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Cow-T, quarta settimana, M2

Prompt: Piangere senza riuscire a smettere

Numero parole: 3046

Rating: SAFE


Fandom: Voltron LD

Personaggi/Ship: Lance

Note: … stavolta è scritta un po’ coi piedi, la rivedrò in un secondo momento, però ho questo headcanon da parecchio e gli ho regalato un po’ di parole.





Quando Lance incontrò la pioggia per la prima volta era appena morta la sua bisnonna. La mamma era triste, il papà era triste, la nonna era triste. Lance aveva circa tre anni e Veronica gli raccontò che quando tante persone sono tristi insieme il cielo le sente e piange con loro. Per tanto, tanto tempo quella convinzione rimase radicata in lui.

A dieci anni, Lance non sapeva cosa significasse stare fermo, mangiare tranquillo o smettere di fare mille domande. Era un ragazzino vivace fino all’esasperazione e faceva ammattire ognuno dei suoi famigliari, ma era anche la briciola di casa e a fine giornata tornare e trovare il suo sorriso e i suoi mille racconti era parte della felicità dei McClain.

Il giorno che sparì e non ci furono schiamazzi ad attendere nessuno, la sua famiglia perse per la prima volta un pezzo di cuore, senza immaginare che un giorno sarebbe successo di nuovo.



Era un giovedì pomeriggio e Lance si chiedeva chi nel mondo fosse così tanto triste da far piovere. A lui non dispiaceva stare fuori, a zonzo, a cercare di prendere le gocce d’acqua con le piccole mani chiuse a conca. A volte, quando era sicuro che nessuno lo ascoltasse, cercava di dire al cielo che andava tutto bene e che non c’era bisogno di piangere, che poi le persone sarebbero tornate felici.

Quel giorno, mentre era fuori a giocare con i pulcini nel cortile, aveva iniziato a cadere una pioggerellina sottile. Sapendo che la abuelita si era  addormentata davanti al solito programma televisivo, Lance non si preoccupò di dirle che usciva. Lo faceva tutti i giorni, gironzolava fino al limitare della proprietà di famiglia, esplorando e cercando neanche lui sapeva bene cosa. A volte aveva la sensazione che qualcosa lo chiamasse, e si ritrovava ad alzare un sacco di sassi e guardarci sotto, come se la voce provenisse da lì. Quando iniziava poi a piovere, come quel giorno, si distraeva, perché la pioggia era bella, anche se molti pensavano fosse triste. Lui trovava che fosse piacevole, anche se lo inzuppava e gli faceva sentire freddo. E poi, se riusciva a consolarla, smetteva e tornava il sereno (e in realtà era lui che, poi, si sentiva un po’ triste).

Lanca stava girovagando al limitare della proprietà dei suoi, chiacchierando col cielo, quando sentì una vocina stridula. Si fermò e tornò qualche passo indietro, assicurandosi di aver sentito bene.

«Minino!» esclamò, quando sentì bene il piccolo miagolio acuto. Al suo esclamare, il gattino pigolò più insistemente e, insieme a lui, anche la pioggia parve farsi più forte.

«No, minino, non piangere, o anche il cielo lo farà!» escamò Lance. Senza pensare alla regola numero tre, mai superare la recinzione, il bambino si intrufolò in uno dei grossi buchi della rete, incurante del vecchio cappellino che gli cadde alle spalle, e si inoltrò sulla collina. Il terreno era fangoso ma pieno di piante e piccoli arbusti a cui aggrapparsi e non scivolare.  

«Minino dove sei!?» vociò Lance per farsi udire sopra la pioggia. Sentiva il miagolio venire da ovunque e da nessuna parte, come quella voce che a volte immaginava lo chiamasse. «Andrà tutto bene! Ora ti trovo!»

I miagolii del gatto rimbombavano e divennero più forti e Lance trovò da dove provenissero quando coi piedi, invece di calpestare il terreno, batté contro qualcosa di legno. Abbassando lo sguardo, vide delle vecchie assi inchiodate e sentì di nuovo il gattino.

Sporgendosi, scoprì un pozzo, non troppo profondo, circa tre metri, con le pareti di mattoni irregolari e diversi rampicanti a ricoprirla. Sul fondo, gli occhi blu di Lance ne incontrarono un paio quasi dello stesso colore, in un musino di pelo grigio lisciato dalla pioggia. Il gattino, di forse tre mesi, miagolò al bambino, mettendosi ritto sulle zampe posteriori e allungandosi quanto poteva sulla parete, gli artigli che grattavano la roccia.

«Quanto sei piccolo!» esclamò Lance, sorridendogli. «Ora non c’è più bisogno di piangere minino! Cerco qualcosa per tirarti su!»

Prima di riuscire a perlustrare bene i dintorni, Lance dovette tornare tre volte a rassicurare il gattino che andava tutto bene, perché appena spariva alla vista questo ricominciava a piangere. Il bambino decise di continuare a far sentire la propria voce al piccoletto, mentre cercava tra le piante una qualsiasi cosa per avere un’idea.

«A papá piacerai subito! A mamá anche, penso. A volte mi parla del gatto che aveva quando era piccola. Per piacere ad abuelita non dovrai farti le unghie sui mobili in salotto! Sono molto vecchi e lei ci tiene tanto perché li comprò con abuelito quando si sposarono.»

Lance continuò a chiacchierare sempre più forte man mano che si allontanava di qualche passo e sembrò funzionare. «Quando saremo a casa però dovrai promettermi che non ti affezionerai a Rachel! Sennò ti vorrà tutto per sé! Le voglio bene, ma non quando prende i miei giocattoli e se li tiene! Oh-» esclamò alla fine, scostando l’ennesima pianta. «Ho trovato una corda!»

Era una vecchia corda, spessa e robusta, anche se scivolosa e zuppa di acqua piovana. Lance iniziò a tirare per vedere dove finisse e pian piano la estrasse dal terreno fangoso. Quando dissotterrò anche il secondo capo, ci trovò all’estremità un gancio arrugginito più grosso della sua mano.

«Wow!» esclamò meravigliato, rigirandosi l’oggetto tra le mani. Il gattino ricominciò a miagolare, non sentendolo più. «Arrivo! Ho trovato come tirarti fuori!»

Il primo tentativo non andò come Lance aveva immaginato. Calò la corda dentro il pozzo e aspettò che il gattino la usasse per arrampicarsi, ma questo continuò solo a miagolare e miagolare verso di lui.

«Sali sulla corda! Forza! Arrampicati con le unghie!» cercò di spiegargli, ma il piccolo felino ignorò la fune e continuò ad allungarsi verso Lance e pigolare. Il bambino sbuffò, togliendosi i capelli umidi dalla faccia e cercando un’altra soluzione.

Sul fondo del pozzo c’erano varie cose. Dei vecchi sacchi di iuta pieni di non capiva cosa, delle bottiglie di vetro spesso e verde, una cassa rotta e un secchio. Fu guardando quello che Lance ebbe l’idea.

Recuperò la corda e col gancio cercò di afferrare il manico del secchio. Non ebbe molto successo, tranne sbatacchiare contro le pareti la ferraglia troppo pesante, paventando il gattino che corse a nascondersi nella cassa sfondata.

«Scusa minino, scusa!» farfugliò Lance, ritirando su al volo con entrambe le mani la corda, continuando a far cozzare il gancio di ferro. «Ehi, vieni fuori! Non ti voglio fare male! Sto cercando una soluzione!»

Lance continuò a chiamare il gatto e a supplicarlo di farsi vedere, nonostante la pioggerellina che ancora cadeva e che ormai lo aveva completamente infradiciato. Pensò e continuò a pensare, finché non notò che sotto una delle assi che chiudevano in parte il pozzo era installato un anello, in ferro come il gancio.

«Minino! Ho trovato! Vengo a prenderti!»

Mettendo in piedi troppo di fretta, Lance scivolò sul terranno fangoso ma si rialzò subito. Fece il giro del pozzo e attaccò all’anello il gancio, dandogli un paio di strattoni per testarlo. Anche se arrugginiti e col legno a scricchiolare, i due pezzi sembrarono reggere. Lance asciugò la corda al meglio con la maglia sotto la felpa, togliendo il fango e rendendola più maneggiabile; poi guardò giù nel pozzo. Non soffriva di vertigini; se fosse scivolato sarebbe atterrato sui sacchi, un atterraggio parzialmente comodo. Poteva farcela. La missione recuperare il gatto e risalire aveva inizio!

«Il Cavaliere Lance arriva a salvarti, minino!» proclamò, iniziando la discesa. Nonostante avesse tentato di pulirla, la corda era ancora scivolosa e in un paio di volte Lance perse la presa, soprattutto sul finire, atterrando sui sacchi ammuffiti come previsto.

«Ahia» si lamentò, tirandosi a sedere e passandosi le mani sul fondoschiena, ma qualsiasi dolore sparì quando il gattino gli saltò in grembo, miagolandogli forte contro la faccia. Lance si mise a ridere, avvicinando le dita per fargliele annusare, ma sembrava non ce ne fosse bisogno; il piccolo felino iniziò subito a strusciarsi contro la mano e a fare le fusa.

«Sei proprio carino!» ridacchiò Lance, quando il gattino andò a dargli le testate sotto il mento. «Però dopo le coccole! Ora dobbiamo risalire!»

Una volta sistemato il micetto nel cappuccio della felpa, Lance tornò alla corda. La pioggia continuava a cadere anche lì nel pozzo, rendendo il terreno una piccola pozza d’acqua. Lance trovò riparo in corrispondenza del coperchio sfondato, dove era appeso il gangio, in una zona un po’ più asciutta. Facendo un grosso nodo alla fine della corda e usando le maniche della felpa per cercare di fare più presa, Lance iniziò la risalita.

Ok, aveva creduto sarebbe stata più facile, ma a metà era già stanco, anche se il conforto delle fusa del gattino lo spronarono a proseguire.

«Forza minimo, fai il tifo per me!» cercò di scherzare Lance, anche se era già teso al massimo per lo sforzo, perché la corda continuava a scivolargli.

Quello che lo colse impreparato fu il forte scricchiolio che sentì sopra la testa. Stringendo le la corda tra le dita e le gambe, Lance guardò in alto e nello stesso momento qualcosa sopra cedette, facendolo sobbalzare in giù. Un piccolo urletto gli scappò dalle labbra e il gattino ricominciò a miagolare con insistenza.

«Calmo! Calmo! Va tutto bene! Non ha ceduto prima, non-» ma il resto della frase fu troncato dal rumore secco delle travi che si spezzavano; con un altro brevissimo grido Lance impattò più forte di prima sui sacchi, mentre i pezzi di legno gli finivano addosso. Uno lo colpì in fronte e il bambino perse i sensi.



La prima cosa che Lance sentì quando riprese i sensi furono le fusa del gattino contro la testa. La seconda, un attimo dopo, fu il dolore della caduta. Con un braccio iniziò a togliersi i detriti di legno da dosso, per trovarsi a osservare quanto c’era andato vicino a essere colpito in faccia dai pezzi di ferro. Ma prima che un sentimento di paura potesse fargli ripensare alla caduta, il gattino lo distrasse chiedendo attenzioni a gran voce.

La piccola palla di pelo grigia, nonostante la situazione, non sembrava intenzionata a spostarsi o allontanarsi da Lance, ma il bambino, quando guardò in alto la cima del pozzo, e come il legno di fosse spezzato, e il fatto che non ci fosse più la possibilità di arrampiscarsi fuori, iniziò a spaventarsi lo stesso.
«Minino, non va bene» disse, parlando più per bisogno che per necessità. «Accidenti, ora come usciamo da qui?» e si guardò intorno. C'erano solo quelle quattro cose che aveva visto da fuori, i sacchi, la cassa sfasciata, le bottiglie di vetro e il secchio. Deglutì a vuoto, alzandosi e sentendo anche delle spiacevoli fitte al piede su cui doveva essere atterrato malamente. Ma non ci pensò.
«Abuelita starà ancora dormendo... e mamma e papà non torneranno da lavoro prima di stasera» continuò a dare voce ai pensieri che veloci gli sfrecciavano in testa. «Forse Rachel... Rachel potrebbe accorgersi che non ci sono!» proseguì speranzoso, guardando il gattino, per poi avere un altro pensiero poco incoraggiante. «Non se si chiude in camera come suo solito e ignora tutto e tutti...»
Fece il giro del pozzo, le scarpe in tela sudice tra pioggia e fango. C'erano diverse piante rampicanti contro la parete. Gli venne un'idea e provò a tirarne una, ma si ritrovò di nuovo col sedere per terra, a lamentarsi per la botta. Il mugolio di dolore però diventò un singhiozzo, e poi un altro e un altro ancora. Il gattino gli sgusciò da sotto una gamba per portarsi davanti a lui e, anche se bagnato e sporco di fango così tanto da sembrare marrone e non grigio, gli poggiò le zampine addosso e si strusciò con la testa, continuando a miagolare e fare le fusa. Tuttavia, Lance sembrò inconsolabile, man mano che la paura aumentava senza trovare un modo per risalire.
«Come faccio? Non possiamo uscire di qui e... e sarà ora di cena quando vedranno che non ci sono! Passeranno ore... e-» si strinse nelle proprie braccia, piangendo più forte, con le lacrime calde che rotolavano sulle guance infreddolite. Il cielo, sopra di lui, rumoreggiò più forte, facendolo trasalire.
«Oh no» mormorò, ma continuando a singhiozzare irrefrenabile. «No ,per favore cielo, non- non piangere forte anche tu. Starò b-bene» tentennò, strusciandosi il naso gocciolante contro la manica della felpa. Ma la pioggia non parve credere alle sue parole e le gocce iniziarono a picchiare più forte.
«No no no no!» si spaventò Lance, tirandosi indietro contro la parte più asciutta del pozzo, una minuscola porzione sotto quello che rimaneva del coperchio sfondato.
Il rumore del temporale riempì un quantitativo di tempo di cui Lance non tenne neanche il conto, mentre piangeva a sua volta senza riuscire a smettere. All'inizio, nonostante i singhiozzi, si ripeté che sarebbe andato tutto bene, che mamma o papà, o uno dei suoi fratelli, lo avrebbero trovato. Ma più passava il tempo, più il maltempo imperversava. Iniziarono i tuoni e il piccolo gattino si infilò sotto la sua felpa, miagolando spaventato.
«Minino... se piangi anche tu qui non smetterà mai....» ma nessun cielo parve in ascolto di Lance.
Nell'ora successiva, Lance provò a gridare aiuto. Ogni volta che una folata di vento vibrava contro le pareti in pietra e attraverso i frammenti di legno, il bambino urlava più forte, ma nessuno arrivò.
Il pomeriggio divenne sera e Lance sistemò i due sacchi l'uno sopra l'altro, e il secchio ancora sopra, per potersi distanziare dai centimetri di acqua che avevano riempito il fondo del pozzo.
«Non possono dimenticarsi di me...» stava dicendo Lance a un gattino tutto tremante di freddo, che lo guardava senza più miagolare, probabilmente avendo finito la voce. «Lo so che sono l'ultimo arrivato... e non ho giocattoli o vestiti miei... mi passano tutto i miei fratelli e le mie sorelle... però ad abuelita io piaccio, sai? Mi chiama sempre briciola, perché sono nato prima del previsto e ho fatto spaventare tutti» in un altro momento quella storia lo avrebbe fatto ridacchiare, perché sua nonna la raccontava sempre con troppa enfasi e tanto dramma, come le telenovelas in tv, ma ora Lance riusciva solo a singhiozzare. «Però Luis e Marco con me giocano poco... perché dicono che devono fare cose da grandi. È vero che quando giochiamo mi diverto, ma dura sempre poco... Veronica dice sempre che deve studiare per entrare alla Galaxy Garrison. Lei vuole esplorare le stesse. È tosta, dice, ma le piace tanto. Un giorno porterà anche me a visitare gli alieni...» tentò di asciugarsi di nuovo le lacrime, ma tra il suo viso e la manica facevano a gara a chi fosse più fradicio. «Poi c'è Rachel, ma lei vuole starsene per conto suo perché dice che fa “cose da femmina"... ma sai, a me i vestiti che si compra lei piacciono un sacco... e anche le bambole. Abuelita ogni tanto ci gioca con me con le bambole, ma finisce sempre che si addormenta.»
Ormai nessuno dei due saltava più al sentire i tuoni. Erano diventati così frequenti e costanti, che non ci stavano facendo più caso.
Lance riprese a singhiozzare, involontariamente, stringendo il gattino mezzo addormentato. «Voglio andare a casa» piagnucolò. «Voglio mamá. Voglio andare al mare con papá. E poi voglio vedere le stelle di notte con Veronica e rubare gli smalti a Rachel... e voglio fare uno scherzo a Marco e poi correre via e farmi portare a prendere il gelato da Luis» il pianto si fece di nuovo rumoroso e forte, neanche si accorse di star chiamando "mamá" a voce alta, con la pioggia che picchiettava come un tamburo.
Fu il gattino a distrarlo, miagolando forte anche lui, ma non contro Lance come prima, ma verso una parte del pozzo. Lottando, si liberò e sgusciò da sotto la felpa, e continuò a miagolare, tentando più volte di andare verso l'altro versante del pozzo, ma il pavimento era completamente allagato.
«Che c’è?» chiese Lance, asciugandosi il moccio da sotto il naso. Tremava di freddo, ma si avvicinò al piccoletto per capire. E poi lo sentì. Lotano, sotto i tuoni... sentì il suo nome, urlato forte.
«MAMÁ! PAPÁ! SONO QUI! SONO LANCE!» scattò, più forte che poté. Prese in braccio il gattino e non si preoccupò dell'acqua che gli arrivava alle caviglie, ma si mise al centro del pozzo, guardando su e coprendosi la fronte con la manica per non venir frustato dalla pioggia. «SONO QUI! NEL POZZO! VOGLIO ANDARE A CASA!»
Le voci si fecero sempre più vicine, sempre più speranzose, finché Lance vide prima una luce e poi l'apparire di due teste oltre il bordo.
«Mi niño!» urlò sua madre, sporgendosi di istinto. «Lance! Lance!» continuò a chiamarlo e anche Lance la chiamò a sua volta, piangendo ancora e tendendo le braccia.
«Lance, sei ferito? Stai bene!?» a urlare di fianco a sua madre era suo zio Francisco, che con la torcia lo illuminò, accecandolo.
«Tío! Tío tirami fuori! Voglio andare a casa!»



Un paio di ore più tardi Lance era a casa, imbacuccato nell’accappatoio di sua madre dopo un lungo bagno caldo - che costrinsero a fare anche al nuovo acquisto a quattro zampe di casa McClain - e circondato da tutta la sua famiglia. Non smise più di parlare e ce ne volle per farlo smettere di piangere e chiedere scusa a profusione per essersi allontanato, ma dopo una cena ristoratrice e le coccole di tutti, Lance sembrò scordarsi di aver passato il pomeriggio in fondo a un pozzo a prendere la pioggia, ma anzi, raccontò la sua avventura con dovizia di particolari epici ed eroici, senza smettere di accarezzare la sua nuova e morbidissima gattina - sì, scoprirono che era una femmina - tutta fusa e piccoli morsi affettuosi.

«Come la vuoi chiamare?» si interessò Rachel, facendola giocare col suo dito indice. «Perla è un bel nome! Che dici? Chiamiamola così, dai!»

«Nah» replicò Lance, riprendendola in braccio per guardarla negli occhioni blu. «Voglio chiamarla come la pioggia! Lluvia!»



Sei anni più tardi, mentre i giornali parlavano ancora della sparizione di tre cadetti della Garrison Galaxy, una gattona con lo stesso nome delle “lacrime del cielo”, a detta dei nipoti di Lance, se ne stava sul davanzale di una delle finestre di casa McClain a guardare verso le nuvole, in attesa del ritorno del proprio padrone.


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