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Cow-t, ottava settimana, M2.
Prompt: Finale
Numero Parole: 5243
Note: sorta di prologo (e vedendo il prompt fa ridere, ma si parla solo di "fini e finale"), la S5 ha portato una ventata di cambiamenti ~
Le canzoni citate da Lance sono "Stranger Things" di Kygo e l'inizio dell'inno cubano.



Il terreno tremò, si spaccò per la violenza con cui Red ci atterrò sopra. Con la scossa, nessuno mantenne l’equilibrio, neanche chi era già a terra e fu sbalzato dal posto.
Red ruggì non dissimile a una leonessa vera, schieratasi a protezione di territorio e cuccioli. Ruggì seguendo le grida di Lance nella cabina di pilotaggio, che continuava a chiamare un nome, tra il bruciore degli occhi, dei polmoni, del sangue.
Ma il solo ruggire non tenne lontano l’incubo che aveva preso forma in un esercito.
Si rialzarono anche se feriti. Ghignarono, anche se malmessi. Gli occhi gialli brillarono nell’oscurità della notte, tra il fumo dell’incendio e il pulviscolo. Non erano tanti, poco più di una dozzina, ma erano troppi lo stesso. Troppi, e così sbagliati.

Keith retrocesse ancora, il pugnale alto solo per parare i colpi. Non riusciva ad attaccare, non riusciva a mettere davvero a fuoco nessuno di quei volti così uguali e così lontani dall’essere quello che conosceva da una vita. Aveva ferite su tutto il corpo, aveva squarci nella mente che sanguinavano di domande, di urla, di un terrore nuovo, polveroso come carbone, che macchiava ed era difficile da mandar via.

Dove avevano sbagliato. Quando era successo tutto quello.

Shiro… il loro Shiro…

Non riusciva neanche ad associare una domanda al nome di Shiro. Farlo sarebbe valso ad ammettere che tutto sarebbe potuta essere una menzogna. L’unico ricordo certo che aveva, a cui aggrapparsi, era l’ultima volta che lo aveva visto prima che tutto, tutto, iniziasse. Il giorno della partenza per Kerberos. Forse l’incubo era iniziato quel giorno.

E ora ne avevano i postumi, ne avevano le conseguenze.

Red si agitò e batté il terreno con una delle zampe. Seguirono nuove vibrazioni, ancora la perdita di equilibrio. I ruggiti di una bestia intrappolata, che non sa cosa fare. I richiami disperati di Lance a Keith. “Vieni via! Andiamocene!”

Ma Keith doveva sapere perché.

Perché davanti a lui c’erano più di dodici copie di Shiro. Tali e quali, salvo per l’ordine di uccidere, per quello sguardo galra, per il ghigno che distorceva le loro labbra.

« Dov’è Shiro!? Cosa gli è successo!? »

Da quanto… da quanto non è più lui?

Chi è… il vero Shiro? Dov’è?

« KEITH! » urlò Lance, vedendo i cloni caricare verso l’ex paladino rosso che non accennò a ritirarsi, né a combattere. Non sapeva cosa fare, non sapeva come debellarli. Rimase con i comandi stretti nelle mani a osservare i secondi che li separavano dal circondare Keith. Gli sarebbe bastato fare fuoco nel mirino rosso lampeggiante del bersaglio. Un colpo di laser dalle fauci di Red e li avrebbe potuti polverizzati. Un zampata e li avrebbe sbattuti indietro, con molte probabilità di non lasciarli interi. Erano il nemico, ma erano Shiro.

Stava davvero per abbandonare Keith alla mercé di quell’incubo?

Un raggio bruciò il terreno in una linea orizzontale di fronte all’ex paladino rosso, mancandolo di così pochi metri che non poté evitare una vampa di calore accecante. Keith cadde malamente all’indietro mentre Lance gridava ancora il suo nome, ma le urla agonizzanti dei cloni erano più forti, più vicine, e si spensero troppo presto. In un attimo tutto finì e nell’aria rimase soltanto un orribile odore di devastazione e morte.

Quando la terra tremò per la terza volta non fu per colpa di Red, ma del Black Lion. Il robot, molto più massiccio, adagiò le zampe con insolita morbidezza, abbassando il muso e spalancando le fauci. Ne emerse l’ultima persona dell’intero universo che Keith fosse in grado di sopportare in quel momento.

« Li hai uccisi! » gridò, scagliandosi contro l’alta figura nel bisogno atavico di uccidere chi gli aveva portato via qualcosa di fondamentale, come se tutto fosse stato colpa sua.

Lotor fermò la lama a pochi centimetri da sé. Gli bastò stringere la mano sul polso dell’ex paladino rosso e poi afferrarlo anche per l’altro prima che gli arrivasse un pugno. Non lottarono; Keith era allo stremo e fu sufficiente che il principe lo respingesse per farlo incespicare sui piedi e perdere l’equilibrio.

Inciampando, Keith cadde all’indietro, afferrato solo all’ultimo dalle mani di Lance, ma questo non impedì a entrambi di finire a terra. Non avevano le energie, la volontà, di rimanere in piedi.

Lance lo chiamò più volte, fece delle domande brevi, febbricitanti, ma l’unica cosa che avvertì Keith fu solo il suo tremore nello stringergli le braccia e anche quella la ignorò. Vedeva solo Lotor, Black sullo sfondo, e nei brevissimi battiti di ciglia poteva rivivere il finale di quella battaglia involuta. Acre, l’odore continuava a riempirgli i polmoni, alimentando il bisogno di vomitare.

« Poteva… lui poteva essere… »

« Nessuno di loro era il tuo Campione »

Nessuno di quei corpi carbonizzati era il vero Shiro, ma erano delle copie perfette che Keith non poteva accettare di aver visto morire in maniera così atroce. Era tutto confuso ed era successo in maniera troppo repentina, così rapidamente da sembrare una botta in testa, un sogno raccapricciante in cui cercare la strada della coscienza fino a svegliarsi.

Ma Lotor rimaneva la presenza che meno di tutte avrebbe voluto lì, a guidare il Black Lion, a uccidere a sangue freddo e a ergersi salvatore.

« Bastardo » esalò, sentendo la propria voce incrinata dalla furia e dalle lacrime. Aveva troppa polvere sul viso, troppo bruciore tutto intorno agli occhi, negli occhi. Piangere forse lo stava già facendo da un po’, ma dalla rabbia ancora no. Dalla disperazione, dall’angoscia.

« Il fiato che sprechi per insultarmi usalo per rialzarti » fu il commento lapidario del principe. « Erano cloni, copie, fantocci. Non ti avrebbero ascoltato, ti avrebbero ucciso »

« Questo non puoi saperlo! » non esisteva il dargliela vinta, riconoscere che aveva ragione. Perché era così. Era appena cominciata.

Lotor fece schioccare la lingua in un moto di disgustata compassione. Guardò Lance e quest’ultimo rabbrividì.

« Esita un’altra volta e te ne pentirai per tutta la vita. Vita che potrebbe alla fine essere breve quanto quella del tuo amico »

« Da quando questa storia è affar tuo!? » urlò Keith ed era già in piedi e già addosso a Lotor, prima che Lance potesse trattenerlo, infiacchito dal commento ricevuto. Ma Keith aveva un dolore in corpo che aveva bisogno di sfogare in odio.

Lotor lo trattenne di nuovo, senza fatica, evitando che Keith arrivasse a sfregiargli il viso.

« Prima capisci che questi saranno i nostri nuovi nemici, prima avrai qualche opportunità di ritrovarlo, se è ancora vivo » lo respinse indietro, ancora, con rabbia, facendolo sbattere contro il petto di Lance che lo afferrò automaticamente, più rigido e meno incline a volerlo lasciar andare di nuovo. Non che Keith ne avesse davvero la forza. « Svegliati ragazzino, perché la prossima volta morirai ucciso per mano di una brutta copia del tuo Campione, mi hai capito? Morirai per un pugno di cellule programmate. Indugia nel chiederti ancora perché e non sarai che l’ennesima vittima debole e inutile »

Lance poteva sentire la rigidità dei muscoli di Keith. Aveva l’impressione che si sarebbe potuto spaccato da un attimo al successivo tra le sue dita. Tuttavia non replicò.

L’ex principe dei Galra si voltò per tornare verso il Black Lion.

« Andiamocene. Al Castello hanno bisogno di voi… e qui non c’è rimasto niente per nessuno »





Lance tentò di parlare con Keith, ma riuscì a farsi rispondere solo una volta, con uno « Sta’ zitto! ».

Col senno di poi, il paladino blu si chiese se quel loro non riuscire a comunicare fu il conto alla rovescia per la fine di qualsiasi cosa stessero provando a costruire. Quel periodo non fu altro che una caduta senza paracadute, e senza nulla che attutisse il colpo, eppure sopravvissero. Successe di lì a qualche mese, un finale lento e straziante per la seconda generazione di difensori dell’universo.

In quel preciso momento, Lance avrebbe solo voluto stringere la mano a Keith e pensare a voce alta “Lo affronteremo insieme”. Ma Keith non glielo permise, così Lance abbassò la testa e continuò a pilotare Red fino al Castello dei Leoni, seguendo la scia di Lotor e del Black Lion.

Arrivati all’astronave non trovarono nessuno ad accoglierli e capirono presto che la situazione era degenerata anche lì. Le tracce di sangue che trovarono fuori dalla plancia fecero scattare entrambi i ragazzi, superando Lotor che continuò a camminare senza fretta, nonostante un irrigidimento intorno agli angoli degli occhi.

« Hunk! Pidge! » urlò Lance, la gola ostruita dal cuore che palpitava. Flash di quello che poteva essere successo lo agitarono solo di più. « Allura! Coran! »

La porta si aprì normalmente e i due si precipitarono dentro per trovarsi otto paia di occhi addosso. Occhi stanchi, provati, su visi lunghi e pallidi di tensione che stentava a scemare.

Erano tutti raggruppati vicino alla postazione di Allura, quella che tra tutti aveva l’aspetto più stravolto, seduta sul bordo della pedana; una mano premuta su una ferita al braccio, un livido in formazione sullo zigomo, il lato della bocca sporco di sangue. Vista che gelò Keith e Lance.

« Siete vivi » la constatazione a Hunk uscì sotto forma di un sospiro di sollievo. Aveva un occhio che si stava gonfiando, zoppicava ma aveva un piccolo sorriso speranzoso nel vederli insieme e ancora sulle loro gambe. Lance avrebbe voluto avere un granello del suo ottimismo e non il cervello che tentava mille ragionamenti nonostante lo stato di shock.

« Avevamo bisogno di voi »

Pidge fu meno calorosa ad accoglierli e fissò brevemente e duramente il paladino blu e Lotor. Quando lo sguardo le cadde su Keith preferì tornare a digitare sulla tastiera del suo computerino. Anche lei non era messa meglio di Hunk, ma era ostinatamente immersa in quello che stava facendo. Non aveva gli occhiali di suo fratello sul naso perché questi erano riposti di fianco, con le lenti incrinate e una stanghetta storta. Aveva dei graffi sul viso e le mancava la parte superiore della suit, abbandonata ai suoi piedi, in parte rotta. Lance si accorse che stava digitando solo con una mano, l’altra adagiata sulle gambe immobile.  

« Avete bisogno tutti delle medical pod, adesso » intervenne Coran prima che qualcun altro iniziasse un altro discorso, e lo disse come se lo stesse sottolineando per almeno la terza volta. E nessuno dei tre gli diede retta, abbassando gli sguardi sconfitti.

La plancia sembrava vuota e spenta, per come erano tutti radunati insieme. Mancava qualcuno, di nuovo. Era come un videogioco: continuavano ad arrivare a un certo punto e poi game over, si ritrovavano a ricominciare da zero.

« Dov’è…? »

Lance ebbe il coraggio di porre la domanda, o almeno l’inizio, e questa restò sospesa sulle loro teste. Non c’era bisogno di un nome da pronunciare.

« Err-- lo abbiamo uhm » Hunk si guardò intorno, cercando consensi, ma Allura preferì interessarsi al pavimento e Pidge allo schermo del pc dove i codici che inseriva sfrecciavano veloci anche se lavorava con una mano sola. Coran, che di tutti pareva quello messo meglio, fisicamente, abbassò mestamente la testa, vinto da qualcosa di più profondo. Il paladino giallo rivolse l’attenzione agli altri tre. « Lo abbiamo reso inoffensivo, prima che ci ammazzasse, ecco. Sapete, non è facile riuscire a tenere testa a a Shiro. O chiunque fosse… dicevo, lo abbiamo messo ko perché ha fatto, ecco, di tutto, per... ucciderci… capite? Ha tentato di passarci da parte con la mano » e sventolò il braccio destro, per sottolineare le proprie parole.  

« Cosa che ora non potrà più fare » aggiunse Pidge, interrompendo l’inserimento di codici per sollevare quello che nessuno aveva ancora notato, poggiato dietro di lei e collegato al pc tramite alcuni cavi.

Keith sembrò sul punto di dare fuoco all’intera stanza solo con la propria presenza.

« Gli avete staccato il braccio » ringhiò, avvicinandosi a Pidge e sovrastandola. Lei non diede alcun adito di sentirsi minacciata, sostenne anzi il suo sguardo con uno altrettanto duro. Ma a intervenire fu Hunk.

« Ehi, Keith, piano. Non è stata colpa sua, ma mia. Abbiamo preferito staccargli il braccio piuttosto che aspettare che lui ci decapitasse. Ti ricordo Sendak che cosa fac- »

« Dov’è Shiro? » Keith non parve prestare attenzione alle ragioni del paladino giallo.

« È in uno dei pod per i prigionieri. Coran gli ha iniettato un tranquillante che lo terrà fuori gioco per un bel po’, mentre cerchiamo di capire cosa sia e come disattivarlo »

« Lui non è un-- » ma l’ardore dell’ex paladino si spense quando serrò la mascella senza trovare le parole da usare. La situazione sembrava andare troppo al di là della sua comprensione, di quello che era disposto ad accettare. Il silenzio non fu lungo.

« Avete preferito tenerlo vivo » quella di Lotor fu una constatazione più che una domanda. La sua voce fu capace di fargli conquistare l’intera attenzione dei presenti.

« Certo che è vivo » esclamò Hunk, anche se non riuscì a proseguire nel discorso con un non potremmo mai uccidere Shiro.

« È una minaccia che non siete in grado di gestire. Va ucciso prima che- »

Keith non fu debole di nuovo. Il suo pugno raggiunse dolorosamente lo zigomo di Lotor, che non riuscì a spostarsi in tempo per evitarlo. La già palpabile tensione della plancia fu messa a dura prova quando il principe non rimase fermo a subire, ma falciò le gambe all’ex paladino e lo mandò schiena a terra. Gli piantò un piede sul torace e la spada alla gola.

Il resto dei ragazzi puntò il proprio bayard contro Lotor, in un istinto affinato nei mesi passati a combattere, ma tutti così irrigiditi dagli eventi da tremare. Lotor li ignorò, concentrato solo su Keith. Si tastò la guancia, assottigliando lo sguardo furibondo.

« Hai due opzioni » sentenziò, costringendolo con la punta della lama a guardarlo negli occhi. « Accettare la realtà che il tuo Campione sia diventato un’arma in mano al nemico e smetterla di frignare adesso. O puoi andartene e lasciare questa guerra a chi ha intenzione di continuarla. Non sei utile a Voltron o ai tuoi compagni in questo stato. Non sarai neanche utile a Kolivan e alla Lama di Marmora, se non ti metti in testa che quei cloni hanno soltanto l’aspetto di chi ti era caro » le parole di Lotor furono fredde, incisive, nonostante nel suo sguardo vi si annidassero ombre che nessuno, in quel momento, fu in grado di cogliere. « E questo discorso vale per chiunque in questa stanza. Se non ce la fate e volete arrendervi perché un clone del vostro amico ha tentato di uccidervi, l’universo non ha bisogno di nessuno di voi »

Lance, Hunk, Pidge, Allura e Coran erano pallidi come lenzuoli, incapaci di rispondere e con la ragionevolezza di quelle parole a mordere loro la coscienza. Keith, pur di levarsi Lotor da dosso, afferrò la lama con le mani, ferendosi. Il principe fece un passo indietro, liberandolo, ma senza smettere di fissarlo e giudicarlo.

« Tu non sei il leader di Voltron » lo accusò Keith, stringendo le dita sanguinanti. « Non sai niente di Shiro »

Lotor passò lo sguardo su ognuno dei presenti, senza battere ciglio. Avrebbe potuto elencare ogni sorta di debolezza di quel gruppo, di quell’insieme di fragilità che, nonostante l’arretratezza del pianeta da cui venivano, erano stati in grado più di una volta di infliggere danni e provocare brecce nell’Impero di suo padre. Ora erano una manciata di umani e altean distrutti, portati al limite dalla consapevolezza di aver perso uno dei loro compagni. Decapitata la testa, il resto del corpo era allo sbando, perso e sul limite dell’autodistruzione. E la guerra era ancora lungi dall’essere conclusa.

« Potrete non accettarmi come vostro leader » iniziò, fronteggiandoli con il fastidioso pensiero di Shiro, del ricordo di quando lo aveva conosciuto, a ronzargli nelle tempie. « E tu - disse puntando Keith con una punta di arroganza e biasimo - potrai anche tornare a pilotare il Black Lion. Potrete ricostituire lo stesso Voltron con cui avete provato a sfidarmi, se questo vi farà sentire uniti e sicuri. Ma se credete che mi farò da parte e vi permetterò di distruggere l’unica opportunità che ha l’universo contro l’Impero di mio padre… siete in errore. E lasciatelo dire, paladino rosso: ti sbagli anche sull’ultimo punto. Ho conosciuto Shiro »





La guerra, insieme alle sue sfaccettature più infide, sarebbe stata il leitmotiv della loro relazione.

Questa cominciò qualche mese prima che Shiro, con l’aiuto di Ulaz, sfuggisse ai suoi aguzzini per dare vita alla resistenza più tenace che l’Impero Galra affrontò in diecimila anni di supremazia. Successe in un giorno qualsiasi della nuova vita del Campione; accadde quando la sua speranza di uscirne vivo era stata pesantemente infiacchita dall’amputazione del braccio destro.

Stentava già a riconoscersi guardandosi allo specchio, con il ciuffo di capelli bianchi e la cicatrice a tracciargli il naso da parte a parte. Non ci mise molto a imparare a usare la protesi, forse anche troppo poco per i suoi gusti, non avendo avuto neanche il tempo di realizzare la perdita, nessuna sindrome da arto fantasma, se si escludeva la totale assenza del tatto, e delle variazioni di calore.

Nei mesi passati a sopravvivere e combattere, combattere e sopravvivere, Shiro era diventato un’altra persona prima di tutto per se stesso. Ma fu Lotor a ricordargli chi era, chi avrebbe voluto essere e soprattutto a fargli scoprire i primi tasselli di chi sarebbe diventato.

Lotor fu la chiave di volta in molte delle sue scelte, in molti segreti, in parti della sua vita che non pensava avrebbe toccato così lontano da casa.

E tutto per una guerra.


« Io ucciderò Zarkon e tu tornerai come suo erede. In cambio proteggerai gli esseri umani, non rivolgerai mai mire verso la Terra o il nostro sistema. Abbiamo un accordo? »

« Affare fatto, Campione »


Dal momento in cui siglarono il loro patto, le cose si evolsero in maniera così repentina, imperfetta e imprevedibile che nessuno dei due poté mantenere fede alla parola data.

Shiro non credette sarebbe tornato sulla Terra, per rimanerci il tempo di una fuga, e poi trovarsi a capo del Difensore dell’Universo.

Tentò comunque di uccidere Zarkon, per tutto quello che stava causando - lo avrebbe fatto ugualmente, per l’accordo oppure no.

Non seppe se il suo sacrificio servì se non molto, molto tempo dopo, quando Lotor lo trovò, su un pianeta quasi disabitato.

Lo trovò quando la guerra sembrava perduta, quanto la sua voglia di combattere.






Il giorno che Voltron fu sconfitto sulla Terra iniziava l’inverno. Fu un evento tragico quanto annunciato. La coalizione era entrata in crisi a seguito di troppe sconfitte, le perdite tra i Ribelli sempre più ingenti e gli animi dei paladini messi a dura prova dagli scontri contro i cloni di Shiro. Una lotta logorante senza sosta, con il terrore continuo che in mezzo a quegli squadroni tutti uguali, tutti con quel volto familiare, ma dai lineamenti corrotti, vi fosse il vero Takashi Shirogane.

Kolivan convinse Keith a tornare a guidare Voltron e non lasciarlo nelle mani dell’ex principe dei Galra, che nonostante tutto rimase tra le loro file per continuare la guerra.

Lotor utilizzò le informazioni in proprio possesso per guidare attacchi mirati, ma nonostante questo, Keith non smise mai di dubitare di lui e l’attrito, le litigate troppo spesso violente sotto gli occhi dei compagni, continuarono a sfinire l’equilibrio fin troppo precario.

Da quando Lotor aveva rivelato di conoscere Shiro, il vero Shiro, da quando ancora era prigioniero dell’Arena, Keith sembrava aver perso qualsiasi barlume di predisposizione nei suoi confronti. La verità sul loro patto - qualcosa che il Campione aveva tenuto per sé, senza condividerlo con gli altri - era stata l’ennesima, per quanto piccola, spina conficcata nel fianco dei paladini. Più che mai in una realtà fatta ormai di continue chiamate d’aiuto dove i loro alleati si ritrovavano invasi dalle copie assassine di Shiro, urlando al tradimento.

Fu in questo clima, con il respiro reso fiacco dal peso costante della preoccupazione e del non riuscire a vedere una via d’uscita, che Voltron cadde.

I Galra non dovettero far altro che usare qualche piccolo stratagemma militare, un accerchiamento che i paladini avrebbero potuto prevedere, se Lotor e Keith non fossero scesi all’ennesima disputa sul comando dell’azione. L’attacco fu feroce, il contrattacco vano. La fuga fu lastricata dai sacrifici di quanti credevano in loro e dalla perdita maggiore, quella che nessuno tenne da conto come il tramonto definitivo della speranza.

Messo alle strette, e impossibile da raggiungere in tempo, il Castello dei Leoni fu spezzato a metà, colpito nel suo cuore più profondo.

Il giorno che Voltron fu sconfitto divenne un’altra volta una leggenda. Pianeti e astronavi videro sfrecciare comete di cinque colori in altrettante direzioni diverse, sparpagliandosi per l’universo. Quello fu anche il giorno in cui venne comunicata l’estinzione definitiva degli ultimi sopravvissuti al genocidio di Altea. Il diadema della Principessa Allura diventò il simbolo della supremazia Galra nella galassia.  




Quattro anni dopo…




Lance fischiettava addossato al muro della propria cella, a occhi chiusi. A gambe incrociate sul letto, tre dita infilate nelle tasche dei pantaloni e due fuori, di cui l’indice che tamburellava sulla stoffa tenendo il ritmo della canzone. Intorno, prigionieri sconsolati, la maggior parte con gli occhi spenti, silenziosi, coricati su un fianco sui materassi scomodi, avevano rinunciato all’attesa, alla speranza che qualcuno li tirasse fuori.

Al contrario, Lance si stava annoiando. Erano passati quasi tre mesi da quando era stato arrestato per un equivoco e si trovava in quella prigione dimenticata da qualsiasi dio adorato in quella parte di universo. Di certo non credeva avrebbe finito i suoi giorni su un pianeta tanto squallido, un covo di ricettazione, di contrabbandieri e pirati spaziali senza né arte né parte. C’era un avamposto Galra, tenuto da un sergente messo all’ingrasso tra tasse e cibi esotici, che chiudeva un occhio su qualsiasi cosa succedesse lì su Trat 4; era così rimbambito dalla propria bambagia che neanche aveva capito di avere tra le mani un ex paladino di Voltron. Su qualsiasi altro pianeta dell’Impero, Lance sarebbe stato portato in direttissima se non da Zarkon in persona, almeno dalla sua Strega. A distanza di quattro anni dalla sconfitta del Difensore dell’Universo, sui paladini ancora pendeva una taglia sostanziosa, perché ritenuti in possesso delle informazioni riguardo l’attuale ubicazione dei Leoni.

Ma la verità era che nessuno di loro che era rimasto, tra Lance, Pidge, Hunk e, sporadicamente, Keith, aveva idea di dove Blue e gli altri fossero spariti. Quando il Castello dei Leoni era caduto, e il collegamento intercorso tra i Leoni e la forza vitale di Allura era stato reciso con la morte di quest’ultima, i giganteschi robot felini li avevano espulsi dalle cabine di pilotaggio ed erano spariti in cinque angoli diversi dell’universo, lasciandosi alle spalle appena una scia del loro colore.

E in quel momento, Lance era finito in manette e a pendergli sulla testa una condanna a morte per aver insultato il capo di quella baracca. Una fine molto ingloriosa.

Un colpo alle sbarre, così rudimentali da essere in un qualche materiale metallico invece dei classici campi di energia, non lo fece desistere dal continuare a fischiare. Era una routine quotidiana anche quello.

« Smettila prigioniero! » abbaiò la sentinella, dando un altro colpo di manganello.

Lance fece segno di diniego con la testa, senza interrompere il motivetto. Al terzo colpo e abbaio da parte della guardia, l’ex paladino blu si mise proprio a cantare.

« We left a life
That's ordinary from the start
We looked for stranger things
'Cause that's just who we are
Found me the edge of something beautiful and loud
Like I'm picturing now »

Finì come i giorni precedenti, a chi gridava e cantava più forte tra i due. Arrivati a quel punto, Lance si era chiesto perché non lo zittissero fisicamente, riempiendolo di percosse come nei film, dove lui avrebbe stoicamente incassato, senza rivelare nulla. Non che ci fosse qualcosa da rendere noto, visto che nessuno si era davvero accorto di chi fosse.

« Andiamo, non c’è niente da fare qui, non siete manco amichevoli, sto morendo di noia! E poi non sono così terribile a cantare! Se vuoi posso fischiettarti qualcos’altro, o se mi fai schiarire per bene la voce ti dedico una canzone intera »

La guardia ormai era lungi dall’essere presa in contropiede da quelle uscite. Abbatté di nuovo il manganello contro le sbarre, ringhiando.

« Non sei qui per divertirti! Ma per essere giustiziato! »

Lance si stiracchiò, sbadigliando.

« Se aspettate ancora un po’ o mi troverete freddo per amor proprio o qualcuno mi verrà a tirare fuori »

Fu il turno della sentinella di ghignarsela.

« Sono passati quasi tre mesi da quando sei qui e nessuno ha fatto un fiato per te. Non sei un membro della resistenza così importante, signor Han Solo »

Lance roteò gli occhi, ormai non più così galvanizzato dall’essere chiamato col nome di Harrison Ford in Star Wars. All’inizio era stato divertente; la cattura, qualche tortura tutto sommato sopportabile, l’aver dato quell’identità fittizia. Ma dopo così tanti giorni che continuavano a chiamarlo così, gli era venuto a noia pure quello.

« Facciamo così. Io ti svelo la mia vera identità e tu ti vai a vantare con i tuoi colleghi e poi mi porti un po’ di food goo decente e magari due o tre di quei bei frutti maturi che si mangiava il tuo capo l’ultima volta, che dici? Magari mi lasci anche usare il bagno fuori dall’orario delle docce comuni; credo mi si sia bloccata la crescita con quello che ho visto del prigioniero in fondo al corridoio, brr. Ti va un affare? »

Il discorso non aveva impressionato minimamente la guardia.

« Sentiamo, chi saresti in realtà? »

Lance si schiarì la gola, poggiando poi il palmo aperto della mano destra sul petto con fare solenne.

« Mi chiamo Lance McClain, ed ero una matricola della Garrison Galaxy, classe dei pilota Fighter! Mi piace il mare, le ragazze e divertirmi con gli amici. In una vita passata sono stato il Paladino Blu e ho guidato sia il Blu Lion che il Red Lion. Ora ho una vita fatta più di complotti ai danni dell’Impero e missioni umanitarie ai popoli che opprimete. Ma in generale tiro a campare come tutti, in questo schifo di regime »

Lance e la guardia si guardarono dritti in faccia, prima che a quest’ultima iniziasse a tremolare la bocca e scoppiasse a ridere fragorosamente.

« Questa è buona, prigioniero! Non sei poi tanto male a raccontare storielle! Prima dici di essere l’intrepido Han Solo, un contrabbandiere a cui un certo Jabba dà la caccia, ora invece saresti uno dei cinque paladini di Voltron? » e si piegò in due per sfogare le risa, lasciando Lance un cipiglio di disappunto.

« Be’, almeno ora so che sei capace di ridere, almeno. Ma ti sto dicendo la verità »

« Sì sì, certo… e io sono il Principe Lotor, in esilio e in combutta contro mio padre l’Imperatore Zarkon »

« … »

« Cosa c’è, paladino blu, anche io non posso essere qualcuno di famoso? »

« Punto primo, ti mancano minimo tre chilometri di capelli tenuti ordinati in maniera maniacale. Capisci che non è magia quando trovi il bagno occupato per tre ore. E secondo, sei molto più simpatico di quel voltagabbana musone »

« Ah sì, certo, essendo tu il paladino blu, hai conosciuto il Traditore dell’Impero, giusto? Quattro anni fa era così disperato da combattere al fianco di Voltron, per poi sparire di nuovo quando il nostro Imperatore ha trionfato. Sei proprio sicuro di volerti spacciare per il paladino blu? »

Lance sospirò, voltando la testa dall’altra parte. La guarda non gli credeva e, in fondo, era un vantaggio, perché avrebbe potuto peggiorare la sua posizione di parecchio. Ma quello che era iniziato come uno scherzo stava iniziando a pesargli dentro con ricordi indesiderati. Era tanto che non rivangava il passato, quanto era successo quattro anni prima, la sconfitta e l’inizio di quella vita nell’ombra. Era troppo tempo che non sentiva nominare Lotor e non ripensava a lui, a dove fosse finito. Non che gli importasse sapere come stesse, anche se dubitava se la cavasse male, considerando le mie e più risorse e il suo carattere spietato, ma per un breve periodo, in passato, Lance aveva finito col vederlo come uno di loro, l’unico che forse, se lo avessero ascoltato, sarebbe stato in grado di impedire quanto successo.

Con uno sbuffo e colpendosi la fronte con un calmo per far uscire quel pensiero e i troppi se e ma che aveva imparato a tacitare negli anni, Lance tornò a guardare fisso la guardia, con serietà, ma senza aggiungere nulla.

« Be’? Ti sei ingoiato la lingua? Non hai altre storielle carine da raccontare? »

Lance fece un gesto vago, come a scacciare una mosca, prima di stendersi sul letto con le braccia incrociate dietro la testa.

« No, credo mi metterò di nuovo a cantare. En cadenas vivir es vivir… »

« Per fortuna non dovrò ascoltarti ancora per molto »

« Mh? Finalmente mi trasferite in qualcuna delle vostre Arene? Sarà la volta buona che metterò su un po’ di muscoli anche io… » borbottò Lance fissando il soffitto, distratto da sprazzi di memoria indesiderata.

La guardia non replicò e dal silenzio Lance pensò, poso interessato, che se ne fosse andata. Quando a rispondergli fu un’altra voce, conosciuta e totalmente inaspettata, l’ex paladino iniziò a preoccuparsi sul serio per la prima volta da quando era stato arrestato.

« La sentinella intendeva che è stata decisa la data della tua esecuzione, kitty… o Han Solo, come preferisci farti chiamare ora. Non ci credevo quando mi hanno mostrato la tua foto tra i prigionieri e qui e nessuno ti ha riconosciuto. Ormai siete finiti nel dimenticatoio »

Lance balzò a sedere, fissando con la più totale incredulità la figura oltre le sbarre.

« Tu-- » sussurrò, alla ricerca di un nome da dare a quel volto, ma tra lo sbigottimento e una cascata di pensieri poco promettenti non riuscì a farselo tornare in mente. « Sei-- eri una dei Generali di Lotor »

« Ezor, kitty. E ti sei dimenticato che non lavoro per lui da quando ci ha tradite? » disse stringendo le labbra e appuntandosi le mani ai fianchi.

Lance deglutì, guardando ai lati delle sbarre ma senza scorgere nessun altro. Si alzò, facendosi più vicino per abbassare il tono di voce.

« Che cosa ci fai qui!? Siamo in un posto dimenticato da… da chiunque! »

Ezor sbuffò.

« Quando sei un’ibrida etichettata come complice di un traditore, non è che ti mandano a controllare prigioni di alta classe! Puoi chiamarlo caso, o destino »

« Destino? » e Lance la fissò senza capire.

Lei sorrise, un sorriso che sarebbe stato bene addosso a un angioletto.

« Potrei avvalorare la tua dichiarazione di prima sulla tua vera identità, paladino, e mandarti direttamente dai druidi della Strega per farti torturare… »

Il colorito di Lance, contro il suo volere, si fece pallido, mentre lui afferrava le sbarre per avere qualcosa da stringere.

« … ma so che non hai idea di dove si trovi il Blue Lion e mi dispiacerebbe pensare al tuo faccino sfigurato dagli artigli della Strega. Per questo lascerò che l’esecuzione decisa per te proceda senza intoppi. Avrai una fine veloce e niente più pensieri »

« Aspett-! Ehi! Non andartene! »

« Tieniti pronto, kitty! Sarà finita prima ancora che te ne accorga! »

E gli fece l’occhiolino, prima di andarsene.


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