-T, terza settimana, M2

Prompt: Per evitare di essere scoperta ho scelto la latitanza. (Jeanette Winterson, Powerbook)

Numero parole: 512

Rating: SAFE


Fandom: Voltron LD

Personaggi/Ship: Lance & Pidge

Note: College!AU




Quando Lance entrò nella propria stanza trovò la luce accesa e un fastidioso tac tac di fondo provenire dal suo letto. Con un'occhiata inquadrò subito Pidge, rannicchiata sul suo letto, pc sulle gambe e un plaid buttato in testa.
"Ok. Che cos'è successo, perché sei qui?"
"Ho rubato l'ultimo budino di Hunk e non ci metterà molto a scoprire che sono stata io. Ho perso il fermaglio di Allura in biblioteca - ma è colpa sua che ha insistito a farmelo mettere - e fino a domani non posso passare all'ufficio oggetti smarriti per sapere se lo hanno ritrovato. Ho sparato a Matt che ho un ragazzo per zittirlo sui suoi drammi continui e ora non mi lascia in pace. È stata una pessima giornata."
Lance si chiuse la porta della camera alle spalle ma rimase lì fermo a fissarla.
"Hai davvero il ragazzo?"
Pidge roteò gli occhi.
"Secondo te?"
"Secondo me non te lo sei ancora costruito, quindi no" assentì Lance, sicuro, e finalmente avvicinandosi al letto dove stava l'amica. "Mi stai dicendo che sei tipo latitante, allora?" ridacchiò, gesticolando perché le facesse spazio. Si sistemò di fianco a lei, buttando un occhio allo schermo del computer ma trovandoci i soliti codici noiosi.
"Non lo siamo un po' tutti?" replicò lei, senza smettere di digitare, a metà tra un tic nervoso e uno sfogo.
Lance la guardò come se si fosse appena trasformata in un'aliena. "Questa uscita filosofica da dove arriva? Credevo che le uniche citazioni che conoscessi comprendessero numeri o lettere in formula."
"Studio anche io, Lance. E purtroppo il professore di analisi insiste molto che guardiamo anche l'aspetto filosofico ed etico della matematica."
"Wow" riuscì solo a dire Lance, sinceramente stupito. "Quindi quando un giorno avvierai la tua dittatura mondiale conquistandoci con i tuoi robot, in fondo potremmo appellarci al tuo lato "etico"? Sempre se prenderai la sufficienza all'esame."
"Sapevo che dovevo andare a nascondermi da Keith, almeno lui sta zitto."
"Oh, non provare a paragonarmi a quel mullet musone! Volevo tenerti compagnia in quel che ti resta da vivere prima che Hunk scopra che sei la ruba-budini!"
"Stavo morendo di fame..." si giustificò lei lamentosa.
"E sei pronta a sostenere ad Allura che ti dirà "oh, dai Pidge, non importa per il fermaglio, non era importante..." quando in realtà magari era l'ultimo ricordo di sua madre?"
"Lance... ho un'improvvisa voglia di strozzarti..."
"Poi sei stata poco furba con Matt. Ora lo dirà a Shiro, che lo dirà a Keith, che lo andrà a dire a Hunk visto come sono diventati amiconi ultimamente, e Hunk lo dirà a me e io mi sentirò in dovere di scriverlo su ogni social del college perché il mondo deve sapere..."
Pidge smise di scrivere e chiuse il computer, molto lentamente. Si tolse il plaid dalla testa e si voltò verso Lance.
"Hai un ultimo desiderio?"
Lance la guardò senza capire. "Cosa?"
"Be', sai, tra il rintanarmi qui per non farmi beccare da Hunk, Allura o Matt, improvvisamente penso che darmi alla latitanza per il tuo omicidio gioverà meglio ai miei rapporti sociali."


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Cow-T, terza settimana, M2

Prompt: Per evitare di essere scoperta ho scelto la latitanza. (Jeanette Winterson, Powerbook)

Numero parole: 589

Rating: SAFE


Fandom: Voltron LD

Personaggi/Ship: Adam & Shiro

Note: Poliziesco!AU



Adam tornò a casa trovando una pessima sorpresa ad attenderlo. Quando infiò la chiave nella toppa scoprì che la porta era aperta.
Mise subito mano alla fondina ascellare, sganciando la pistola e impugnandola bassa. Dette un'occhiata a destra e a sinistra, spaziando il corridoio del palazzo da un capo all'altro per assicurarsi che non ci fosse nessuno. Aveva la batteria del cellulare scarica per chiamare la centrale e segnalare l'effrazione. Quella era davvero il finale perfetto di una pessima giornata.
Assicuratosi che non ci fosse nessuno, con una mano spinse l'uscio, aprendolo, ma restando appoggiato al muro, in attesa. Non sentì movimenti. Con un'occhiata rapida, cercò di individuare qualcosa all'interno, ma la luce era spenta nell'ingresso e nel salotto. L'unico bagliore proveniva dal corridoio che portava alla zona notte.
Si mosse senza far rumore, entrando e chiudendo la porta, la pistola pronta a scattare al minimo movimento sospetto.
Non sembravano esserci segni di ladri. Tutto era al proprio posto, anche il quadro che nascondeva la finta cassaforte. Adam iniziò a vagliare le ipotesi, confuso anche dalla leggera tachicardia e dall'adrenalina. Non aveva chissà quali oggetti di valore in casa. La cassaforte finta era un depistaggio del vecchio inquilino, mentre quella vera era in camera da letto, ma dentro c'erano giusto un paio di gioielli ricordo di sua madre e sua nonna, di un valore più sentimentale che reale, ed era il luogo dove riponeva la pistola di ordinanza quando era a casa. Ma se non erano entrati dei ladri, allora non sapeva cosa aspettarsi e questo lo fece sudare ancora più freddo quando imboccò il corridoio.
Notò che la luce veniva dal bagno, dalla porta lasciata semi aperta, e sentì per la prima volta dei rumori. Riconobbe come lo sportello dello specchio aprirsi, il rovistare all'interno dei cassetti e poi una leggera imprecazione che gli mise un brivido addosso, ma era troppo concentrato a pensare a cosa stesse succedendo.
Contò fino a tre, prima di oltrepassare la porta deciso, la pistola spianata e urlare un "Mani in alto!" così potente da rimbombargli nelle orecchie.
Quello che non si aspettò di trovare fu "chi" ci fosse nel bagno, che lo guardò stancamente, irrigidendosi e alzando le mani più per prassi che per reale timore.
"Ciao, Adam" mormorò Shiro. "Ti dispiace se finisco di medicarmi?" e gli mostrò il braccio sinistro, dove un profondo taglio da lama stava sgocciolando sul tappetino del bagno.
Adam abbassò all'istante la pistola, quasi col desiderio di buttarla il più lontano possibile come temesse un colpo accidentale. Il battito del cuore nelle orecchie non si arrestò.
"Che cazzo ci fai qui? Che cazzo è successo!?"
"Abbassa la voce e... linguaggio?" scherzò Shiro, tornando a tamponarsi la ferita. "È successo un casino..."
"Ti è saltata la copertura?" indagò subito Adam, pensando di dover raggiungere il telefono e chiamare la centrale il prima possibile.
"... non ne sono ancora sicuro, ma ho dovuto rubare una cosa per Lotor e questo ora mi ha messo alle calcagna tre scagnozzi di Sendak. Sono dovuto scappare perché potevano scoprirmi, questo però" e alzò il braccio, "è stata una svista. Non è stata una gran giornata."
"A chi lo dici" sospirò Adam, sentendo l'adrenalina scemare mentre poggiava l'arma e si rimboccava le maniche per aiutare il compagno a medicare la ferita. "Quindi... dopo che avrò chiamato Iverson per dirgli che il suo uomo migliore sotto copertura è latitante, che cosa vuoi dal cinese take away?" tentò di ironizzare, non potendo che cedere a un barlume di felicità nell'averlo lì dopo tanto tempo.

April 2025

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