Mar. 19th, 2021

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COW-T 11, sesta settimana, M3
Prompt: 009. I imagine death so much it feels more like a memory.
Numero parole: 568
Rating: SAFE
Warning: //
Note: Dark Era o giù di lì ~



I imagine death so much
it feels more like a memory.
[Hamilton, il Musical]



«Ormai immagino la morte così tanto che sembra più un ricordo.»

Ango e Odasaku rimasero col bicchiere sospeso a un soffio dalle labbra. Si voltarono a guardare sorpresi il Dirigente della Port Mafia seduto tra di loro. Erano al Lupin Bar da ore, la mezzanotte era passata ed era innegabile che anche loro avessero ormai superato la soglia della sobrietà. 

«Ricordi di essere morto?» domandò Odasaku piano, per non spezzare l’atmosfera che si era appena creata. Il tempo sembrava essere scivolato fuori dal limbo in cui erano immersi, fatto di odore di tabacco, whiskey e musica leggera di sottofondo. 

«È ubriaco» sussurrò Ango in risposta, inclinandosi appena per adocchiare il più grande oltre le spalle del Dirigente. Tuttavia, il rossore sulle gote della spia era più accentuato rispetto agli altri due, benché sembrasse mantenere meglio il suo classico aplomb

Dazai fece spalluce, tirando una schicchera al bicchiere davanti a lui. Una goccia dell’alcolico schizzò sul bancone e lui la recuperò col polpastrello dell’indice, portandosela alle labbra. 

«So cosa si prova con una corda al collo che ti toglie il respiro un secondo alla volta. So com’è avere i polmoni come spugne pieni d’acqua. La sensazione di freddo per un quasi dissanguamento.»

Le parole di Dazai riempirono il piccolo spazio delimitato solo dalla loro presenza. Gli avventori intorno non si sarebbero mai avvicinati a gente che puzzava di Port Mafia lontano un miglio e questo dava loro tutta la privacy che, spesso, i discorsi sconclusionati del più giovane richiedevano. 

«Hai visto la luce in fondo al tunnel?» 

O la discrezione che le domande un po’ stravaganti di Odasaku necessitavano. 

Dazai scoppiò in una piccola e genuina risatina. Al suo fianco, Ango sospiro pesantemente, poggiando il bicchiere come se si fosse accorto in quel momento di bere la stessa cosa degli altri due e potesse finire contagiato dalla medesima stupidità. 

«Non c’è alcuna luce da nessuna parte» celiò Dazai, scivolando sul bancone per la stanchezza, la testa appoggiata sulle braccia incrociate. Fissò Odasaku dal basso verso l’alto con quell’unico occhio non bendato, ammorbidito da quella battuta che aveva spezzato la tensione del suo discorso. 

«È sempre tutto molto buio» aggiunse con un sospiro. «Non penso sia sbagliato quando si dice che la morte sia nera. Non posso assicurare sul genere, non mi sembra di aver mai visto una Signora. Tu che ne pensi, Ango?» concluse, voltando la testa nella sua direzione e strusciando la guancia sulla manica. 

«Io che ne so» borbottò il quattrocchi, massaggiandosi le tempie con le dita di una mano. Erano arrivati a degenerare come al solito. 

«Ogni giorno cerco di immaginare un nuovo modo per farla finita, perché non provi anche tu?» propose Dazai, riacquistando un po’ della sua verve per gli argomenti insensati. 

«A che pro?» 

Ango stette al gioco, ma non tardò a pentirsene. 

«È un ottimo esercizio. Prima o poi moriamo tutti, no? Se lo immagini, forse sarà meno doloroso. Io non voglio una morte dolorosa.»

La spia scelse di tacere e tornare a bere. Era l’ora di stordirsi. 

«E tu Odasaku? Immagini mai di morire?» 

Dazai tornò all’attacco, girandosi di nuovo verso il maggiore. 

«Non per il momento» sospirò l’uomo, ordinando un altro giro di whiskey. 

Il Dirigente si tirò su a sedere, stiracchiandosi. 

«Prima vuoi scrivere il tuo romanzo?»

«Già.»

«Non vedo l’ora di leggerlo! E voglio l’autografo!»

Era una di quelle serate


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COW-T 11, sesta settimana, M3
Prompt: 004. And when our children tell our story, they’ll tell the story of tonight.
Numero parole: 668
Rating: SAFE
Warning: … major character death? Non descritta.
Note: … ma è talmente corta che non se piagne. 



And when our children tell our story,
they’ll tell the story of tonight.

[Hamilton, il musical]



«Si può sapere che cazzo hai da ridere!?»

Quello di Chuuya sembrò in tutto e per tutto un latrato, ma si fermò a essere quello. Era troppo stanco, troppo al limite, troppo arreso per poter pensare di afferrare l’ex partner per il colletto e farlo smettere. Lui, di divertente, non ci trovava proprio niente. 

Erano spacciati, nel senso letterale del termine. Il capolinea. Non c’era più alcuna via di fuga e lo avevano scelto volontariamente. 

E Dazai rideva, asciugandosi le lacrime dagli angoli degli occhi e guardandolo con un sorrisino. 

«Quando i cuccioli parleranno di noi, racconteranno la storia di questa notte.» 

Chuuya fu abbastanza certo di aver capito male per il fischio del vento, se vento si poteva chiamare. Erano al centro del ciclone, o di qualsiasi insieme di forze fosse l’agire del Libro. Non importava che fossero riusciti a fermare Kamui e Dostoevskij dai loro piani di ristrutturazione egoistica della realtà, avevano innescato l’abilità probabilmente più distruttiva al mondo ed erano rimasti anche i soli a poter mettere un freno a tutto. Non senza sacrificio. 

Chuuya lo aveva accettato nel momento in cui l’aveva letto negli occhi di Dazai. Avevano iniziato insieme e, per quanto sperasse nel contrario, avrebbero concluso fianco a fianco la loro esistenza. Quello che Chuuya avrebbe desiderato risparmiarsi era un’ultima chiacchierata non sense con quel decerebrato del suo ex partner, il tutto mentre, intorno a loro, il mondo si stava sfaldando e sgretolando come un foglio che veniva consumato dalla fiamma. 

«Ora chi diavolo sono i cuccioli?» borbottò il rosso, passandosi una mano nei capelli arruffati. Aveva perso il cappello ore prima. Avrebbe dovuto prenderlo come un presagio di cattivo auspicio. Come se avere Dazai intorno già non fosse stato abbastanza. 

Il suo ex partner lo guardò con un sorriso raggiante. Alzò l’indice. 

«Atsushi!»

Poi alzò il medio. 

«E Akutagawa!» 

Chuuya lo guardò come avrebbe guardato un clown poco divertente o un paziente fuggito da un manicomio. 

«Perché li chiami-» si interruppe. «No, non lo voglio sapere.»

«Eddai! Sono i nostri ultimi istanti! Non sei minimamente curioso neanche adesso?»

«Ho la sensazione che mi darai il tormento anche nell’aldilà. O nella prossima vita.»

«Sei uno di quelli che crede nella vita dopo la morte e nella reincarnazione!?»

Lo sguardo di Chuuya esprimeva il dubbio di rispondergli, cercando il tranello. 

«Se anche fosse...»

«Sei così romantico!» e nel dirlo, Dazai gli afferrò una mano nelle proprie, fissandolo con le stelline negli occhi. Chuuya non avrebbe mai immaginato che sarebbe morto col voltastomaco. 

«Lasciami stare, idiota! Non riesci a essere serio neanche quando stai per crepare!?»

«Che gusto ci sarebbe? Vuoi ricordare gli ultimi istanti stando in una qualche posa plastica da eroe? Non c’è nessuno ad ammirarti!» 

«Deficiente, non intendevo questo!» brontolò l’altro, incrociando le braccia con stizza e cercando di nascondere il rossore. 

Dazai gli punzecchiò un fianco, facendolo saltare ed evitando al volo un morso, tornando a ridere. Questo ricordò a Chuuya della frase senza senso per cui avevano iniziato a battibeccare. 

«Stavi pensando a Jinko?»

La piega delle labbra di Dazai si ammorbidì e si fece più sincera. 

«Può darsi.»

«Ti sei sacrificato per lui.»

Chuuya non era scemo. Lo aveva capito nel momento in cui aveva tacitamente accettato di seguire Dazai in quella follia. Atsushi, o meglio, la Tigre Mannara, da sola, con quei suoi artigli, probabilmente avrebbe messo fine a tutto, ma allo stesso prezzo che stavano pagando ora loro. E Dazai aveva preferito andare avanti al suo posto e permettergli di vivere. 

«Mi dispiace» mormorò il suo ex partner, così piano che il frastuono intorno a loro rubò le sue parole quasi per intero. Tuttavia, Chuuya non aveva bisogno davvero di sentirle. 

«È stata una mia scelta, e preferirei che mi chiedessi scusa per altro.»

Dazai lo guardò senza capire. 

«Tipo?»

«Avermi reso la vita un incubo.»

L’ultima cosa che Chuuya sentì prima della fine fu, di nuovo, quella risatina che neanche la morte poteva cancellare. 

«Prego, partner.»
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COW-T 11, sesta settimana, M3
Prompt: 006. You and your words flooded my senses, your sentences left me defenseless, you built me palaces out of paragraphs, you built cathedrals.
Numero parole: 778
Rating: SAFE
Warning:
Note: Una teoria vuole che BEAST sia una realtà alternativa creata da Dazai (dopo la Dark Era) attraverso il Libro per “far rivivere” Odasaku.
Chi sono io per non dare credito a questa angst-issima teoria e non scriverci su?

PS: il riferimento alla voglia di fumare viene dalla novel della Dark Era. 





You and your words flooded my senses,
your sentences left me defenseless,
you built me palaces out of paragraphs,
you built cathedrals.

[Hamilton, il musical]



Svegliati. 

Ehi, Odasaku, svegliati. 

E…

vivi.



Oda aprì gli occhi e si riempì i polmoni con una boccata di aria violenta. Le sue mani andarono automaticamente al proprio petto, tastandolo, ma il pensiero successivo bloccò quel selvaggio frugare contro la maglietta che usava per dormire. 

Cosa stai cercando?

Con un lungo sospiro, Oda regolarizzò il respiro, passandosi le mani sul viso e fermandole sulle tempie. Aveva un vago mal di testa, eppure era sicuro di aver dormito. Tentò di fare mente locale per ricordarsi se avesse bevuto troppo la sera prima, ma non riusciva proprio a rammentarlo. Per un attimo fugace ebbe la sensazione sbagliata di non doversi trovare lì. 

Alzò lo sguardo e si guardò intorno. 

Il suo appartamento era silenzioso e in penombra, anche se il brivido di qualcosa fuori posto non lo abbandonò. Adocchiò una bottiglia di whiskey e un bicchiere sulla scrivania e si convince di aver alzato troppo il gomito. 

Buttò fuori dal letto le gambe, poggiando i piedi sul pavimento; il freddo delle mattonelle gli trasmise una sensazione reale, dandogli un brivido più concreto che lo spinse ad alzarsi e lasciar perdere i pensieri senza capo né coda. 

L’aroma del caffè appena fatto e una nota appuntata sul frigorifero lo aiutarono a fare mente locale. Aveva il giorno libero, anche se Kunikida non aveva approvato, perché voleva dire lasciare l’Agenzia da sola a gestire Akutagawa. 

Kunikida. Akutagawa

Oda ebbe bisogno di ripetere quei nomi, come se si fosse dimenticato del loro suono.

Kunikida era il suo partner in Agenzia. Akutagawa il ragazzino che aveva salvato da se stesso qualche anno prima. Le pensò come informazioni didascaliche, come un altro appunto trovato per caso nella memoria. Concluse che era meglio non toccare il whiskey per un paio di giorni se era arrivato a quel punto. 

Mandò giù il caffè e si concesse una merendina, constatando di avere la dispensa vuota. Un altro dei motivi per cui doveva aver preso il giorno libero. Con uno sbadiglio si spostò verso la scrivania, passandosi ancora la mano sulla faccia e, inconsciamente, sul petto. Aveva una vaga voglia di fumare, come quando interrompeva una sigaretta sul più bello, se non fosse stato che aveva smesso da anni. Eppure aveva il sapore lì, sulle labbra. 

Sbuffando, nel tentativo di liberarsi di tutte quelle sensazioni sconclusionate, si sedette sulla sedia e prese i suoi quaderni di appunti, sfogliandogli pigramente. 

Una villa occidentale abbandonata.

Dei mercenari, morti. 

Un uomo coi capelli argentei e il sorriso folle di chi non ha nulla da perdere.

Odasaku si portò le mani alle tempie, strizzando gli occhi e prendendo un’altra boccata d’aria, sentendo il petto dolore. Non capiva cosa fossero quei flash. Sembravano le scene di un qualche film, ma non aveva visto nulla di recente, non le riconosceva, eppure le aveva impresse in prima persona. 

Due spari, troppo precisi. 

Un ultimo sguardo. 

Un addio.



Il vibrare del cellulare lo svegliò di nuovo. Oda aprì gli occhi sentendo il collo indolenzito. Tirandosi su, notò gli appunti sparsi sulla scrivania, la penna caduta in terra, il bicchiere di whiskey rovesciato di fianco al braccio. 

Con una smorfia, premendosi le dita sul setto nasale nel vano tentativo di mitigare il fastidio alla testa, Oda recuperò il cellulare e rispose. 

«Pronto?»

Dall’altra parte riattaccarono. Oda guardò il display, ma c’era solo la dicitura Numero sconosciuto

Stanco - ed era solo prima mattina - riappoggiò il cellulare sulla scrivania, dando una panoramica al tutto. Ricordava di essersi seduto, di aver iniziato a sfogliare gli appunti, e poi aveva avuto delle fitte alla testa, ma non ricordava per cosa. Era come se avesse sognato e il tutto fosse sparito al primo barlume di coscienza.

Aprì uno dei quaderni, il più vicino, dove aveva lasciato il segno con la penna. Il suo sguardo si assottigliò, leggendo le ultime quattro righe che aveva scritto: 


Tu e le tue parole avete inondato i miei sensi,
le tue frasi mi hanno lasciato indifeso,
hai costruito per me palazzi dai paragrafi,
hai costruito cattedrali


Oda si ritrovò a leggere e rileggere quelle poche parole senza trovarne il senso, eppure sentendole nel profondo. Con le dita di una mano si stava stringendo il petto, mentre l’altra passava su quegli ideogrammi vergati con la sua calligrafia, ma che non sentiva propri. 

Non capiva. 

Ma il telefono ricominciò a vibrare, distraendolo. 

«Pronto?»

«Abbiamo un problema con Akutagawa. Non vuole uscire da sotto la scrivania.»

Oda riconobbe Kunikida e, senza capire il perché, trovò confortante quell’appiglio che gli era appena stato lanciato. Era troppo frastornato, troppo pieno di sensazioni che non capiva, per passare una giornata da solo. 

«Mi vesto e arrivo.»


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