COW-T 11, settima settimana, M6
Prompt: 009. Saudade: A deep emotional state of nostalgic or profound melancholic longing for an absent something or someone that one cares for.
Numero parole: 13053
Rating: SAFE
Warning:
Note: 15 anni nel futuro o giù di lì. Haibara non ha mai trovato l’antidoto all’APTX4869 e quindi Shinichi è tornato adulto naturalmente. O meglio, sono passati degli anni, e ora lui ha circa 22 anni e Ran 32.
I know I shouldn't be here but my heart can't stop
Screaming out your name
Screaming out your name
[Try Again - Walking on Cars]
Nella grande hall del palazzo di New York che ospitava una delle società del gruppo finanziario Suzuki, le porte scorrevoli trasparenti d’entrata si erano appena chiuse. Premendo un tasto dalla consolle di controllo della reception, una delle due segretarie presenti bloccò le porte in ingresso. Erano le sei e mezza di sera ed erano già oltre l’orario per le visite.
“Quel ragazzo proprio non si arrende. Mi fa un po’ di tenerezza” sospirò, osservando la figura che si allontanava dal palazzo a passo misurato, senza voltarsi.
“Quale ragazzo?”
“Dai Constance, Quel ragazzo giapponese che se ne è appena andato” spiegò Valery alla collega seduta al pc intenta a chiudere gli ultimi file della giornata. “Avrà credo… una ventina di anni? Parlo di quello che viene qui almeno una volta a settimana!”
“Aah! Intendi il ragazzo che ha sventato l’attacco bomba due settimane fa?”
“Quello! Se ricordo bene si chiama Shinichi Kudou. È un giovane agente dell’FBI, ma non lo avrei mai detto se non fosse stato per quell’incidente… è stato davvero professionale e coraggioso, sembrava tutta un’altra persona!”
“Che situazione deve essere stata… per fortuna ero in ferie, penso che sarei rimasta traumatizzata a vita.”
“Se non ci fosse stato quel ragazzo non starei qui a raccontarlo!” affermò Valery con tenacia, scuotendo la testa. “Ho tenuto in mano il pacchetto con la bomba senza saperlo! Se quel ragazzo non se ne fosse accorto… e se non l’avesse disinnescata! Non voglio pensarci.”
“Eh, ma se dici che è un agente dell’FBI è il suo lavoro, almeno credo. Forse è un artificiere?… anche se è davvero giovane.”
Valery annuì convinta. “Sembrava uscito da un film!”
“Esagerata…”
“Dai pettegolezzi che ho sentito è stato coinvolto in operazioni dell’FBI fin da piccolo! Forse per questo ora ne fa parte? Ho sentito dire che gli è bastato dire di voler fare domanda e ha trovato solo porte aperte… e vedessi il suo mentore! Anche lui sembra in parte giapponese, si chiama Akai qualcosa… che uomo! Quarant’anni ma non glieli daresti! Mi ha ricordato il personaggio di quel film che vinse i Macademy anni fa.”
“Vi siete messi a fare salotto dopo l’incidente!? Come sai tutte queste cose?”
“Pare che sia il capo che la signorina Mouri li conoscano entrambi! Storie del passato in Giappone... Sono rimasti a parlare un sacco mentre gli agenti prendevano le deposizioni, così ho ascoltato un po’!” confessò Valery facendo una mezza linguaccia mentre univa le mani in un finto segno di preghiera.
“Sei davvero pessima!”
“Lo avresti fatto anche tu se stessi seguendo dall’inizio questa storia! Saranno quattro mesi che quel ragazzo viene qui sperando di parlare con la signorina Mouri, ma lei continua a evitarlo. È meglio di una telenovela!”
Constance scosse la testa, spegnendo il proprio computer.
“Ma come mai la signorina Mouri lo evita? È sempre così disponibile con tutti, riesce a sciogliere persino quelle mummie del consiglio di amministrazione. Eppure l’ho vista più volte rientrare in ufficio o andare a prendere una delle auto aziendali pur di evitarlo!”
Valery si guardò intorno circospetta, facendo cenno alla collega di avvicinarsi.
“Meglio se non ci facciamo sentire, ma ecco… quella volta della bomba finalmente la signorina Mouri ha ceduto e gli ha concesso un breve colloquio, credo per via anche dell’altro agente, quell’Akai-handsome che ha fatto da intermediario, e be’…”
“E? E? Non lasciarmi sulle spine!”
“Non ho sentito e capito molto, ma si sono messi a litigare. Lei sembrava davvero ferita e arrabbiata, lui ha fatto di tutto per spiegarsi. A una certa hanno iniziato a parlare in giapponese e io sono un po’ arrugginita, ma ecco…”
“Mi stai facendo morire di curiosità! Ecco cosa? Cosa si sono detti?”
A Valery brillarono gli occhi.
“Lui le ha detto Sono innamorato di te da quando avevamo quattro anni! Mi sono emozionata a sentirlo!”
“Oooh! Scherzi!?”
“No, per niente! Era convintissimo! Ma la signorina Mouri non ha più parlato dopo quell’uscita. È rimasta solo per dare le formalità sul caso.”
Constance sospirò, appoggiando il viso alla mano, guardando rimuginante la collega.
“Però… sei sicura di aver capito bene? Hai detto che quel ragazzo, Shinichi, avrà una ventina d’anni, mentre la signorina Mouri, be’, è sempre bellissima, ma ne ha fatti trentadue quest’anno… È impossibile che siano cresciuti insieme.”
“Vai a capire, i giapponesi non sembrano davvero invecchiare per anni, poi lo fanno tutto di botto… La madre della signora Suzuki va per i sessanta e ne dimostra ancora quaranta!”
Entrambe si concessero una breve risata.
“Hai ragione…” concordò Constance. “Fa solo strano pensare che quel ragazzo in realtà abbia la stessa età della signorina Mouri.”
“Comunque, non è questo il punto!” specificò Valery, facendo segno di no con l’indice. “Quello Shinichi viene qui ogni volta sperando di parlarle perché è innamorato perso! Non è romanticissimo?”
Qualcuno si schiarì la voce alle loro spalle, facendole sobbalzare.
“Signorine pettegole… di che state parlando invece di lavorare?”
Constance e Valery scattarono entrambe in piedi di fronte alla donna che le aveva colte in flagrante, il capo delle risorse umane.
“Abbiamo finito tutto per oggi! Le porte sono chiuse.”
Rachel White le fissò con un sopracciglio inarcato.
“Allora? Non sarà di nuovo la storia di Shinichi Kudou e Mouri-san?”
Valery arrossì appena, gesticolando.
“... stavo aggiornando Constance sugli ultimi avvenimenti.”
“Quali avvenimenti?” ribatté Rachel con un sospiro. “Questa storia va avanti da due anni.”
“Come due anni!?” starnazzarono in sincrono le due segretarie.
“Voi due non eravate ancora state assunte, ma Shinichi Kudou è sbucato dal nulla due anni fa, al compleanno di Mouri-san.”
“E? Cos’è successo?”
“Non tenerci sulle spine!”
“Nulla.” tagliò corto la donna. “Non so i dettagli, ma ho visto quello sbarbatello arrivare verso la fine della festa, quando Mouri-san stava litigando con il compagno.”
Entrambe le segretarie sembrarono cadere dall’albero.
“La signorina Mouri era fidanzata!?”
“Sì, anche se non si sarebbe detto.”
Constance aggrottò la fronte. “Perché? La signorina Mouri è sempre così gentile ed è anche una bella donna.”
“Ma ha il cuore spezzato” spiegò la maggiore paziente, incrociando le braccia.
“Cosa?”
“Voi guardate troppe serie tv e non le persone negli occhi, ecco perché ci siamo ritrovati quel dinamitardo nella hall…”
“Senpai, lei è qui da quando la signora Sonoko e la signorina Mouri sono arrivate, le conosce meglio di noi!” fece presente Valery, a metà tra un’adulazione e una giustificazione.
“Non chiamarmi senpai quando ti fa comodo, e ripassata il tuo giapponese o non vedrai mai una promozione. A ogni modo, sì, lavorativamente parlando le conosco dagli inizi, ma non c’entra. Basta osservare Mouri-san quando si rapporta con quelli che ci provano con lei.”
“In effetti, da quando lavoro qui l’ho sempre vista declinare qualsiasi invito a uscire… ha lo sguardo malinconico…” rifletté Constance con gli occhi rivolti al soffitto.
Per Valery fu come avere la conferma delle proprie supposizioni.
“Non sarà per via di quel ragazzo di dieci anni più giovane!?”
“Non confermerò mai nulla, neanche con un assegno in bianco da parte della società” mise in chiaro Rachel anche se con un mezzo sorriso divertito.
“Però…?” tentarono le altre due, con l’espressione di due bambine che speravano nel gelato.
La responsabile delle risorse umane si arrese, lasciando andare le spalle sconfitta.
“Siete proprio delle ficcanaso” constatò prima di continuare. “Due anni fa, dopo che quel ragazzino è apparso, Mouri-san ha cambiato atteggiamento e ha lasciato il compagno. Si parlava di fidanzamento ufficiale, ma solo Suzuki-san sa i dettagli. Da allora l’unica persona che riceve il suo affetto sincero sembra essere Momo-chan.”
Valery si poggiò una mano sul petto come se avesse appena ascoltato le sorti di un parente.
“Ma in due anni… non si sono più rivisti?”
Rachel alzò le braccia in un gesto di onesta ignoranza.
“Non conosco la loro vita privata, ma direi di no, da come Mouri-san declina ogni interazione.”
“La signora Suzuki ci ha ordinato tassativamente di non prendergli mai un appuntamento, ma anzi dirgli che l’agenda della signorina Mouri è sempre piena” rincarò Constance scoraggiata.
“Non sono affari nostri.”
“Ma anche stasera se ne è andato sconsolato…!” riferì Valery che ormai sembrava aver deciso per chi parteggiare.
“E ha portato questo vaso bellissimo con questo fiore particolare…”
Rachel squadrò il regalo in questione. Sorrise rassegnata.
“È un’orchidea.”
“E ha un significato romantico?” tentò speranzosa Valery.
Ricevette un’occhiata fulminante.
“Devo proprio indicare a Suzuki-san di organizzare un corso di aggiornamento di giapponese per i dipendenti.”
“Ah…!” Valery si illuminò. “Ho capito! Orchidea in giapponese si dice Ran!”
“Il nome della signorina Mouri!” comprese Constance.
La responsabile delle risorse umane recuperò la propria borsa e si avviò verso l’uscita con un ultimo monito.
“Lo sapete sì che se Suzuki-san vi sente parlare di questa storia vi farà una lavata di capo?”
“Ma come si fa a restare indifferenti? È tutto così romantico…!” sospirò Valery, accasciandosi sul bancone della reception.
“Prima o poi dovranno parlare…!” concordò Constance annuendo.
“Chiudete e andate a casa.”
Nelle aspettative di Shinichi, sconfiggere l’Organizzazione avrebbe significato sia la fine dell’incubo di dover dormire a occhi aperti, sia il poter tornare adulto.
Le cose erano andate a metà.
L’euforia per aver debellato gli uomini in nero scemò nel momento in cui Haibara non trovò i documenti essenziali per la creazione dell’antidoto. I dati erano stati distrutti, non si potevano recuperare.
“Se l’hai creato una volta, puoi farlo di nuovo! Tu sei un genio!”
Shinichi doveva essere fiducioso. Credeva nelle capacità di Haibara e aveva bisogno, era fondamentale, che anche lei ci credesse. Tuttavia, nonostante il segno di assenso, glielo lesse negli occhi che non sarebbe stato così. Ignorò il brivido lungo la schiena, pensando che non sarebbe potuta finire così.
Ci vollero un anno e due mesi affinché Shinichi iniziasse ad accettare che la condizione di Conan fosse irreversibile.
Un anno e due mesi in cui il suo rapporto con Haibara deteriorò, arrivando al precipizio, quasi a spezzarsi del tutto, come la sua vita dopo l’ultima somministrazione di antidoto sperimentale.
Dopo una settimana di coma, una montagna di bugie per tenere tutto nascosto sotto un tappeto che ormai aveva le dimensioni di una montagna e l’ennesimo fallimento, le speranze di Shinichi si infransero e la verità si piazzò come un monolite nel suo stomaco.
Sarebbe rimasto Conan. Per sempre.
“Mi dispiace, Kudou-kun. È tutta colpa mia.”
Per un attimo Shinichi lo pensò sul serio. Un attimo meschino, pieno di rabbia e di paura, ma ormai erano inutili anche quelle emozioni.
“Grazie di averci provato, Haibara.”
Doveva voltare pagina e andare avanti.
Confessare tutto a Ran fu, ancora una volta, molto lontano da come lo aveva immaginato.
Shinichi avrebbe voluto farlo guardandola negli occhi, alla stessa altezza. Dirle con un sorriso rassicurante e di scuse “Sono tornato, non me ne vado più”.
Fu terribile.
Dell’orgoglio di aver tolto di mezzo l’Organizzazione dopo un anno non era rimasto che qualche residuo e fu spazzato via come una foglia nel vento.
“Sono io. Sono sempre stato io…”
Shinichi lo vide nel viso di Ran, nel suo sforzo, nella verità che asciugava ogni colore dal suo viso, di come ingoiò il boccone amaro. Qualcosa si ruppe definitivamente. La comprensione giunse a fatica, l’accettazione rimase sospesa sopra di loro come un cappio in attesa.
Le ore iniziarono a diventare giorni, i giorni mesi, eppure l’orologio di Shinichi si era fermato. La leggerezza di due anni di menzogne, di Ran-neechan, fu soppiantata dal silenzio, da brevi sorrisi di circostanza, da sguardi che si evitavano, da dita sempre più lontane.
Prima di comprendere davvero cosa stesse succedendo, si allontanarono l’uno dall’altra.
Il la lo diede Shinichi coi silenzi sempre più rumorosi, ma fu Ran a tracciare la prima linea di confine, facendo ogni volta più tardi al club di karate, o a uscire più spesso per i gruppi di studi dell’università, a trovare un motivo o un altro per passare meno tempo a casa.
Shinichi non si sentì mai come prima incastrato nel corpo di Conan. Non riusciva a raggiungere Ran né fisicamente né a parole.
“Resto a dormire da Sonoko. Ci sono i soldi per ordinare la cena.”
“Uh- mh. Ok… salutamela.”
Assicurandosi che Kogoro non avesse bisogno di qualcosa - un altro rapporto che la verità aveva inacidito - Shinichi recuperava lo stretto necessario e tornava a casa propria, di nuovo vuota, passando la notte nella biblioteca, nell’unico ambiente che ancora non gli andava stretto e che riusciva a conservare un effetto lenitivo.
Altri due anni passarono così.
Shinichi capì di essere il grigiore delle giornate di Ran. Rimaneva nei paraggi lo stretto indispensabile per non farla preoccupare - era bastata una discussione dopo essere andato a Osaka senza dire niente a nessuno per farlo ripiombare nei sensi di colpa più cupi - ma, per il resto del tempo, era un prigioniero nella propria mente.
Si era reso conto di avere un problema nel gestire quando doveva comportarsi da Conan e quando da Shinichi.
Il mondo esterno non sapeva e avrebbe continuato a non sapere.
Con la caduta degli uomini in nero solo chi era rimasto strettamente coinvolto e pochi altri erano venuti a conoscenza della verità, ma per il resto, per i conoscenti e gli sconosciuti, Conan rimaneva solo un bambino che somigliava troppo a quel suo parente scomparso.
Tuttavia, era sufficiente che cadesse una penna in un momento di tensione perché quello stesso bambino sparisse e la finzione si infrangesse, lasciando emergere Shinichi con tutta la sua rabbia e il suo dolore per la propria condizione. Non importava che si trovasse in mezzo a persone che non avrebbero mai potuto comprendere perché un ragazzino si comportasse in quel modo.
Nessuno capiva.
Non c’era nessuno che riuscisse a tendergli davvero una mano e dirgli, sinceramente, andrà meglio.
Shinichi non aveva più un obiettivo.
Non aveva più la propria vita.
Non aveva più Ran.
Erano momenti di crisi che esplodevano come mine in un terreno apparentemente normale, non importava che fosse con Ayumi, Mitsuhiko e Genta, oppure con i suoi o con i detective della prima divisione.
Nessuno poteva capire quanto avesse perso.
Chi ci aveva provato davvero a tirarlo fuori dal pozzo di oscurità in cui quella corda chiamata vita continuava a farlo scendere, era stato Heiji. Più precisamente, furono Heiji e Kazuha.
Lo avevano fatto come avevano sempre portato avanti le loro decisioni, di impulso.
Il tempo di una chiamata “Ehilà, vi va stasera di portarci a mangiare in un qualche posto buono di Tokyo? Offriamo noi!” e quando, in silenzio, Ran e Shinichi erano scesi in strada, li avevano trovati parcheggiati davanti all’agenzia. Parcheggiati in un minivan stracolmo di scatole.
“Heiji mi ha convinta che a Tokyo avremo diverse opportunità!” era stata la spiegazione entusiasta, stranamente priva di ogni traccia di incertezza, di Kazuha davanti alla cena.
“Che hai in mente?” era stato il bisbiglio poco convinto di Shinichi all’indirizzo dell’amico.
“Ampliare i nostri orizzonti! Terrò il Kansai nel cuore, ma Tokyo ci chiamava.”
“Piantala e parla chiaro.”
“Sei il mio migliore amico, Kudou. Anche se dimostri dieci anni o sei alto tre barattoli io voglio esserci e continuare ad aiutarti.”
A Shinichi passò l’appetito, ma avrebbe mentito se non avesse ammesso che solo quella dichiarazione gli rese più facile dormire la notte.
Passò un altro anno e Shinichi ebbe l'illusione che andasse molto meglio.
Il lato più triste, ma doveroso, dopo tanto tempo, fu tornare a vivere nella propria casa.
Akai aveva dismesso i panni di Subaru ed era rientrato in America dalla caduta dell'Organizzazione; da allora villa Kudou era rimasta di nuovo disabitata se non per i brevi periodi in cui i suoi avevano cercato di convincerlo a tornare a vivere insieme. Shinichi si era ostinato a voler rimanere dai Mouri per una serie di motivi che non stavano in piedi li uni di fianco agli altri, ma con l'arrivo di Heiji e Kazuha la situazione cambiò.
Come di impulso avevano scelto di trasferirsi dall’altro lato del Giappone, così non si erano preoccupati di trovare un appartamento in cui stare.
"Tokyo è la città delle occasioni, no?"
Era innegabile che le uscite di Heiji riuscissero a strappare a tutti loro dei sospiri e un atteggiamento spensierato che da diverso tempo non si respirava più. Fu con quello spirito che Shinichi prese la decisione che avrebbe dovuto intraprendere da diverso tempo.
"Potete venire a stare da me. Dovrei proprio... tornare a casa mia."
Ran aveva assentito dopo un lungo momento di silenzio in cui non aveva guardato nessuno dei presenti, le dita strette in grembo. Shinichi sentì l’ennesimo frammento di realtà farlo sanguinare dentro.
Si era aggrappato alle apparenze fino a quel momento, con egoismo, sperando che qualcosa potesse cambiare anche quando ogni cosa sembrava solo peggiorare di giorno in giorno.
Il suo rapporto con Ran si era stabilizzato ad alcune abitudini che si potevano contare sulla dita di una mano, ma sapeva di essere un peso sulla sua coscienza. Anni - quelli veri - di un’infanzia lontana, l'essere cresciuti insieme, l'aver provato affetto sincero l'uno verso l'altro, erano il credito che stava mantenendo in piedi tutto tra di loro.
Ma come ogni cosa che prima o poi finisce, però, anche quei ricordi stavano iniziando a sporcarsi del veleno di accettare, giorno dopo giorno, che nulla sarebbe mai tornato come prima.
Per questo tornare a casa, e avere come coinquilini Heiji e Kazuha, fu il risvolto che fece prendere fiato a tutti e, in parte, voltare pagina.
In sostanza, fu l'allontanamento che, paradossalmente, li aiutò a riavvicinarsi.
Kazuha era il motivo per cui Ran li veniva a trovare, non così spesso come Shinichi aveva sperato, ma meglio di niente. Il suo timore di non rivederla si era un po' quietato, e, in generale, il clima si era intiepidito abbastanza da permettere a entrambi di tornare a essere quella coppia, almeno di amici, capace di ridere insieme delle scenette comiche che Heiji e Kazuha erano soliti tirare sul dal niente.
La più grande scoperta di Shinichi fu proprio la ragazza del suo migliore amico.
Fu inevitabile non scambiare qualche chiacchiera vivendo insieme. La loro interazione era cominciata con la curiosità di Kazuha per l'enorme villa dei Kudou, per arrivare pian piano ad argomenti più personali.
Kazuha aveva quasi rischiato la vita nel gran finale contro l'Organizzazione, seguendo Heiji senza sapere che si sarebbe ritrovata nella tana del lupo. Rivelarle di essere Shinichi era stato necessario nel rush per riuscire a proteggere tutti. Chiederle poi di mantenere il segreto con Ran, nella speranza di un antidoto, aveva incrinato un rapporto già di per sé sottile e non lo aveva messo in buona luce.
Ciò che aiutò molto Shinichi, e che per niente si aspettava, fu di sapere di non essere odiato da Kazuha, tutt’altro: lei continuava a tifare per il lieto fine, che tra lui e Ran le cose andassero per il meglio. Kazuha fu l'amica di cui Shinichi non sapeva di aver bisogno, ma che lo aiutò a rimanere in piedi quando il terreno iniziò a incrinarsi di nuovo sotto di lui.
Fu un anno pieno. Iniziò sul finire della primavera e, con l'arrivo di nuovo dell'estate, Shinichi riuscì a guardarsi alle spalle con un piccolo sorriso. Un'ombra del buon umore che aveva un tempo, ma meglio del vuoto costante privo di aspettative.
Con Heiji al fianco quasi ventiquattr'ore su ventiquattro, lo spazio per l'angoscia, per gli scatti di rabbia e impotenza si erano ridotti in modo drastico, riducendosi a sporadici episodi più simili al cercare quel momento di sostegno in una persona in cui si ha fiducia.
Insieme avevano deciso di fare da spalla a Kogoro - non senza resistenze da parte di quest'ultimo, ma ancora una volta Heiji era stato il paciere giusto - e mandare avanti l'attività dell'Agenzia Mouri, non senza fantasticare un po' di trovare un proprio studio e costruire qualcosa insieme. Kazuha si era persino sbilanciata ad aggiungere che avrebbe potuto aiutarli con i clienti, se necessario.
Se non fosse stato per loro due, Shinichi non sarebbe sopravvissuto all'ennesimo sgambetto del destino.
"Sonoko mi ha proposto di seguirla in America e aiutarla con la gestione di una delle società di famiglia a New York. Partiremo per la fine dell'estate."
Ran lo annunciò durante una cena senza grandi discorsi, senza preavvisi o indizi. Tutti, compresi Kogoro ed Eri, persino Kazuha che tra i presenti era probabilmente la più vicina a Ran dopo Sonoko, rimasero senza parole.
Shinichi ebbe una sorta di blackout per qualche minuto. Il suo cervello non riuscì a mettere insieme le parole e dare loro un significato. Non avvertì la mano di Heiji scuoterlo leggermente e richiamarlo, ma qualcosa dentro di lui scattò, si infranse quando udì le prime, incerte, felicitazioni per quella decisione.
"Non puoi andartene."
Il suo corpo dimostrava circa dodici anni. Era cresciuto, era sempre più simile a quello Shinichi sparito una sera a Tropical Land, ma rimaneva ancora più basso di Ran, più a margine di ogni situazione. Eppure, quando parlò, nonostante la sua voce avesse ancora un timbro da pre-adolescente, scosse e zittì chiunque.
"Non puoi andartene" ripeté, il battito del cuore in tumulto che si rifletteva nello sguardo, senza perdere di intensità.
Ran non aveva raccolta la sua occhiata, fissando il piatto e stringendo le posate. Aveva ventidue anni e le tracce dell’insicurezza stavano sparendo dai suoi lineamenti.
"Posso andarmene, Shinichi. Ho bisogno di andarmene."
Perdere il conto delle volte in cui i progressi si azzerano e si ricomincia dal punto di partenza doveva essere ormai un leitmotiv a cui essersi abituati, ma Shinichi fu certo che non ci sarebbero stati altri gradini da percorrere. Non ce la faceva più.
L'incubo più oscuro sarebbe dovuta essere l'Organizzazione, non la sua vita attuale. Non vestire ogni giorno una menzogna col mondo e una verità velenosa con chi sarebbe dovuta essere la propria quotidianità.
Shinichi non andò a salutare Ran all'aeroporto il giorno della partenza.
Non si alzò né lasciò la propria stanza se non per lo stretto necessario. Non esisteva più il buon viso a cattivo gioco. Le parole di incoraggiamento di Heiji non filtrarono, le premure di Kazuha non avevano lo stesso tepore di prima. Non riuscì a rispondere al discorso di vita che Kogoro gli fece attraverso la porta della camera e che lo fece piangere in silenzio, un braccio sugli occhi, svuotandolo dal dolore per ritrovarsi faccia a faccia con la lucida consapevolezza che Ran avesse scelto consapevolmente di andarsene.
Il periodo che seguì lo ricordo sfuocato. Il suo orologio si fermò di nuovo.
Furono i suoi genitori a farlo a rimetterlo un po' in piedi col semplice affetto incondizionato che una madre e un padre possono dare a un figlio che sente la vita distrutta.
Non si parlò più di Ran, ma solo di argomenti che interessassero Shinichi. Villa Kudou non fu mai così affollata come in quel periodo e ciò aiutò Shinichi a scandire le giornate.
Heiji e Kazuha avevano trovato un appartamentino per loro a metà strada con l'Agenzia di Mouri, che pure aveva dovuto farsene una ragione della partenza della figlia. Ran aveva lasciato un vuoto in più di una persona, per quanto la sua decisione si incastrasse perfettamente nella fase della crescita. Tuttavia, alla fine, il rientro definitivo in Giappone di Yukiko e Yuusaku non fu un balsamo solo Shinichi, ma anche per Kogoro ed Eri. Erano quasi sempre tutti a casa Kudou per un motivo (casi) o un altro (cene, pranzi e qualsiasi ricorrenza Yukiko trovasse necessario festeggiare).
La situazione più bislacca in cui Shinichi, quasi quattordicenne, si ritrovò coinvolto, fu la stesura di una serie di libri su "Nemori no Kogoro".
Come raccontò durante una cena, un editore aveva fatto la corte a Mouri per avere il racconto delle sue avventure da serializzare e, sorprendendo tutti, Yuusaku si propose come ghost writer.
Anche a distanza di anni, quel "piccolo segreto" su come Kogoro avesse fatto a diventare tanto famoso era uno dei particolari che non erano ancora venuti a galla e, anche in quell'occasione, Kogoro preferì lanciarsi in resoconti strampalati piuttosto che chiedersi come avesse risolto certi misteri. Che lo fece consapevolmente o meno, nessuno indagò in merito.
A detta di Yukiko, osservare Yuusaku, Kogoro e Shinichi tutti e tre nello studio a ricostruire e romanzare quelle avventure fu meglio di qualsiasi sceneggiato avesse mai girato. Con l'aiuto di Heiji e Kazuha, Furuya Rei quando poteva e, sporadicamente, di qualche detective o terzi coinvolti, la serie iniziò a prendere corpo e venire pubblicata.
Il successo andò oltre ogni possibile previsione, anche se Shinichi sentì quell'euforia come ogni altra cosa: ovattata, capace solo di sbattere contro, ma non incrinare, il muro che aveva eretto e dietro cui viveva per ricordarsi, ogni giorno, chi e quanto avesse perso.
Inevitabile fu sapere che, anche oltreoceano, a New York, Ran stava facendo parlare di sé.
Ne vennero a conoscenza durante un servizio tv sui giovani e influenti talenti giapponesi sparsi per il mondo. Sonoko e Ran figuravano nel panorama under trenta delle personalità di spicco nel loro ambiente.
Per la prima volta da molto tempo, il nome di Ran rimbalzò sulle pareti di casa senza che qualcuno cambiasse canale o dirottasse il discorso su altri lidi. Shinichi non aveva bisogno di vedere per sapere che sua madre avesse il dito pronto sul telecomando, ma le fu grato della decisione di lasciare proseguire l’intervista.
Ran era cresciuta. Shinichi constatò come fosse una giovane donna con solo qualche sfumatura della diciassettenne che si divideva tra casa e scuola, che si era presa cura di lui, che si spaventava alla prima storia con retroscena horror.
Senza rendersene conto, Shinichi ricominciò a dedicarle ogni momento in cui la sua mente non fosse impegnata in altro. Non erano pensieri costanti, ma iniziarono a sedimentarsi di nuovo in manciate di se e ma che si andarono a gonfiare di giorno in giorno.
Nell’autunno dei suoi rinnovati quindici anni nacque Kaoru, il figlio di Kazuha e Heiji.
Shinichi sperimentò cosa significasse avere qualcosa che ti risucchia le giornate trenta ore su ventiquattro nel momento in cui fu incastrato, da sua madre e dal suo migliore amico, a essere il miglior zio del mondo. Si rivelò come un periodo movimentato fatto di tanta veglia e poco sonno, ma fu anche il modo di lasciarsi scivolare dentro della serenità grazie alla genuinità e i sorrisi di cui solo un neonato era capace.
Di contro, Shinichi sapeva che sarebbe stato inevitabile, ma fu anche l’occasione in cui intravide di nuovo Ran. A quattro mesi dalla nascita, lei e Sonoko programmarono una vacanza di dieci giorni a casa, portando regali e tutti i successi ottenuti fino a quel momento.
Ran e Shinichi non si incrociarono mai faccia a faccia per tutta la durata della visita e nessuno insistette perché lo facessero. Ran era sola, ma a Shinichi bastò un’occhiata per dedurre che a New York qualcuno la stesse aspettando.
A volte si trovava a chiedersi se la sua vita precedente, quella da giovane detective liceale e poi da bambino troppo brillante per la propria età, fosse mai esistita. Se, davvero, non si fosse solo sognato di essere stato felice, un tempo, con quella persona che si chiamava Ran, che rideva e diceva cose dolci proprio come la bambina di cui si era innamorato a quattro anni.
La sera in cui Ran ripartì per l’America, Shinichi restò coinvolto in un incidente.
Aveva ancora l’istinto per il pericolo, qualcosa di innato che non lo avrebbe mai abbandonato, e salvò uno sconosciuto dal restare travolto da un pirata della strada. I passanti si affollarono intorno a lui, chiamando aiuto, dicendogli parole incoraggianti. Per una beffa, Shinichi, mezzo incosciente e con la consapevolezza del sangue che stava abbandonando il suo corpo, vide le luci di un aereo sopra la testa. Avrebbe potuto dedurre dalla direzione se potesse essere quello di Ran, ma fu abbastanza pensare che l’aveva lasciata andare di nuovo, che non le avesse detto neanche ciao.
Non cercò la forza di reagire.
Si lasciò soltanto andare, non vedendo per cosa avrebbe dovuto combattere.
“Sei rimasto in coma per quattro mesi.”
Come quando era tornata bambina, Ai dimostrava di avere molto più di quindici anni. Shinichi la squadrò con una lunga occhiata. Il cipiglio era rimasto, ma non c’erano più le ombre del passato sul suo viso.
“L’aria di Londra ti fa bene.”
A differenza di lui, Ai aveva ricominciato a vivere. Un’altra vita di nuovo, con quel pezzo di famiglia di cui per tanto tempo non aveva saputo l’esistenza. Anche se incastrata nella loro stessa situazione, impossibilitata a tornare adulta, Mary Sera aveva ripreso in mano le corde della propria esistenza e aveva fatto il possibile per riottenere una quotidianità il più vicino possibile alla normalità. In questo aveva preso con sé la figlia (che con l’età adulta era, legalmente, diventata loro tutrice) e la nipote, distrutta dai sensi di colpa per aver rovinato tante vite.
“Che ci fai qui?”
“Mi hanno chiamata pensando che non ti risvegliassi per qualche effetto collaterale dell’apotoxina, ma quella non c’entra. Volevi morire, Kudou-kun?”
“Dicono che è un altro tipo di viaggio.”
Non era stata la risposta che Ai si aspettava e Shinichi glielo lesse dal modo in cui il colore abbandonò il suo viso. Non era neanche una risposta da lui. Il sapore del cinismo sulla lingua era acre e pungente, non lo pensava davvero, anche se la tentazione c’era stata.
“Perché non vai da lei? Tu non scappi dalle situazioni.”
“Quale situazione, Haibara? La realtà in cui sono alla mia seconda pubertà e la ragazza che amo è una donna con dieci anni più di me a cui ho spezzato il cuore? Avrei dovuto chiederle di aspettarmi?”
“Non pensi che lo stia facendo?”
“Vuoi che ti dica da cosa ho dedotto che ha un ragazzo in America?”
“...”
“Ho salvato quella persona in mezzo alla strada per istinto. Qualunque fossero i principi in cui credevo una volta sono ancora nella mia testa. Non ho tentato di suicidarmi. Sono solo… stanco.”
“Vado ad avvisare che ti sei svegliato. Tuo nipote si è fatto grandicello.”
“Almeno lui.”
“... mi dispiace, Kudou-kun.”
“Anche a me. Non ce l’ho con te.”
“Forse sarebbe più facile se avessi qualcuno da odiare, tipo me.”
“Sarebbe stato facile anche rimanere in mezzo a quella strada e farmi investire. Ci sono tante vie facili da intraprendere.”
Nessuno aveva detto a Ran cosa gli fosse successo. Shinichi lo scoprì qualche ora più tardi, dopo le lacrime e i festeggiamenti per il suo risveglio.
Fu Kogoro stesso a dirglielo, senza guardarlo in faccia, ma stringendo la stoffa dei pantaloni all'altezza delle ginocchia con impotenza.
"Non avete bisogno di soffrire più di così."
Il primo pensiero di Shinichi fu egoistico, e lo accantonò con la giustificazione che era un padre che pensava solo al bene della figlia. Tuttavia, sapeva che si stava raccontando una bugia: negli anni Kogoro era diventata una figura importante della sua vita, un secondo padre dai modi rudi e opinabili, ma di cui non poteva più fare a meno.
Sua madre era stata il bastion contrario, in totale disaccordo con quella decisione di tacere a Ran l’accaduto, almeno dal racconto di Heiji. Non risparmiò i dettagli sull’accesa discussione che in quei quattro mesi aveva portato le persone intorno a lui a litigare. Shinichi lo ascoltò senza dire una parola, mentre giocherellava distrattamente sul letto d'ospedale con Kaoru, ancora troppo piccolo per capire, ma allo stesso tempo tanto felice di riavere il suo zio preferito.
Shinichi non volle esprorre la propria opinione. Era davvero importante che decisione avessero preso? Se Ran avesse tenuto ancora a lui, le avrebbe dato solo un altro dispiacere per colpa della sua incoscienza. Se invece non le importava più di niente... Kogoro aveva fatto bene.
Quattro mesi fermo lo avevano debilitato abbastanza da giustificare sua madre dal coccolarlo come se, di nuovo, fosse tornato a essere un bambino.
Era sulla soglia dei sedici anni, l'età in cui si era cacciato nei guai, e si sentiva completamente fuori sincrono rispetto a chi lo circondava. Chi ancora non aveva realizzato che Conan fosse sempre stato Shinichi lo fece in quel periodo.
Non c'erano più uomini in nero da cui nascondersi o fuggire, per questo Shinichi smise di fingere col mondo e quell'anno Conan Edogawa morì definitivamente.
Non fu un’enorme perdita. Non aveva molti amici, non come quando il popolare detective liceale era stato, a tutti gli effetti, un adolescente pieno di prospettive e fascino per gli lo circondava.
Genta, Mitsuhiko e Ayumi ormai sapevano la verità da qualche anno ed erano rimaste le persone più genuine e autentiche che Shinichi avesse mai conosciuto, conservando un tratto di ingenuità anche ora che si affacciavano al mondo vero. Erano ancora amici rumorosi e pieni di iniziativa, ma avevano imparato quando fosse lecito e quando no. Se Shinichi, dopo Ran, si fosse dovuto sentire in colpa per qualcuno, sarebbe stato nei loro confronti. Eppure, continuava a essere considerato importante, un tassello indispensabile della loro vita.
Tuttavia, fatta eccezione per il trio dei Giovani Detective, Shinichi non aveva avuto la pazienza di sopportare altri mocciosi nel suo rinnovato percorso verso l'età adulta.
Erano per lo più persone che aveva conosciuto o aiutato in passato che finalmente connettevano i puntini, ma davvero in pochi venivano a chiedergli come fosse possibile. Erano più sguardi che parlavano e si sentivano stupidi. A Shinichi andava bene così.
Qualche tempo dopo, fu di nuovo una notizia in tv che disse a Shinichi qualcosa su Ran.
Sonoko sollevò un sacco di gossip sposandosi con Kyougoku Makoto in una cerimonia molto veloce e molto intima, ma la vera notizia fu l'annuncio della coppia sull'arrivo del primo figlio entro i successivi cinque mesi.
Nelle foto dei paparazzi compariva ovviamente anche Ran, in abito da cerimonia come testimone e prima damigella, in compagnia di quello che i giornalisti etichettarono come "fidanzato storico".
Shinichi fu grato che il telefono fosse squillato in quel momento e Heiji gli avesse chiesto di raggiungerlo per un caso di omicidio, anche se non servì a liberarlo dall'eco di quel fidanzato storico.
Sarebbe dovuto essere lui, quel fidanzato storico.
Lui avrebbe reso il viso di Ran raggiante e non con quel sorriso abbozzato nelle foto che era l'ombra dei suoi più bei sorrisi.
Fu un pensiero dettato dalla frustrazione, dalla rabbia, da sentimenti che per troppo tempo Shinichi aveva soffocato e represso, non trovando giusto provarli. Quei dieci minuti di servizio, con annessi pettegolezzi, avevano sparato dritto alla valvola con cui il neo sedicenne regolava le proprie emozioni da dieci anni. Come la ferita che erano, i suoi sentimenti ricominciarono a pulsare, senza più togliergli di testa quell'immagine di Ran che non sorrideva davvero.
Iniziò l'insonnia pesante. Shinichi tentò di arginarla ricominciando a leggere ogni singolo giallo presente nella biblioteca di casa o andando a correre di notte, arrivando a svenire a letto e rialzarsi a orari improbabili. Non aveva un obiettivo nella vita da diverso tempo, ma, ogni volta che si fermava, quella Ran che non era Ran balenava davanti ai suoi occhi e sperimentava un livore mai provato prima che lo spingeva a buttarsi a capofitto in qualsiasi attività.
In modo paradossale, la sua mente si svegliò dal torpore.
Aveva continuato a ragionare al cinquanta percento delle proprie facoltà, non trovando indispensabile applicarsi in nulla, ma il suo cervello cominciò a pensare a qualcosa. Qualcosa di informe, che a volte erano flash, più simili a illazioni, desideri recalcitranti, ma che per il resto erano possibilità. Ipotesi su come raggiungerla. Piani su come tornare alla vita che il destino gli doveva.
Ai suoi non passò inosservato quel cambiamento, ma il primo che gli diede voce fu Heiji, dopo che Shinichi risolse un caso così velocemente da avere il viso deformato da un entusiasmo feroce, grottesco.
"Kudou, che ti è preso!?"
Il suo migliore amico avrebbe potuto capire?
"Non pensi che quando una persona non è in grado di farti sorridere davvero ci sia qualcosa di sbagliato?"
"Che diavolo stai dicendo?!"
"... nulla, mi sono lasciato prendere dal caso. È stato facile intuire la verità."
Ran. Ran. Ran.
Era diventato un pensiero frenetico e costante come non lo era da anni, tanto da spingerlo a valicare quelle regole che Shinichi si era autoimposto, come il non cercarla online. Eppure, più trovava foto e video dove compariva anche quel "fidanzato storico", più si rafforzava in lui la convinzione che quell'uomo non fosse in grado di renderla felice.
Una di quelle notti passate in bianco a vagare su internet, dissociandosi completamente da tutto, culminò con Shinichi, alle quattro di mattina, pronto per uscire. Aveva un borsone in spalla, un cappello da baseball regalatogli da Heiji calato sugli occhi e sullo schermo del cellulare la ricevuta di un biglietto aereo per New York.
Aveva organizzato tutto di fretta, ma con metodo, con una mente sfiancata dalla deprivazione di sonno, pompata però da quel rinnovato bisogno di essere lucida e scattante come un tempo.
Una volta atterrato e riacceso il cellulare, contò cinquantasette chiamate e quasi il doppio dei messaggi da parte dei suoi, di Heiji e Kazuha, di Kogoro, persino di Haibara e Masumi. Ne trovò uno molto semplice anche di Akai - segno del fatto che suo padre avesse già intuito, se non i suoi propositi, la sua destinazione.
Se hai bisogno chiamami. In qualsiasi momento.
Non intendeva far preoccupare nessuno, per quanto fosse conscio che le sue intenzioni gridassero tutto il contrario.
“Sto bene. Ho bisogno di fare una cosa che ho rimandato da troppo tempo. Mi sono finalmente deciso. Non preoccupatevi, sapete che so cavarmela. Ci sentiamo più tardi” spiegò in un vocale mentre usciva dall’aeroporto e il sole di New York lo accecava. Aveva dormito per quasi tutto il viaggio e si sentiva rinvigorito, col triplo delle energie che non sentiva da anni.
Energie che avrebbe usato per rivedere Ran.
Trovare un posto per dormire dove lasciare la roba e poi Individuare il palazzo della società Suzuki fu facile. Shinichi rimase all’esterno, in un piccolo parco adiacente da cui poteva tenere d’occhio chi entrava e chi usciva.
Presentarsi di punto in bianco e chiedere di vedere Mouri Ran avrebbe solo reso le cose più tese e imbarazzanti. Dimostrava pur sempre sedici anni, un’età che gli avrebbe creato più problemi che facilitazioni nel mostrarsi in pubblico. Conan sarebbe stato in grado di svicolare, provocare sufficiente tenerezza e nessuna minaccia apparente nei dipendenti dell’azienda; raggiungere l’ufficio di Ran sarebbe stato un gioco. Ma Conan non esisteva più e Shinichi aveva bisogno di guardare la sua amica di infanzia faccia a faccia. Alla stessa altezza.
Per questo aspettò, facendosi un giro nei dintorni per non destare sospetti, ma senza mai allontanarsi. Silenziò ogni notifica e ignorò le chiamate, finendo invece con lo scorrere di nuovo quegli account dove c’erano le foto più recenti di Ran, in attesa che il sole calasse e gli uffici si svuotassero.
Verso il tardo pomeriggio, la sua attenzione fu attirata dall’arrivo di una Mercedes-Benz di lusso. Prima ancora di vederne il proprietario, il suo fiuto aveva già intuito e il suo sguardo si era indurito. L’uomo che nelle interviste era stato etichettato come fidanzato storico di Ran scese dalla vettura ed entrò nel palazzo. L’attenzione di Shinichi si fece massima, ignorando qualsiasi altra distrazione al cellulare, il cappellino calato sul viso e la nonchalance di un pedinatore esperto lo avevano portato il più vicino possibile all’ingresso, ma sempre senza idea l’idea di allarmare qualcuno.
Come non succedeva da molto tempo, Shinichi avvertì il cuore battergli furiosamente nel petto. Era così vicino a Ran come non lo era stato negli ultimi anni. La sensazione di averla accanto era un ricordo indelebile che gli fece stringere le dita a pugno. Gli mancava Ran. Gli mancava tanto da farlo stare male, quasi da spingerlo a entrare dentro all’edificio e cercarla fino a che non l’avesse avuta davanti.
Non dovette attendere a lungo.
Prima ancora di vederla, sentì la risata di Ran. Il cuore gli si fermò nel petto e lo avvertì stringersi quando il tempo riprese a scorrere davanti ai suoi occhi.
Ran uscì dall’edificio a braccetto con il compagno, ridendo con freschezza, il viso raggiante nonostante la lunga giornata di lavoro. Ogni secondo di quel momento si conficcò dentro Shinichi come le schegge di un’esplosione.
Avrebbe voluto muoversi. Fare un passo, alzare il viso e farle vedere che era lì. Che dopo tanto tempo, era andato da lei. Era lì a due passi. A breve sarebbe stato superato e Ran non si sarebbe accorta di niente. Non si sarebbe accorta di lui.
Tuttavia, era inchiodato sul posto. Tremava, ma non abbastanza da essere notato. La sua determinazione era scivolata da qualche parte, insieme a tutte le idee, i pensieri, le illazioni che si era fatto su quell’incontro. Come le cose si sarebbero aggiustate, come tutto avrebbe ritrovato il proprio posto. Shinichi non credeva nel destino, in niente di mistico, ma non poteva credere che lui e Ran fossero finiti così. Finiti.
Ran gli passò accanto, conversando con quell’uomo di cui Shinichi non aveva mai colto il nome. Gli passò a così pochi centimetri che sarebbe bastato un respiro a farli incontrare. Ma non accadde.
Shinichi la sentì salire in macchina e andare via, mentre la realtà calava di nuovo il suo manto privo di illusioni sulla sua testa.
Le luci di New York erano tra le più sfavillanti e affascinanti al mondo, Shinichi non lo aveva dimenticato. Furono l’unico chiarore che la sua mente riuscì a percepire mentre vagava per la città. Aveva perso la cognizione del tempo, dello spazio in cui stava camminando. Si muoveva per inerzia, riascoltando a ogni passo quella risata di Ran, balsamo e veleno nelle orecchie allo stesso tempo.
Controllò un paio di volte il cellulare, ma la batteria era quasi scarica. Era stato sul punto di chiamare i suoi, o Heiji, ma il dito era scivolato sul display senza selezionare nulla.
Si era illuso e aveva fatto una cazzata. Se ripensava a come era arrivato lì, a quali pensieri lo avevano attraversato, si sentiva un idiota. Volare dall’altra parte del mondo con la speranza di sanare con un incontro dieci anni di bugie, dolore, una fiducia distrutta e tutto per gelosia.
Ora era lucido, per quanto non sentisse il terreno sotto i piedi.
Ran aveva un altro. Ran aveva trovato qualcuno con cui essere felice e continuava a realizzarsi con le proprie forze. Se si fosse palesato davanti a lei l’avrebbe solo fatta soffrire, ricordandole promesse infrante, menzogne durate anni e che non avevano portato a nulla. Era volato a New York di impulso e solo in quel momento si rese conto di quanto il suo comportamento avesse rasentato l’ossessione. Se avesse dato retta agli impulsi che lo avevano mosso avrebbe solo finito con l’aggravare la situazione.
Per quanto la realizzazione fosse stata dolorosa, l’aveva salvato dal distruggere anche gli ultimi pezzi rimasti sul fondo.
Tuttavia, Shinichi non aveva ricordi chiari di quella notte, se non tramite quello che i testimoni raccontarono il giorno dopo.
Come la volta dell’incidente col pirata della strada, tutto successe prima che se ne rendesse conto.
Un minimarket. Un rapinatore. Cinque ostaggi. Una donna a terra. Una bambina che piangeva. L’istinto di Shinichi agì contro ogni buon senso.
“Ehi, ragazzino.”
“... Akai-san?”
Shinichi si svegliò in una stanza di ospedale. L’ambiente era tranquillo, con dei vaghi rumori di sottofondo da oltre la porta. Si sentiva il corpo intorpidito e con un dolore ovattato.
“La tua idea di vacanza è farti sparare due volte?”
Gli occhi di Shinichi si spalancarono. Flash confusi si affollarono nella sua mente. Grida e parole accorate, il dolore dei colpi.
“È stato un uomo caucasico, di venti, massimo venticinque anni, era casta-”
“Lo abbiamo preso.”
Shinichi si rilassò, chiudendo gli occhi.
“Yuusaku-san e Yukiko-san saranno qui tra qualche ora.”
Shinichi non protestò. Era giusto così. Anche che i suoi si arrabbiassero. Aveva ventisei anni, nonostante ne dimostrasse solo sedici, e aveva fatto una cazzata dietro l’altra.
“Sei venuto per Ran?”
Bruciava. Bruciava più dei colpi di pisola.
“Mi sono illuso di poter aggiustare qualcosa. Ma sono ancora un ragazzino pieno di fantasie.”
Shuichi incrociò le braccia, osservando l’autocommiserazione sul suo viso.
“Cosa stai facendo in Giappone? È molto che non ci sentiamo. Avevo saputo da Masumi che eri rimasto coinvolto in un incidente.”
Il sospiro di Shinichi fu rassegnato.
“Fingo di essere un adolescente con problemi. Mi riesce molto bene. Per il resto… aiuto Hattori e Mouri con l’Agenzia investigativa. Non è cambiato nulla.”
Akai accennò un sorrisetto.
“Vieni all’FBI.”
Shinichi ci mise qualche secondo di troppo a processare quella proposta, complice anche la morfina. Lo guardò a occhi sgranati.
“È ora che tu ti rimetta in piedi, ragazzino. Se non fosse stato per te, l’Organizzazione sarebbe ancora a piede libero, altri agenti sottocopertura sarebbero morti, oltre a tutti i civili coinvolti. È tempo che tu riscuota il credito che il mondo ti deve.”
“Perché…” Shinichi fece difficoltà a formulare, sbattendo contro il muro che aveva dentro e filtrava tutto, ricordandogli i propri limiti. “Forse tra qualche anno… quando almeno avrò l’aspetto di un adulto.”
“Sembrare adulto pensi che cambierà qualcosa? Hai fatto la differenza quando dimostravi sei anni.”
Non c’era qualcosa di logico con cui ribattere. Per un momento Shinichi si chiese cosa avrebbe fatto Conan e la risposta fu così limpida che parve uno schiaffo. Conan si sarebbe buttato nella situazione e avrebbe giocato ogni carta a propria disposizione.
Tuttavia, Conan aveva un obiettivo. Il suo… il suo era solo un ricordo.
“Quando ti sarai rimesso in sesto troverai la risposta che cerchi.”
Fu il cambiamento più grande che Shinichi intraprese nella propria vita. Non lo fece a cuor leggero e dovette districare i sentimenti che lo perseguitavano la notte, bisbigliandogli dubbi e incertezze così estranei al suo essere.
Se da un lato sapeva che a parlare erano le radici di quel malessere che aveva coltivato per anni, dall’altro era anche conscio che stava lasciando le persone che lo avevano aiutato a sopravvivere, che avevano fatto di tutto per fargli passare una seconda adolescenza quanto il più normale possibile.
Tuttavia, nessuno accolse quella notizia con dispiacere. I suoi furono i più entusiasti e quelli che lo aiutarono a organizzare ogni cosa. Secondo suo padre, lo scoppio di gioia di Yukiko era stato più intenso persino di quando lui le aveva chiesto di sposarlo. Vederlo decidere qualcosa per sé, con la voglia di fare, di ricominciare, era ciò che la madre stava aspettando da quando era tornata a vivere in Giappone.
“Se Shinichi diventa un agente dell’FBI, io tornerò a recitare!”
E Yukiko mantenne la parola.
Chi si commosse per quella partenza, lasciando Shinichi senza parole, furono Kogoro e Heiji.
“Non cacciarti nei guai, ragazzino. Non farti ammazzare. Mi offrirai il viaggio e da bere alla tua prima promozione.”
“Kudou giuro - giuro! - che diventerò così famoso che non avrai bisogno di chiamarmi per sapere come sto!”
Nel salire sull’aereo, Shinichi realizzò quanto quelle persone gli fossero state accanto nel momento più buio della sua vita. Quanto stessero credendo in lui ancora in quel momento. Voltò pagina, ma lo fece sapendo che, per quanto la strada fosse ancora in salita, era il momento di affrontare l’incubo che si era costruito in quegli anni. E che avrebbe sempre avuto qualcuno alle spalle pronto a fare luce intorno a lui.
Se c’era una cosa che Shinichi aveva imparato era l’imprevedibilità della vita.
Un pomeriggio sei a un parco di divertimenti con la persona più importante per te e nel giro di qualche ora ti ritrovi ad avere sei anni; poi di anni ne passano dieci e cerchi di riprendere in mano quella vita che ti è stata rovinata e, nel giro di una settimana, ti senti vivo come mai prima.
L’FBI accolse Shinichi come si poteva accogliere un ragazzino prodigio, con scetticismo e scarse aspettative. Il giovane ex detective liceale dimostrò di non avere problemi ad ambientarsi, a rimettere in riga i colleghi più anziani con le proprie conoscenze e strategie, a far parlare di sé nonostante James Black e Akai stesso cercassero di fargli tenere un profilo basso. Ma era stata un’impresa impossibile con Conan e con Shinichi sarebbe stato lo stesso. Per quanto fosse stato inventato apposta per lui un programma “giovani reclute” con un quantitativo di escamotage e raggiri di regole per inserirlo nell’organico della squadra da subito, l’entusiasmo di Shinichi, la sua scaltrezza e quella dose di incoscienza che lo aveva cacciato nei guai più volte furono l’ariete con cui si fece strada senza chiedere permesso a nessuno.
Akai non aveva davvero previsto di tenerlo al guinzaglio, ma finì col farsi coinvolgere e assorbire totalmente da Shinichi, senza rimpianti.
Altri due anni passarono in quel modo, tra casi, trasferte, giornalisti da tenere a freno, corse in ospedale più o meno gravi e l’ultima persona al mondo che Shinichi avrebbe mai creduto di avere come collega, Kuroba Kaitou.
In tutta quella girandola di eventi, il pensiero verso Ran non si spense mai, ma l’ex detective liceale iniziò a viverlo con meno rimorso.
Non voleva davvero sperare, per quanto non si facesse illusioni, tuttavia, ora aveva più l’idea chiara che un giorno si sarebbero rivisti e le cose sarebbero andate meglio, in qualche maniera.
Ciò che Shinichi non progettava era rivederla prima di sentirsi pronto, in un momento del tutto casuale, in una serata come un’altra di fine estate.
“... e non vi siete detti niente?”
Shinichi sbuffò, scuotendo la testa. Cercò di concentrarsi per riprendere il segno della riga che stava leggendo, ma Kaitou non era intenzionato a demordere, e lo punzecchiò con un dito nel fianco, dove sapeva fosse più sensibile.
“No, non ci siamo detti niente. Stava litigando con il suo ragazzo ed era sconvolta.”
“Tu l’hai sconvolta. Cioè, sono dieci anni che non vi vedete? Dodici!”
“Ran è partita per l’America otto anni fa. Non ci vediamo da allora.”
“Una vita!”
Shinichi su quello doveva dare ragione a Kaitou.
Era notte fonda e si erano ritrovati assegnati allo stesso appostamento. Non per caso. Akai aveva questa vena sadica verso i due suoi protegé migliori e non esistevano limiti. Come ritrovarsi in un edificio abbandonato, illuminati solo dai lampioni esterni, e a condividere un vecchio materasso matrimoniale, aspettando che i sospetti si palesassero.
Kaitou stava giocherellando con delle carte, ma la sua attenzione era tutta per Shinichi.
“Perché non ti sei fatto avanti? Se stava litigando con il tipo era il momento perfetto per entrare in scena e riconquistarla!”
“Erano affari loro… e non era programmato che ci incontrassimo. È stato tutto… improvviso.”
Shinichi chiuse di botto il libro con un sospiro. Era stanco e quel discorso gli stava dando noia, pizzicandolo su quelle corde con cui si era rimesso insieme negli ultimi due anni stando in America. Stava meglio, si sentiva meglio. Tuttavia, il tassello di Ran era ancora da reincastrare nella sua vita e non sentiva fosse il momento.
Kaitou non lo stava facilitando, non lo facilitava mai in nulla.
Un anno prima Shinichi era rimasto coinvolto nell’ultimo grande spettacolo del Ladro Fantasma, quello in cui il suo vero scopo era venuto a galla, con tutte le implicazioni e i segreti taciuti. Kaitou aveva rubato per la prima volta un gioiello che non aveva restituito, sparendo nel nulla e lasciando sconvolti tutti, primo fra tutti l’ispettore Nakamori. Shinichi aveva avuto bisogno di andare in fondo a quella storia e, col senno di poi, se non lo avesse fatto, se non avesse insistito, probabilmente Kaitou sarebbe stato spacciato.
Non era stato un periodo facile. Akai aveva lasciato che Shinichi tornasse in Giappone per indagare, aiutato da Heiji e da un Saguru che aveva vuotato il sacco sull’identità di Kaitou quando questi era sparito senza lasciare traccia. Il risultato era stato smascherare un’Organizzazione che aveva dato i flashback di guerra a Shinichi, ritrovare Kaitou in fin di vita per le torture subite, e poi, inaspettato, c’era stato l’arrivo di Akai con una proposta improssibile da rifiutare:
“Entra nell’FBI e archivia tutta la tua vita precedente, Kuroba Kaitou. Le tue abilità saranno molto utili.”
Furuya Rei aveva storto il naso per tutto, apostrofando Akai con parole irripetibili per continuare a venire in Giappone e fare i comodi suoi. E rubare possibili leve alla polizia giapponese.
In breve, da diversi mesi, Shinichi si era ritrovato Kuroba Kaitou e il suo sorrisetto da schiaffi - e la loro somiglianza impressionante, nonostante i dieci anni di differenza fisica - come collega di tutti i giorni. Era una scoperta continua, ma la metà del tempo Shinichi gli avrebbe messo le mani al collo per tutti gli scherzi e i discorsi insistenti di cui era capace. Per avere quasi trent’anni, Kaitou sembrava un diciassettenne mai cresciuto, o un Peter Pan, come alcuni colleghi avevano iniziato ad appellarlo.
Anche durante quell’appostamento, l’ex Ladro Fantasma stava dimostrando tutto il suo lato adolescenziale per far passare il tempo, a suo dire.
“Ran-chan non aspetta altro che tu la vada a prendere, meitantei.”
“Uno, non chiamarla con tanta confidenza.”
“La tua principessa sta aspettando che il suo cavaliere oscuro la vada a salvare.”
Shinichi lo guardò malissimo, ma non perse il filo del discorso.
“Due, non ho detto che non andrò da lei, ma… è libera di rifiutarmi.”
“Non sarebbe divertente venire ad arrestarti per molestie. O forse sì. Ma insomma, non posso credere che non finisca bene tra voi due.”
Non avrebbe voluto ammetterlo, ma Shinichi apprezzava quel pensiero.
“Ehi! Ora che ci penso, ma Ran è sempre stata l’unica?”
“Sì… perché?”
Shinichi se ne pentì un istante dopo.
“Ommioddio… tu sei vergine vero? Vi siete mai baciati?”
Il libro in mano all’ex detective liceale finì in faccia a Kaitou, ma dopo un iniziale ouch seguì solo una risatina divertita.
“Ti stai conservando per Ran?”
“Non mi sto conservando!”
“Se ti serve un’occasione con qualcuna mi offro di portarti da qualche parte! Insomma, hai passato due - due! - pubertà! Deve essere stato tremendo!”
Shinichi si passò le mani sulla faccia, stropicciandosi gli occhi. Sarebbe stata una notte lunghissima.
“Non mi interessa.”
“Fare qualche esperienza?”
Per rispondere, Shinichi si voltò a guardare dritto in faccia Kaitou, la fronte contratta in un cipiglio che ne aveva abbastanza, ma il risultato che si vedeva dall’esterno era per lo più di qualcuno intento a sgridare un gatto.
“Non mi interessa cercare qualche ragazza per baciarla o… o altro, per sapere com’è.”
“E invece dei ragazzi?”
Solo Kaitou sapeva rivoltare la frittata in quel modo e cogliere il collega alla sprovvista, facendolo arrossire. “Sei serio?”
“Vuoi provare?”
“... No!”
Kaitou sporse in fuori il labbro inferiore in modo teatrale, e per quanto Shinichi sapesse che era una farsa, non era sicuro di non averlo offeso.
“Non prenderla sul personale, ma non voglio, non-”
L’altro scoppiò definitivamente a ridere, facendo cigolare le molle del materasso su cui stavano.
“Calmo, meitantei, l’ho capito. Solo Ran. Ti stavo stuzzicando, anzi, potrei tentarti travedendomi da lei, ma non sono così stronzo. Lo so da sempre quanto tieni a lei.”
Ancora un po’ imbarazzato, Shinichi recuperò il libro, incerto su cosa rispondere, nonostante la conversazione fosse finita.
Più tardi, quando Shinichi fu il primo a crollare addormentato come un bimbo, Kaitou non poté fare a meno di fissarlo di tanto in tanto, mentre teneva d’occhio la situazione all’esterno dello stabile. Era in momenti di quiete come quelli, davvero rari, che l’ex Ladro Fantasma si ritrovava a fare un po’ di conti con se stesso e con i cambiamenti nella propria vita. E quella stessa vita la doveva a quel coetaneo che dimostrava dieci anni meno di lui.
“Aaah, meitantei” sospirò, certo che stesse dormendo. “Sarebbe così facile rubarti questo primo bacio. È una tentazione immensa… se solo non fossi diventato un amico importante e non facessi il tifo per te e la tua bella…”
Nessuno lo seppe di come quella notte Kaitou si fosse chinato sul viso di Shinichi, ghignando.
“Mi fai venire voglia di ricadere in qualche vecchia abitudine… ma, davvero, spero che tu abbia il lieto fine che meriti, meitantei.”
Passò un altro anno prima che Shinichi, dal giorno alla notte, nel suo aspetto da diciannovenne, decidesse che fosse tempo per parlare con Ran. Non aveva mai pensato che sarebbe stato facile, ma neanche quasi impossibile.
Sonoko si era eletta mastino da guardia e ce l’aveva a morte con lui, era chiaro. Stava usando tutto quello che era in suo potere come giovane CEO di una compagnia multinazionale per ostacolarlo dall’incontrare Ran, dal segnalarlo al personale di sicurezza al far promettere alle segretarie di non prendergli mai un appunto.
Ma Shinichi aveva aspettato più di dieci anni, aveva mancato troppe occasioni per arrendersi al primo sgambetto, e in qualche maniera il destino oscuro che lo accompagnava da sempre, facendo trovare al momento giusto nel posto giusto, lo aiutò anche quella volta.
Bastò un ex impiegato con profondi risentimenti verso la compagnia Suzuki, una bomba infilata in un pacchetto del tutto innocente e un innato sesto senso per fiutare i pericolo a spianare la strada a Shinichi e dargli l’opportunità di parlare con Ran.
Opportunità che non gli fece fare molti passi in avanti - visto che finirono con l’alzare i toni, ma Shinichi sapeva che sarebbe stato inevitabile. Se lo meritava. Sentiva di meritare lo sfogo di tutti quegli anni in cui aveva voltato le spalle a Ran e non aveva fatto nulla per venirle incontro. I sensi di colpa erano stati con lui giorno dopo giorno, facendolo desistere da ogni intento, da ogni approccio, annichilendolo fino a fargli spegnere il barlume della ragione e lasciarlo da solo sul fondo.
Gli ultimi tre anni in America erano stati la prima boccata d’ossigeno dopo tanto tempo. Cambiare completamente vita gli aveva permesso di fare tesoro di tutto il sostegno ricevuto fino a quel momento da chi gli era stato accanto e rendere giustizia ai loro sforzi. Se Shinichi riusciva ad arrivare al desk d’accoglienza della società di Sonoko con il sorriso sulle labbra, le mani in tasca e la speranza che quel giorno qualcosa sarebbe cambiato e andato per il meglio lo doveva a chi non si era arreso con lui e le aveva provate tutte. Lo doveva a se stesso per essersi svegliato. Aveva bisogno di quell’ultima occasione con Ran e provare a riparare ai suoi sbagli, alle bugie e ai silenzi.
“Quindi il ristorante italiano all’angolo è buono?”
Valery saltò sul posto, rischiando di rovesciarsi il caffè addosso.
“Mr.- Kudou-kun!” sospirò la segretaria, portandosi una mano al petto di fronte al sorrisetto divertito del più - in apparenza - giovane. “Non mi arrivi alle spalle in questa maniera, per favore!”
“Oh, sta facendo pratica con il giapponese? White-san ha deciso per i corsi di aggiornamento?”
“Come-” tentò Valery incerta, per poi sorridere e scuotere la testa. “Non le si può cinguettare niente.”
Shinichi la fissò sbattendo gli occhi, per poi rimettersi a ridere. Valery comprese di aver sbagliato una parola e arrossì furiosamente.
“Nascondere! Intendevo nascondere!”
“Possiamo parlare in inglese” celiò Shinichi sinceramente divertito. “Non dirò niente a nessuno” aggiunse facendole l’occhiolino.
Valery sospirò, scuotendo la testa, ma più a suo agio.
“Non tenti di corrompermi di nuovo.”
Shinichi giunse le mani, ma con un’espressione troppo caricaturale per essere preso sul serio, dimostrando tutta la sua giovane età fisica.
“Onegai?”
La segretaria scoppiò a ridere, scuotendo la testa. Bevve l’ultimo sorso di caffè e buttò il bicchierino di carta nell’apposito cestino, per poi tornare dentro all’edificio, seguita dal giovane.
Ormai era una routine. Shinichi non aveva davvero problemi a entrare dall’ingresso principale, spesso faceva così, ma di Venerdì la pausa pranzo di Valery coincideva con il turno dell’unico addetto alla sicurezza, tale Wilson, che non aveva ceduto al faccino pulito e innocente che l’ex detective liceale sfoggiava.
“Non la racconta giusta, c’è qualcosa in lui che non mi convince.”
Shinichi non poteva dargli torto. Di contro, da dopo l’incidente con il dinamitardo, sapeva di aver guadagnato qualche punto in più e, se veniva beccato già dentro l’edificio, non gli veniva detto niente. Tanto oltre il desk dell’accoglienza non era mai riuscito a mettere piede.
“Oh, Mr Kudou!” salutò Constance. “È sgattaiolato di nuovo dentro?”
“Ha indovinato che siamo state al ristorante italiano” spiegò Valery rientrando alla propria postazione.
Shinichi si sistemò con le braccia sul bancone, rilassandosi e preparandosi per le solite quattro chiacchiere di routine. Era diventata una costante da diversi mesi e aveva i suoi lati positivi.
“Indovinare non è il termine giusto” disse facendo un cenno di diniego fintamente oltraggiato, riflettendo il gesto anche nel muovere un indice ben alto. “Sono un detective. Ho spirito di osservazione. Indago e colgo la verità.”
Le due colleghe ridacchiarono.
“Non è un agente dell’FBI, Mr Kudou? Un giorno ci rivelerà i suoi segreti? È così giovane!”
“A volte penso che Wilson abbia ragione e lei ci nasconda la sua vera identità! Se non l’avessi vista alle prese con quell’attentatore e poi insieme al suo supervisore non ci crederei mai che sia un agente.”
Shinichi abbozzò, ma con serenità, quasi ridendo. Alla fine, anche quella era una verità, per quanto facesse male.
“Se vi racconto la mia storia mi segnerete un appuntamento con Ran?”
Conosceva già la risposta, anche se le due segretarie si scambiarono uno sguardo, mordendosi il labbro inferiore. Era una proposta troppo allettante, ma non avrebbero mai contravvenuto a una disposizione di Sonoko.
“Mr. Kudou così non è giusto! Sa che vorremmo, ma-”
“Devo provarle tutte” ridacchiò Shinichi, più divertito che davvero risentito per l’ennesimo rifiuto. Era giusto così. Da un lato, ci aveva fatto l’abitudine, dall’altro sapeva che prima o poi sarebbe riuscito a superare anche quel cavillo, ci fossero voluti altri mesi. Sperava solo non succedesse di nuovo sventando un attentato.
Se c’era una cosa che aveva imparato in anni di indagini, era che la soluzione spesso era molto semplice. A volte piuttosto piccola. Come una manina che si aggrappa ai pantaloni e tira per avere attenzioni.
“Onii-san, sei giapponese?”
Abbassando lo sguardo Shinichi trovò due occhi pieni di curiosità fissarlo. Gli ci volle qualche secondo per identificare il bambino, ma alcuni tratti erano inconfondibili. Stirò un sorriso.
“Ehilà, piccolo. Sonoko-okaasan lo sa che sei a spasso da solo?”
Era Suzuki Momo, il figlio di Sonoko e Makoto. Era la prima volta che Shinichi lo vedeva dal vivo e non in fotografia su social della donna stessa.
“Kaa-san non c’è oggi” disse il bambino annuendo come se stesse insegnando qualcosa a quell’oniisan più grande. Decisamente un atteggiamento che aveva preso da Sonoko.
“Momo-chan! Cosa fai qui?”
Valery si sporse dal bancone guardando il piccolo.
“Ran-neechan è occupata! Mi annoio!”
Shinichi controllò il leggero spasmo che lo colse. Quel Ran-neechan riportò a galla vecchie emozioni.
“La signorina Mouri è in riunione al momento” constatò Constance scorrendo la lista appuntamenti dal proprio computer. “Ma è questione di un’oretta.”
“Mi annoiooooo” replicò Momo in inglese con un’altra espressione rubata a Sonoko.
Il suo scoppio fu interrotto da un paio di persone ben vestite che fecero un cenno in direzione del desk per attirare l'attenzione. Valery scattò subito, circumnavigando il bancone e avvicinandosi ai visitatori per chiedere loro scusa della confusione e con chi avessero appuntamento.
"Puoi tenerlo un secondo?" bisbigliò Constance verso Shinichi con una preghiera nella voce.
Shinichi annuì e spostò l'attenzione su Momo, sorridendo a trentadue denti.
"Lo sai che una volta tuo padre ha picchiato una banda di pirati per salvare la tua mamma?"
Il bambino lo guardò con due occhi sgranati pieni di curiosità e non fece storie a farsi portare un po' più in disparte e lasciare le segretarie al loro lavoro.
"Grazie, Kudou-kun e scusa per il disturbo."
Una volta indirizzati gli ospiti verso il piano giusto e il loro appuntamento, e constatato che non ci fossero altri visitatori in arrivo, Valery e Constance si erano riavvicinate al giovane agente dell'FBI.
"Nessun problema. Ho una discreta esperienza coi bambini."
Le loro espressioni curiose - morbosamente bisognose di fare domande - furono però interrotte di nuovo da Momo.
"Oniichaaan raccontami altre storie con la mamma detective! E con papà che picchia i cattivi!"
Le due colleghe si scambiarono uno sguardo senza capire. Shinichi rise apertamente, scompigliando i capelli al piccolo.
“Ne ho quante ne vuoi, ma non dovresti tornare su e aspettare Ran-neechan?” disse con un fondo più che udibile di malinconia, nonostante si sforzò di mantenere un tono giocoso.
Momo lo guardò intensamente come ogni bambino che cerca di fare propri i segreti e gli atteggiamenti degli adulti, senza capirne la complicatezza. Alla fine dovette rinunciare, tirando in avanti il labbro inferiore.
“Voglio la merenda! E altre storie!”
Stavolta Shinichi intercettò l’occhiata delle altre due con una non più così sicura, mentre il bambino si era appeso a una delle sue mani, strattonandolo e ripetendo i propri desideri.
“Potrei portarlo alla caffetteria qua vicino…?” propose, cercando il consenso delle segretarie. “Lo tengo finché la riunione non finisce, che dite?”
“Ecco, uhm, la signora Suzuki ha proibito di portare Momo-chan fuori dal palazzo senza la sua autorizzazione. Ci fidiamo di te, ma se lo venisse a sapere ci licenzierebbe in un attimo…” spiegò Constance costernata, come se stesse facendo un torto personale al ragazzo.
Tuttavia, Shinichi annuì comprendendo personalmente. Di certo, non voleva far adirare Sonoko in nessuna maniera. Alienarsela non solo per Ran, ma anche per il figlio, avrebbe significato dire addio per sempre anche alla possibilità di mettere piede nel palazzo.
“Oniiiichaaaan!” continuò a strepitare Momo in sottofondo, con i suoi quasi sei anni di voce bianca e petulante, ignorando i discorsi dei grandi.
“C’è solo una soluzione” deliberò in autonomia Valery, battendosi un pugno sul palmo dopo essere rimasta in silenzio a pensarci su. Constance la guardò con un chiaro punto di domanda negli occhi quando la collega si voltò verso di lei, la decisione riflessa nelle sopracciglia corrugate. “Diamo a Kudou-kun un pass visitatori.”
“Cosa!? Ma la signora Suzuki-”
“Non potrà salire al piano degli uffici, ma accedere alla caffetteria sì” spiegò la collega stringata, nei suoi occhi si stava agitando un certo piano, anche se non sembrava volerlo comunicare a parole. Constance non sembrò carpirlo, ma si fidò, voltandosi per tornare al desk di accoglienza e attivare uno dei pass visitatori, scribacchiandoci sopra un “Shinichi Kudou” frettoloso.
Quando gli fu porso, l’agente dell’FBI lo guardò come se gli fosse appena stato consegnato un piccolo tesoro.
“Con questo potrai salire fino al trentesimo piano e non oltre” iniziò a spiegare Valery affiatata e con una vaga inflessione da complotto nella voce che nessuno degli altri due capì davvero. “La zona degli uffici è off limits, tuttavia potrai portare Momo-chan alla caffetteria e stare con lui. Ci faresti davvero un gran favore a tenerlo!”
“Andiamooooo!” urlò entusiasta Momo, tirandolo per i pantaloni.
“Ok…” borbottò Shinichi, facendosi trascinare verso gli ascensori dopo un’ultima occhiata alle due segretarie.
Quando lui e il bambino furono spariti oltre le porte automatiche, Constance si girò a guardare Valery, lasciando andare tutta la propria incertezza.
“Sei sicura che possiamo farlo? La signora Suzuki ha detto-”
“Ha detto di non prendergli appuntamenti con Mouri-san e non farlo passare per raggiungere gli uffici. Ma non ha mai detto che non potesse visitare la caffetteria” spiegò Valery con un piccolo ghignetto, mettendosi le mani sui fianchi come se fosse aperta alla sfida dei cavilli.
Constance sembrò ancora molto dubbiosa a riguardo.
“Sì, ma… perché sei così contenta? Potevamo tenere Momo-chan a turno, non è facile, ma l’abbiamo già fatto…”
“Pensaci! Tra un’oretta Mouri-san terminerà la riunione e verrà a cercare Momo!”
Di nuovo, la collega fu più allarmata che sulla strada per capire il piano.
“Noi le diremo che Momo-chan è a fare merenda in caffetteria…”
Constance capì, portandosi una mano alla bocca.
“Non hai intenzione di dirle che c’è il signor Kudou!”
“Be’, se lei non mi chiederà con chi è Momo-chan… in fondo, sappiamo che ha il permesso di andare in caffetteria per conto suo se vuole. Non sarebbe la prima volta!”
“Valery… tu vuoi farli incontrare di… di…” Constance non riuscì a trovare la definizione giusta.
“Sarà come nei film, una sorpresa inaspettata!” sospirò Valery, mettendosi una mano sul petto con trasporto. “Lei arriverà lì, sentirà Momo-chan tutto entusiasta… poi sentirà una voce che conosce che le metterà i brividi… e poi i loro sguardi…!”
Andò pressapoco come Valery, trasognante, aveva descritto a Constance.
Dopo un’ora di estenuante riunione, Ran scese a cercare Momo, per essere indirizzata dalle due segretarie - e dalla loro espressione da volpi - verso la caffetteria. Pensò che un tè e una piccola pausa con il nipote acquisito le ci sarebbero proprio volute, così non si fece troppi pensieri su come Valery e Constance l’avevano sospinta verso l’ascensore, tutte contente.
Arrivò in caffetteria, accennò un saluto ai baristi e si fece indicare dove fosse il piccolo Momo, anche se aveva già un’idea conoscendo il suo posto preferito, una zona in disparte con un grande divano tondo e una vista mozzafiato sulla città.
Non fu però preparata alla voce che accompagnava quella del bambino. Una voce energica, giovane, divertita nel tono con cui stava raccontando storie ed entusiasmando il piccolo ascoltatore.
Ran si bloccò in mezzo ai tavoli vuoti, le mani strette tra loro mentre gli occhi notavano la testa che faceva capolino dai divani, un profilo che non vedeva da più di dieci anni. Non con quei connotati, non più fanciulleschi. Almeno, non lo vedeva dal vivo, perché erano stati rari i giorni in cui, anche solo per un attimo, il suo pensiero non si era perso a ricordare quell’ultima volta, quel giorno fatidico a Tropical Land che aveva cambiato ogni cosa.
“Ran-neechan!” gridò Momo accorgendosi della sua presenza e impedendole di fare marcia indietro. Di poter evitare quell’incontro.
La verità, ma solo tempo dopo lo ammisero, fu che a Shinichi e Ran bastò incontrarsi con lo sguardo per ritrovarsi e, in una maniera che neanche loro si spiegarono, perdonarsi.
In superficie, tuttavia, la malinconia aveva ormai consolidato uno spesso strato da grattare via. Insieme a quel loro non tanto velato temperamento di scaldarsi subito.
“Non dovresti essere qui, Shinichi” sbottò Ran, ma piano, con un tono tutt’altro che deciso e un’espressione che in contrasto con quello che stava dicendo. Avvertiva un formicolio famigliare, per quanto dimenticato, lungo le braccia e che le risalì fino alle guance, facendogliele sentire tiepide.
Non era la prima volta che si rivedevano davvero. Era già successo qualche settimana prima con l’incidente della bomba, ma lì si era preparata mentalmente quando le era stato detto chi avesse sventato l’attentato. Aveva avuto tempo di ripetersi quanto Shinichi l’avesse fatta soffrire e aveva potuto reggere il suo sguardo e la sua presenza.
Lì, in quel momento, era come se quell’incontro non fosse mai avvenuto. Si sentì priva di difese, ma, allo stesso tempo, nell’unico posto al mondo in cui si sarebbe voluta trovare: davanti a lui.
“Ciao Ran” sorrise lui, quasi timidamente, riflettendo i suoi stessi sentimenti per essere stato colto alla sprovvista. “Stavo tenendo compagnia a Momo-chan” spiegò, come se bastasse a giustificarsi della presenza in un luogo che non fosse solo la reception.
Nel mentre, il bambino passò lo sguardo dall'uno all’altro. Una lampadina sembrò accendersi nei suoi occhi e cacciò un urlo tale che entrambi gli adulti trasalirono, guardandolo allarmato.
“Io so chi siete!” gridò entusiasta, saltando sopra il divano. “Tu sei il Cavaliere Nero!” e indicò Shinichi, per poi balzare di volata giù dal divano e correre incontro a Ran. “E tu zia sei la Principessa!”
Entrambi lo guardarono senza parole, per poi incontrarsi di nuovo con lo sguardo. Avamparono come se qualcuno li avesse appena esposti in pubblica piazza.
“Momo-chan, cosa stai dicendo?”
“Okaasan mi ha raccontato questa storia! Del Cavaliere Nero” e indicò di nuovo Shinichi, che nel mentre si era alzato per raggiungerli, mani in tasca, mantenendo comunque una certa distanza. “Che combatte i cattivi! Però questo lo allontana dalla Principessa che soffre e può vederlo solo di tanto in tanto!”
Il bambino non sembrava in grado di mitigare l’entusiasmo, come se gli eroi che vedeva nei cartoni animati fossero appena usciti dallo schermo di fronte a lui.
“Un modo carino di raccontare quello che è successo” convenne Shinichi con un risolino spiazzato.
“Non c’è niente da ridere” borbottò Ran verso di lui, ancora più imbarazzata nel venire a sapere come Sonoko raccontasse certe cose. “Momo-chan io non sono una Principessa…” cercò di argomentare, ma negli occhi del bambino lesse soltanto tutta la forza di credere nei propri sogni dei più piccoli.
“Anche se non hai il vestito lo sei!” disse quest’ultimo, per poi voltarsi verso Shinichi. “Vero Oniichan? Lei è la tua Principessa, vero!? Quella che tu hai protetto dai cattivi!”
“Oh per l’amor del cielo” sbottò Ran in un sussurro, coprendosi la bocca e arrossendo ancora di più. Shinichi aveva cambiato colore, prima di scoppiare a ridere di gusto.
Momo passò lo sguardo dall’uno all’altro, corrugando la fronte, per poi correre incontro a Shinichi e tirarlo di nuovo dai pantaloni.
“Non è vero!? Perché ridi!? Non sei qui per Ran-neechan? Hai battuto i cattivi, non è vero?”
Shinichi lo guardò e, per un attimo, pensò a se stesso quando si era ritrovato a quell’età, quando aveva iniziato a vestire i panni del Cavaliere Nero, in miniatura, proprio per proteggere Ran. Gli rispose, ma lo fece rialzando lo sguardo verso la donna, fissandola negli occhi. Non riuscì a mascherare la profonda malinconia che in quegli anni era stata sua compagna.
“Sì, li ho sconfitti. Ma anche loro hanno sconfitto me. Per questo ci ho messo così tanto a tornare.”
Ran tremò per un attimo, per poi chiudere gli occhi, serrando le dita.
Nell’ampia caffetteria vuota calò il silenzio. Shinichi resistette all’impulso di avvicinarsi a Ran e prenderle le mani per dirle, finalmente, sono tornato. Non riuscì a muovere un passo, ma le sue labbra decisero lì dove la testa aveva ancora dei dubbi.
“Sono tornato e non ho più intenzione di andarmene.”
“Perché ora dovrebbe essere diverso?” sussurrò Ran, cedendo allo sconforto, bucando la bolla di dolore con cui aveva convissuto fino a quel momento, giorno dopo giorno, ingoiando l’amaro.
Aveva indossato i panni della finzione per dirsi che andava tutto bene per così tanti anni, eppure li sentiva già cedere, scucirsi intorno a lei. Aveva sognato sognato per tutta l’adolescenza, ma quello che sperava di veder realizzato un giorno non era che un’illusione effimera. Aveva dovuto mettere da parte la ragazzina che pensava sarebbe stata felice col ragazzo di cui si era innamorata da bambina e andare avanti, andare lontano.
Si era rifatta una vita a metà, spaccata costantemente dal guardarsi allo specchio e vedere nei propri occhi cosa si era lasciata alle spalle. Aveva combattuto tante volte la voglia di tornare indietro, di accettare le bugie, il passato, e continuare ad aspettare. Non era stata forte come pensava di essere. Non era stata tante cose. Si era dovuta reinventare e accettare diverse, troppe volte.
Perché ora, di punto in bianco, avrebbe dovuto credere a un’altra promessa?
“Ran-neechan... perché piangi?”
Ran sentì le manine di Momo sulle proprie e un proprio singhiozzo spezzare il silenzio.
“Non è niente” represse un singulto, asciugandosi gli occhi con le dita.
“Non piangere, zia. Okaasan mi ha detto che quando il tuo Cavaliere torna tu sei felice!”
I singulti di Ran si susseguirono uno di seguito all’altro, mentre nascondeva il volto nelle mani, non riuscendo più ad arginare le lacrime.
Per qualche attimo non fu in grado di capire cosa le stesse succedendo attorno. Momo stava dicendo qualcos’altro, ma non capì. Come non capì come fosse possibile che il suo cuore riprendesse a battere, a battere sul serio, quando le braccia di Shinichi si strinsero intorno a lei.
Non lo respinse, ma non poté impedirsi di tendere i muscoli, di irrigidirsi. Era questione di fare un metaforico passo, ma non riusciva a trovare il coraggio.
“Non voglio andarmene.”
“Shinichi…”
“Ho tante cose da raccontarti.”
“... ti prego…”
“... ma devo accettare che tu non voglia…”
“... resta.”
Le braccia di Shinichi si serrarono. Fu il tempo stesso a smettere di ticchettare e per qualche secondo fu il tepore a parlare, a ritrovarsi, dopo tanto tempo.
“Hai detto… resta?” chiese titubante il ragazzo, cercando di sbirciarle il viso.
Ran annuì contro la sua spalla, molto piano, avendo bisogno lei stessa di realizzare quanto aveva appena affermato.
Forse di lì a breve si sarebbe svegliata. Era un giorno come un altro. Un giorno come un altro da più di dieci anni. Non ricordava neanche la data, o se ricorresse qualcosa di particolare, un evento, una congiunzione astrale.
Aveva solo capito che Shinichi era lì. Era tornato. Per davvero. Anche se con quei dieci anni di meno a vista, sentiva, in un certo senso, che era il suo Shinichi. Quello che non l’aveva mai davvero abbandonata anche quando il mondo gli si era rovesciato addosso.
“Voglio ascoltare tutto quello che vuoi raccontarmi…” mormorò piano, staccandosi dal suo abbraccio quel tanto che bastava per guardarlo in viso. Le venne da piangere di nuovo.
“R-Ran m-mi dispiace” balbettò lui non sapendo cosa fare.
“Lo so.”
“Sono stato un idiota. Io-”
“Lo so.”
Per un attimo le venne da ridere. Era assurdo. Era un giorno come un altro. Eppure era quel giorno che aspettava da troppo.
“V-vuoi riprovarci…?” chiese piano Shinichi, facendosi serio d’improvviso, tutto tirato e rigido. Era consapevole di Momo attaccato con le manine ai suoi pantaloni, strattonandolo, ma vedeva e sentiva, percepiva, soltanto Ran.
Ran e il suo sorriso. Piccolo, bagnato di lacrime, ma così bello.
“Sì. Riproviamoci.”