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Cow-t, quinta settimana, M1
Prompt: Colpo di scena
Numero Parole: 2003
Rating: SAFE
The Reality Between Us
a.k.a. See what I’ve become
Successe senza preavviso. Stava tornando sui suoi passi, anche se non si era tolto il casco. Aveva intenzione di uscire di nuovo con Red per andare a cercare Shiro. Doveva essere da qualche parte, non poteva essere sparito nel nulla in quel modo. Ma era anche stanco. La disperazione, l’insonnia, l’angoscia lo stavano logorando. Continuava a litigare con tutti, a diventare ancora di più quel lupo solitario che tanto gli recriminavano. Cosa avrebbe dovuto fare? Arrendersi? Era questa la risposta da dare agli altri per farli stare buoni?
Non esisteva.
Shiro non si era mai arreso con lui, anche quando la gente gli aveva ripetuto fino alla nausea Keith è un caso perso.
Lui avrebbe continuato a cercarlo fino a trovarlo. Avrebbero dovuto legarlo, ma anche in quel caso avrebbe lottato, avrebbe morso se necessario.
Si rendeva conto di star grattando il fondo. Allura, Coran, perfino Pidge avevano tentato di farlo ragionare. Per quanto potesse ascoltarli, anche essere in parte d’accordo con le loro motivazioni, il punto rimaneva che non avrebbe mai potuto abbandonare Shiro.
Fosse anche morto.
Avrebbe riportato il suo cadavere.
Ma finché non c’era un corpo, allora Shiro doveva essere sopravvissuto. Non poteva credere altrimenti.
Tuttavia, il destino aveva in serbo qualcosa anche per lui. Qualcosa di più grande che non avrebbe mai e poi mai potuto prevedere.
Pensava sarebbe accaduto durante una missione.
Qualcosa del tipo un colpo, un dolore improvviso e lancinante, il buio. Morto.
Non ci furono colpi, né dolori. O meglio, il dolore venne dopo il buio. Un buio senza gravità, denso, e poi pieno di colori, strisce di colori, o forse luci, girandole così veloci e vorticanti che lo stomaco gli salì in gola e poi scese in basso violentemente.
Quando sbatté in terra, il grido soffocato fino a quel momento gli sfuggì dalle labbra in un lamento. Si accorse di non aver respirato; il cervello ricalibrò il sotto e il sopra ma le sinapsi trasmisero solo altro dolore pungente, un bruciore che arrivò dagli occhi, come se fosse rimasto sott’acqua a sguardo sgranato.
Si tolse il casco con movimenti scoordinati. Ansimò con la bocca spalancata, respirando aria come fossero state sorsate. Era carponi per terra, puntellato sugli avambracci, scossi da tremori, ma prima che potesse cedere del tutto due grosse mani lo trassero verso l’alto. Rimase instabile sui piedi per qualche secondo, ma poco dopo, stretto in un abbraccio, l’equilibrio non fu più necessario.
«Keith!»
Le braccia che lo circondavano finirono con svuotarlo di nuovo di aria, ma l’odore, la voce, gli scorci catturati dallo sguardo annebbiato del paladino rosso, erano famigliari.
«Mi soffochi» biascicò Keith, impotente e allo stremo. «Hunk, lasciami.»
Lasciarlo andare non fu del tutto una buona idea. Barcollò, ma le stesse mani che lo avevano tirato in piedi tornarono a sorreggerlo. Furono la prima cosa bizzarra che Keith notò. Le braccia di Hunk erano del solito colorito bruno, ma c’erano delle cicatrici ad attraversarle, molte, davvero brutte, lì dove le maniche finivano e prima che iniziassero i guanti. Non ricordava di averle mai viste.
«Cosa ti è successo?» domandò, alzando lo sguardo. E il respiro, di nuovo, gli morì dentro. Strinse le dita su quelle stesse braccia, ma non fu per reggersi.
Hunk era diverso. Molto diverso. Sempre lui ma… invecchiato. Era più grande. Più maturo. Le spalle erano larghe, l’addome compatto, i capelli più lunghi e c’era un accenno di barba che terminava in un pizzetto.
Keith allontanò le mani di scatto e fece un passo indietro, nonostante muovere qualsiasi muscolo gli facesse male.
La domanda chi sei nacque spontanea e altrettanto spontaneamente morì in gola. Con un movimento rapido si tastò la parte bassa della schiena e trovò la confortante presenza del proprio pugnale nella fodera. Le dita si strinsero intorno all’impugnatura.
«Ehi, calma Keith. Sono io.»
Hunk alzò i palmi in maniera inoffensiva e sorrise indulgente, ma Keith continuò a non sentirsi pronto a credergli. Nulla gli dava sentore di pericolo, se non il fatto stesso che non fosse l’Hunk che conosceva. L’Hunk che dall’interfono aveva appena chiamato la squadra a rapporto per la cena, fermandolo dall’uscire di nuovo in ricognizione.
Keith fece un ulteriore passo indietro, ampliando la propria visuale, nonostante i contorni apparissero ancora sfocati.
La sala era famigliare. Era una di quelle del Castello dei Leoni, anche se appariva spenta e usurata. Le luci che la illuminavano non facevano parte dell’impianto originale, ma erano fissata alle pareti e diversi cavi correvano ovunque, attaccati anche a macchinari che non aveva mai visto e che non sembravano tecnologia alteana.
La sensazione di essere completamente fuori posto fu più prepotente. Non sapeva come descriverla, ma non riusciva a liberarsi dall’idea che fosse tutto sbagliato.
«Ehi, Keith, ascolta. Ti sembrerà strano ma va tutto bene. Non proprio alla grande, ma sei arrivato qui intero. Con tutti gli arti! E dalle scansioni pare che tu non abbia lesioni interne, il che è un grande wow per noi. E per te, ovvio, perché, sì appunto, sei intero.»
«Che diavolo stai dicendo?» sbottò Keith e non si preoccupò di suonare brusco, né che fosse più un’accusa che una domanda, e neanche di aver estratto il pugnale.
Persino la reazione di Hunk fu famigliare; il trasalire, stringendosi nelle spalle, ancora con i palmi alti. E poi ci fu uno sbuffo impaziente alle spalle del paladino giallo, il rumore di qualcosa posato poco delicatamente sul pavimento e l’apparire di Pidge dalle spalle di Hunk.
Braccia incrociate e sguardo contrito. Una coda alta di capelli disordinati, una silhouette slanciata, con delle curve di cui Keith non aveva mai ipotizzato l’esistenza, e una cicatrice che attraversava l’occhio destro. Come se non fosse stato abbastanza, si rese conto che la pupilla conservava di umano solo l’apparenza.
«Facciamola breve» sbottò Pidge, regalando al paladino rosso uno sguardo significativo da capo a piedi, mentre la sua protesi oculare sembrava registrare dati su dati. «Hai appena fatto un viaggio nel tempo. Il primo viaggio nel tempo in assoluto. È probabile che vomiterai qualsiasi cosa mangerai nelle prossime ventiquattro ore. Ti faremo altri esami per constatare il livello delle radiazioni, anche se il fatto che tu sia intero e che non mostri segni di organi spappolati è già un ottimo traguardo.»
«Sei un mostro di insensibilità» la ammonì Hunk con un sospiro, mani sui fianchi, e lo stesso tono che avrebbe potuto usare per dire che capodanno capitava di Sabato e Lunedì già si tornava a lavorare.
La ragazza fece spallucce.
«Diamoci una mossa. Facciamo questi test e spegniamo tutto prima che qualcuno venga a ficcanasare» disse voltandosi e tornando ai suoi terminali, scavalcando la moltitudine di cavi che correvano come radici per tutta la stanza.
«Rettifico, sei tremenda, sul serio. Perché “ficcanasare”? Siamo tutti d’accordo, no? Oh, aspetta, intendi i bambini?»
«Ah-ah, sì, esatto, i bambini» borbottò Pidge con un gesto vago, il volto illuminato dalla schermata su cui sfrecciavano stringhe di codice.
Keith continuò a non capire nulla, anche se la presa sul pugnale si fece più fiacca.
Viaggio nel tempo. La frase gli rimbombò nei timpani, ma senza riuscire a fare breccia in un pensiero concreto.
Non era semplicemente possibile. Aveva appena litigato con Lance, e neanche un’ora prima aveva discusso con Coran, Allura, Hunk e Pidge - quelli veri - sulla necessità di esplorare il relitto di una nave galra in cerca di indizi su dove potesse essere finito Shiro dopo l’ultima battaglia contro Zarkon.
Poteva ancora sentire Lance borbottare nelle proprie orecchie, ne aveva quasi l’eco in testa.
Si diede un’altra occhiata febbrile intorno.
Non era nell’hangar di Red, ma era il Castello, non aveva dubbi. Era diverso, come Hunk e Pidge, ma il design lo stesso. Il pavimento aveva delle crepe e zone aggiustate, le pareti non più immacolate ma come se fossero passati degli anni e nessuno se ne fosse preso cura.
«… metti via il pugnale, dai. Non mi piace parlarti mentre hai quel coso in mano.» La voce di Hunk arrivò vicina e Keith alzò l’arma di scatto.
«Stai indietro!» Non intendeva essere così brusco, perché la familiarità gli diceva che era Hunk, ma la tachicardia non accennava a smorzarsi.
L’altro paladino si fece indietro con un verso sorpreso, ancora sulla difensiva.
«Hunk, usa le maniere forti e stendilo» mugugnò Pidge, continuando a trafficare con i computer.
«Cosa? No! È sottoshock. Io sarei sottoshock dopo un viaggio simile. E tu non sei d’aiuto.»
«Come ti pare, ma ricordati che è Keith. Puoi anche non essere gentile.»
«Non è quel Keith. Non ancora. Credo. Da che linea tempor- Ehi! Keith fermo!»
Hunk alla fine ricorse alle maniere forti per impedire al paladino rosso di fiondarsi fuori dalla stanza. Con una presa molto più forte di quella che ricordasse, Keith si ritrovò di nuovo al centro della stanza, con un nuovo moto di nausea a indebolirlo mentre la rabbia per essere sballottolato a quel modo gli intimava di reagire.
«Senti Hunk, facciamola finita e legalo. Non abbiamo tempo per le sue lagne.»
«Voglio che si senta a suo agio! Se riuscissimo a calmarlo sarebbe più semplice spiegargli tutto! Ma così non-»
«E da dove vorresti iniziare? Dall’incidente di Silnova o dalla battaglia di Xarfen? No aspetta, ci sono! Digli direttamente di Nova Marmora.»
«Pidge! Ma perché sei così? Lui non è Keith!» ma con uno sbuffo, e senza accorgersi di tenere ancora stretto il paladino rosso, Hunk si voltò verso di lui, abbozzando una smorfia che voleva essere un sorriso rassicurante. «Senza offesa, sei Keith. Di prima, intendo. Passato, presente… ci si confonde un po’!» ridacchiò, ma senza allegria.
Keith era pallido per il malessere e per quei botta e risposta con cui la storia del viaggio nel tempo si stava concretizzando. Stava tentando di sottrarsi dalla manona di Hunk, ma lo sforzo gli faceva girare la testa.
«Mi serve che stia fermo» era tornata a insistere Pidge, col tic-tic dei tasti premuti che risuonava fastidioso.
«Se solo provassi a essere più gentile!»
«Non sarò gentile, amichevole né buona con lui! Mettitelo in testa!»
«Ma che stai dicendo? Lo abbiamo portato qui per farci aiutare!»
Ma la più giovane degli Holt non replicò, trincerandosi in un silenzio più pesante di qualsiasi altra risposta malevola. Un mutismo che aiutò Hunk a interpretare quel suo essere indisposta.
«Non ci credo! Lo hai fatto… lo hai fatto per l’altro motivo! Avevi giurato!» tuonò il maggiore e Keith rabbrividì nella propria pelle. Questa volta, chi aveva di fronte, non era per nulla l’Hunk suo compagno. «Sei la solita egoista!»
Le dita di Pidge si arrestarono, tese e rigide sopra la tastiera. Il suo sguardo lampeggiava furia, come il leggero tremito del suo corpo. Parlò, ma sembrò urlare. «Ho giurato prima che Matt finisse in una medi-pod per colpa di quello stronzo! Poteva finire di distruggere questa merda di universo, non me ne frega un cazzo, ma non doveva toccare- Matt-» faceva fatica a respirare dalla rabbia e il suo volto era così stravolto che Keith non riuscì a riconoscerla. «Quindi sì, l’ho portato qui per il primo motivo per cui abbiamo costruito tutto questo!» e con uno scatto delle braccia indicò l’intera sala, che alla vista vacillante del paladino rosso acquisiva i connotati di un laboratorio a tutti gli effetti. «Scusa se ho assecondato il piano b e non me ne frega niente se fuori di qui lo ammazzeranno. Anzi, sai cosa? Spero che sopravviva abbastanza per soffrire come noi in questi anni!»
Hunk era sconvolto e non si accorse di come Keith stesse scivolando a terra, avvinto dai postumi del viaggio temporale e dalla cattiveria nelle affermazioni di Pidge. Non aveva la forza di ribattere o chiedere spiegazioni. Di difendersi da qualsiasi accusa gli stessero muovendo. Voleva solo ritrovare Shiro. Aveva bisogno di un viso amico.
E fu la sua voce che zittì Hunk e Pidge. La voce di Shiro, dalla soglia della stanza, turbata e sconcertata, roca.
«Che cosa avete fatto...» e non fu una domanda.
Ma agli occhi stanchi di Keith, per il suo cuore provato, anche quello Shiro… non era il suo Shiro.