Mar. 26th, 2022

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COW-T 12, sesta settimana, M5
Prompt: Neve
Numero parole: 1000
Rating: Verde
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Note


Era una notte bellissima. Una di quelle che chiunque avrebbe volentieri passato insieme alla persona amata. Per Vanitas era vero a metà, con una vena fatta un po’ di nostalgia e un po’ di amara accettazione. 

Non era un desiderio così lontano dalla realtà, alla fine. Le circostanze, tuttavia, rendevano i contorni di quella cartolina affilati, col rischio di tagliarsi e insozzarne la bellezza, quindi andava bene così.

Vanitas respirò piano dalla bocca, osservando la condensa biancastra formarsi come una piccola nuvola contro il cielo nero, puntinato da stelle mobili e che cadevano dolcemente verso terra.

Aveva iniziato a nevicare da un’oretta. Fiocchi piccoli ma tenaci che stavano cominciando ad accumularsi negli angoli più freddi.

Non che ci fosse un posto caldo al di fuori delle case e dei palazzi di Parigi, ma l’unico tepore di cui Vanitas sentisse il bisogno era all’altezza del proprio petto e stava bene così, in cima al tetto dell’albergo dove lui e Noé avevano iniziato tutto.

Era stata lunga, ma come qualsiasi attesa finì.

“Vani!”

Il richiamo che stava aspettando riecheggiò nella silenziosa volta notturna. Era tardi, anche per essere la notte di Natale. Le celebrazioni erano finite da diverso tempo e quello sprazzo di vita ruppe la quiete. Per il diretto interessato fu la campana a festa, solo per lui, che non era ancora suonata quella notte.

Noé balzò sul tetto di fretta, perdendosi il cappello e recuperandolo in modo distratto prima che cadesse. I suoi occhi brillarono cercando solo il compagno. La distanza durò l’attimo di un solo respiro, portato via da un bacio urgente.

“Sei tornato presto” scherzò Vanitas, restando placido, armonizzato alla quiete della Parigi dormiente. Noé era invece un fascio di nervi e col bisogno di condensare tutto insieme il tempo che aveva passato lontano.

“Non sarei dovuto andare” si recriminò, tenendo il viso del compagno tra le mani come una coppa da cui abbeverarsi, sentendosi non dissimile da un viaggiatore sopravvissuto a un deserto. “Mai più. La prossima volta-”

Vanitas rise, interrompendolo. Noé non capì, sbattendo disorientato le palpebre.

“Perché ridi?” e lo tradusse a parole. Aveva la faccia di un bambino lasciato in un angolo a osservare un mondo che non comprendeva - un mondo bellissimo - anche quando, ormai, era certo di avere la maggior parte dei segreti dell’erede del vampiro blu custoditi nel cuore.

“La prossima volta” ripeté Vanitas, ripetendo le stesse parole. “Saremo noi a dare un ricevimento di Natale, se ci andrà.”

Il cuore di Noé fece un balzo nel petto, non tanto per la promessa, ma per l’espressione felina con cui Vanitas gli stava promettendo tante cose tra le righe.

“Ovviamente deciderò io chi invitare” aggiunse il moretto, mentre si stringeva nelle braccia, abbassando lo sguardo sul proprio petto. “E l’unica assistente che voglio è Lou.”

Sotto gli strati di vestiti e cappotto che indossava, nessuno avrebbe potuto intuire che ci fosse una bimba di appena tre mesi, placidamente addormentata con i pugnetti che ogni tanto stringevano la camicia leggera di Vanitas. La piccola restò addormentata, anche quando Noé fu sull’orlo di un pianto dirotto per cui il suo viso si era deformato in maniera buffa. Come ogni volta che guardava la figlia. 

“Non dovevo andare” ripeté con un sospiro mortificato il vampiro, osservando la piccolina, ma senza osare toccarla, come fosse una penitenza autoinflitta - oltre a non volerla svegliare.

“Se non fossi andato, Domi sarebbe venuta a prenderti di peso. Con un altro collare magari” sospirò Vanitas, stanco di quella lagna e di ripetersi. Ne avevano parlato fino allo sfinimento fino a due giorni prima, quando Noé era tornato ad Altus per il Natale sfarzoso delle famiglie nobili. “Finché non ci saremo stabilizzati, e finché non saremo sicuri, Lou rimane un segreto e dobbiamo mantenere le apparenze. Sei fortunato che Domi l’abbia capito bene.”

Non che andasse bene a nessuno di loro, ma lo avevano accettato. La piccola perla di calore che dormiva contro il proprio petto era tutto ciò che contava e la sua incolumità veniva prima di qualsiasi capriccio.

“Noi siamo stati bene” aggiunse il medico dei vampiri, con un sorriso sincero che sperò placasse le fisime del compagno. E in parte fu così, anche se la malinconia e il senso di colpa di Noé persistettero, finché un pensiero non si intrufolò nella sua mente, facendogli corrugare la fronte.

“Non dovevate essere con Roland e Olivier?” domandò, come se avesse realizzato solo in quel momento dove si trovassero. Quando era tornato non ci aveva pensato due volte e aveva seguito l’istinto - e il profumo di Vanitas - precipitandosi in albergo e sul tetto.

Vanitas sbuffò, stringendo un braccio intorno a Lou sulla difensiva.

“L’avete deciso voi che dovevamo assistere alla messa, mica io” sbottò stizzito. “Me la sono svignata appena è finita, ma lo so che Roland è qui intorno a fare la guardia come gli hai chiesto. Posso sentire Olivier borbottare come una teiera. Tzé.”

Tendendo l’udito - perché, fino a quel momento, ogni senso di Noé era stato catalizzato solo da Vanitas e dalla loro bambina - sentì in effetti lo chasseurs dabasso, ridacchiare insieme al compare Olivier, decisamente più stizzito di trovarsi lì a quell’ora e con quel freddo.

“Devo andare a fare loro gli auguri di Natale” pensò il vampiro a voce alta, scattando in piedi.

Vanitas fu sul punto di commentare, ma se lo tenne per sé. Sospirò.

“Sbrigati e poi torna qui” disse, riprendendo a fissare il cielo e la neve che cadeva. 

C’erano piccoli fiocchi ad adornargli i capelli d’inchiostro, ma la sensazione che preferiva era quella dei cristalli che si posavano sul viso e si scioglievano. Non capiva perché, ma gli ricordavano le carezze di Luna, nonostante le sue dita avessero sempre avuto una temperatura neutra. In notti come quella aveva la sensazione di averla ancora accanto ed era un’emozione che non voleva far scivolare via.

Come sentire le labbra di Noé sulle proprie e i suoi occhi nei suoi.

“Aspettami.”

“Sempre.” 


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COW-T 12, sesta settimana, M5
Prompt: Cascata
Numero parole: 1112
Rating: Verde
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Note: ispirata ad ATOCAD della socia (Ode To Joy)



Non avrebbero negato di essere di nuovo scappati.

Lo avrebbero rifatto altre dici, cento volte, se avessero potuto. Ogni volta fosse stato necessario - e la necessità era allontanarsi da quel mondo soffocante e che imponeva loro di incarnare qualcosa o qualcuno che non sempre si sentivano di interpretare.

Tooru amava essere un Re e Hajime era fiero del proprio ruolo come Primo Cavaliere.

Nessuno avrebbe potuto privarli di questo orgoglio verso ciò che, da un lato, erano stati destinati a essere, dall’altro, avevano ottenuto passo dopo passo.

Semplicemente, c’erano giornate in cui la burocrazia soffocava Tooru al punto da spingerlo ad afferrarsi la corona e gettarla in un angolo; o c’erano giorni in cui Hajime sentiva più forte i bisbigli dei nobili ricordargli quanto fosse solo un fortunato brutto anatroccolo in una corte che era stata magnanima ad accoglierlo.

In entrambi i casi, l’unico sollievo a quella stretta alla gola era trovarsi. Con la mente, con le mani.

E decidere, con una sola occhiata, di scappare.

Per poche ore, per pochi respiri da condividere lontani da tutto e tutti nel loro posto speciale.

Alla loro cascata.



“A volte penso che dovremmo costruire una piccola casa qui.”

Tooru passò le dita tra i capelli del proprio cavaliere, umidi dell’acqua della sorgente e scompigliati per il piacere appena consumato.

“Niente di complesso. Una stanza grande… anzi, due stanze. Porteremo le provviste di volta in volta, insieme alla biancheria del letto, al cambio e alla legna per il camino… ma potremmo venire qui anche quando piove e fare l’amore all’asciutto, mentre una tempesta infuria intorno a noi. Ti guarderei costruirla e sarebbe bellissimo.”

Hajime emise un sospiro che a metà si trasformò in uno sbuffo. Era esasperato, ma anche divertito.

“Era una bella idea, finché non sei arrivato alla parte in cui a faticare sono solo io.”

“Non vorrai che qualcun altro venga qui a profanare il nostro posto segreto, no? Non posso ingaggiare una squadra di falegnami e portarli qui!” lo riprese Tooru, crucciando lo sguardo mentre fissava le stelle di quella notte tersa, ascoltando il suono della cascata che li cullava.

“E poi io sono un Re. Rovinarmi le mani è fuori discussione.” 

Tooru passò le dita lungo tutta la schiena dell’amante, anche dove gli aveva lasciato qualche segno rosso, aggrappandosi alle sue spalle mentre esistevano solo loro e il bisogno del piacere. 

“Aggiungerei che guardarti faticare è uno dei miei passatemi preferiti. Mi accende così tanti pensieri lascivi che potresti chiedermi qualunque cosa…” continuò, per poi ridimensionarsi.

“Quasi qualunque cosa.”

Quasi?

Tooru si schiarì la gola, come a voler mettere subito via suddetti pensieri lascivi.

“Esiste sempre un barlume di decenza da rispettare.”

Hajime si alzò sui gomiti, fissando il suo Re con un’espressione ironica e sfacciata.

“Ma se io ti costruissi questa casetta, tu poi faresti tutto quello che ti chiederei?”

Tooru abbandonò le stelle per guardare negli occhi Iwachan - alla fine, la sensazione ultima era la stessa.

“Una casetta in legno qui alla cascata in cambio di un desiderio” soppesò. “Possiamo parlamentare."

Il cavaliere gli solleticò un fianco, lì dove sapeva che avrebbe potuto riaccendere quel lato lascivo appena nominato. Il Re Demone si morse il labbro inferiore, ma non scostò lo sguardo.

“Non mi sembra uno scambio così equo” replicò Hajime, ma senza imprimere al tono quella nota contrariata, tutt’altro. Era roco, morbido, e Tooru si impose di interpretare come una suggestione del recente amplesso il fatto che potesse far divampare di nuovo la voglia di averlo dopo appena pochi minuti.

“Un Re che si concede per realizzare un desiderio. Cosa ci può essere di più… più-!”

Tooru perse le parole perché Hajime gliele soffocò in bocca con un bacio. Non si fermò a quello, nell’invertire le posizioni e far sistemare il demone a cavalcioni sopra di sé, tenendo le loro dita intrecciate.

“Ti stai approfittando di me. Rude, Iwa-chan” lamentò Tooru ansando sulle labbra del compagno, che lo spinse gentilmente verso la propria eccitazione. Inarcando la schiena e liberando un gemito che solo il cielo e la cascata testimoniarono, il Re Demone tornò a essere una cosa sola col proprio Primo Cavaliere.

Si strinsero le mani a vicende, rinfornzando quel vincolo mentre la carne rispondeva agli impulsi e i cuori tentavano di scardinare le gabbie in cui erano confinati.

“H-Hajime…”

“Sono qui. Sarò sempre qui…”

Lo disse mentre si tirava su e stringeva tra le braccia ciò che di più prezioso la vita gli aveva dato da proteggere.

Gemettero, si chiamarono, si tolsero il fiato di baci, mentre i loro corpi generavano piacere come se avessero potuto creare un’altra stella, una loro, una che fosse la somma di tutto quell’amore che troppo spesso non riuscivano a tradurre a parole.

Tooru chiuse le mani sul viso dell’amante, senza mai fermarsi, ma guardandolo con la volontà di imprimersi ogni dettaglio, e ognuno di questi era un tassello da amare.

“Che cosa desideri, mio Cavaliere?” chiese, premendogli il viso contro la guancia, sentendo il calore montargli nel basso ventre come le onde di un maremoto. “Che cosa posso concederti che ancora non ti ho dato?”

Hajime ansimò e scelse l’attimo prima dell’orgasmo per sussurrargli all’orecchio poche sillabe. Una manciata di suoni che solo loro potevano tradurre. 

Il Re Demone non fu neanche certo che fossero più parole, ma più vicine a un desiderio, che suonò come una promessa. Qualcosa che lo commosse - diede colpa alla seconda ondata di piacere e alla stanchezza - e che lo portò a frignare abbracciando il proprio Primo Cavaliere, senza permettergli di distriscarsi e rimanendo uniti - nel tentativo di realizzare da subito quella richiesta. 

“R-Rude, I-Iwa-chan” lamentò, stringendolo tanto da poterlo strozzare.

“Sei la solita lagna, non ti sta mai bene niente” sospirò Hajime, lasciandosi scivolare di nuovo sulla veste che avevano steso in terra, troppo provato per poterli reggere entrambi. Nonostante questo, neanche lui fece niente per separarsi dal demone a cui, alla fine, aveva donato metà della propria anima, promesso la propria vita e affidato il proprio cuore.

Le regole non giocavano a loro favore. Il mondo intero non li vedeva per ciò che semplicemente erano. Eppure, questo non aveva impedito a entrambi di stringere più forte la presa e continuare a resistere e restare l’uno al fianco dell’altro, al di là delle incomprensioni, delle parole che restavano sospese, dell’orgoglio.

Una modesta casetta lì, nel loro posto speciale, sulle rive della cascata che da sempre aveva custodito i loro momenti più importanti, sarebbe stato un bel sogno. Tuttavia, la verità risiedeva in qualcosa di ancora più semplice.

In un desiderio che suonava come una promessa.

Per sempre


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COW-T 12, sesta settimana, M5
Prompt: Neve
Numero parole: 582
Rating: Verde
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Note



Il dormiveglia in cui Vanitas versava si interruppe per colpa di uno starnuto. Un suo starnuto. 

Come la mente riprese possesso della consapevolezza, così lo fecero i sensi e il freddo pungente della notte morse le guance al ragazzo, insieme ai minuscoli fiocchi di neve.

Mugugnando contrariato, si stropicciò gli occhi e si rannicchiò meglio, cercando un po’ di calore nonostante tutto il suo corpo fosse intirizzito. Sbuffò, osservando il respiro condensarsi e mettendo su un broncio sconsolato che nessuno avrebbe potuto contestargli.

Non voleva rientrare in camera, ma fu ragionevole nel constatare che non potesse neanche dormire sul tetto e rischiare l’assideramento. Strusciò la guancia contro l’interno del cappuccio, cercando ancora un po’ di tepore, ma ottenne solo il pizzicore gelido di un fiocco di neve sulla punta del naso. E un nuovo starnuto che lo fece smuovere. 

Calarsi dal tetto e aprire la finestra della stanza fu semplice anche con le tegole sdrucciolevoli e le parti in metallo del tetto così fredde da bruciare. Riuscì a fare anche poco casino, o almeno quei rumori per cui i sensi assopiti di Noé non si sarebbero svegliati di soprassalto. Era una routine consolidata la loro, finché Vanitas non urtava per sbaglio qualcosa, mettendo in allerta il vampiro e finendo col ricevere un cuscino in faccia.

Successe qualcos’altro.

Qualcosa per cui prima gli prese un colpo, poi realizzò.

Ma, per l’appunto, all’inizio, quasi cacciò un urlo.

Noé lo afferrò per un braccio, così repentinamente e al buio che il cuore di Vanitas sprofondò nello stomaco. Era già pronto a graffiarlo con il proprio guanto - e urlargli contro - quando si rese conto che il vampiro era ancora profondamente immerso nel mondo dei sogni.

Fu una scena comica, quanto tragica.

Il corpo di Noé era sporto dal letto e sembrava reggersi in equilibrio per miracolo, pochi centimetri e sarebbe finito sul pavimento - se, per esempio, Vanitas si fosse liberato con uno strattone.

Non lo fece, restando invece a fissare il compagno di avventure con un’espressione indecifrabile - guardandosi allo specchio si sarebbe compatito da solo - e indecisa.

C’erano vari modi per cui quella scena, quasi un siparietto comico, si sarebbe potuto concludere.

Vanitas scelse quello che non gli passò per la testa, ma che svicolò da più in basso, da un petto che stava battendo più forte di quanto avrebbe dovuto.

Con un poco di sforzo, ma anche con delicatezza, fece riscivolare Noé all’interno del letto e ci salì a propria volta. Le molle cigolarono appena, disturbando il manto silenzioso portato dalla neve oltre le imposte.

Vanitas percepiva ancora il freddo, sapeva di avere la pelle mezza congelata, e probabilmente l’idea - l’immagine - che aveva in testa avrebbe spezzato quel breve segreto che si stava formando, ma preferì continuare a dare retta all’istinto che stava parlando direttamente a quei sentimenti burloni.

Scostando le coperte, si stese di fianco a Noé e gli appoggiò la fronte contro la schiena.

Era bollente. O almeno, la sensazione fu quella, anche quando appoggiò i palmi, per sentire quel calore pervaderlo.

Noé mugugnò qualcosa, ma non si scostò. Vanitas lo prese come un silenzioso - e del tutto inconsapevole - assenso, e gli circondò la vita con un braccio, accostandosi a lui del tutto.

Il tepore che ne sbocciò fu meglio di qualsiasi ninna nanna avesse mai potuto accompagnarlo nel sonno. Si sarebbe solo dovuto svegliare per primo per non dover dare alcuna spiegazione, ma fu un pensiero che si perse nel sonno. 


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COW-T 12, sesta settimana, M5
Prompt: Oscurità
Numero parole: 1006
Rating: Verde
Warning: //
Note: cose indefinite 




Avevano stretto un patto, ma quella notte entrambi stavano giocando col fuoco.

Entrambi lo erano. Fiamme con tonalità diverse.

C’era un’ironia di fondo, marcia, che rideva nell’ombra - come se lui fosse ancora lì a farsi beffe di un mondo tenuto all’oscuro, che non aveva minimamente intuito che cosa avesse avuto intenzione di fare. O quando tutto fosse cominciato. O perché.



La prima volta che Chuuya aveva incontrato Oda Sakunosuke dopo l’accaduto gli erano state chiare diverse cose, nessuna davvero con un senso se non l’intuizione base che combaciassero anche senza avere bordi precisi, definiti da una spiegazione. Aveva imprecato, bestemmiato, aveva insultato quel rivale, quel Boss che non era più che un nome ormai. Dazai non esisteva più in una forma fisica per poter essere picchiato e per fargli passare la voglia di giocare con la vita della gente, anche - soprattutto - dopo il suo suicidio.

Era troppo tardi e Chuuya non si era accorto di nulla. Non aveva capito un cazzo.

La verità era arrivata dopo.

Per bocca del White Reaper, così traumatizzato che riuscire a cavargli di bocca qualcosa senza ucciderlo era stata un’impresa.

Dal racconto di quel pulcino nero letale dell’Agenzia, incapace anche lui di scendere nei dettagli. Dettagli che, alla fine, si nascondevano nelle pieghe di tutto ciò che era rimasto taciuto.

Chuuya aveva dovuto indagare per conto proprio per formulare un’ipotesi quanto più vicina a dargli pace.

Aveva frugato in note confuse, appunti a margine di documenti che parlavano di altre vite, di altri mondi, di altri sé.

E poi quel nome, ripetuto in solitaria, scritto dove nessuno lo avrebbe cercato, ma ovunque per essere trovato.

Odasaku.

Odasaku.

Odasaku. Odasaku. Odasaku.

Un’ossessione.

Un quadro rubato. La morte di Mori. Il ragazzo tigre.

A Chuuya era venuto il vomito a comprendere quanto in profondità le radici di quella follia affondassero. Come Dazai avesse non previsto, ma orchestrato ogni singolo giorno delle loro vite da anni, anni, anni. Erano stati pedine su una scacchiera costantemente tirata a lucido, eppure immersa nell’oscurità. Ogni mossa, ogni pedone mangiato, ogni pezzo conquistato non era stato un caso.

E la cosa più terrificante era che Dazai aveva avuto come avversario solo se stesso.

Non c’erano altri antagonisti in quella storia. Più scavava, più Chuuya comprendeva di avere avuto al fianco, per sette anni, una persona che non conosceva davvero.

Per questo aveva cercato il Re per cui tutte quelle mosse erano state realizzate.

L’unico pezzo bianco sulla scacchiera.

Il solo che avesse avuto reale valore agli occhi di Dazai.

La persona per cui si era lasciato cadere nel vuoto dal palazzo più alto della Port Mafia.

Odasaku.



Anche Odasaku lo aveva cercato.

O meglio, aveva cercato delle risposte a quel miasma oscuro che era seguito al singolo incontro avuto con Dazai Osamu al Bar Lupin.

Qualcosa si era incrinato, ma non se ne era accorto.

Aveva sentito dell’odio per quel Boss che si era seduto di fianco a lui chiamandolo con una familiarità fuori luogo - con una disperazione e una felicità miscelate in uno sguardo tremante.

Qualche ora dopo era morto. Aveva terminato la propria esistenza. 

Dopo aver voluto bere un’ultima volta con lui, uno sconosciuto.

Ma più Odasaku riguardava quel coccio di ricordo recente, più aveva la sensazione che da qualche parte ci fosse un vaso rotto, e che la colpa fosse anche sua, ma non aveva idea di dove cercare gli altri pezzi per rimetterlo insieme e capire.

Essere un detective nell’Agenzia di punta della città aveva i suoi vantaggi, soprattutto quando si aveva bisogno di affondare le mani nella melma dei bassifondi.

Quello che non si era aspettato di incontrare erano due occhi come i suoi, un po’ più chiari, in caccia di verità come lui.

Nakahara Chuuya, il braccio destro del Boss suicida.

Con tante domande quante le sue.

Con delle risposte macchiate da anni di sangue e ombre.

Ciò che entrambi non avevano calcolato era come l’uno stesse cercando nell’altro lo stesso fantasma.

Che Dazai avesse previsto o meno l’incontro di quelle fiamme, l’incendio divampò senza che se ne rendessero conto.



Chuuya aveva posto poche condizioni e Odasaku le aveva accettate.

Non avrebbero parlato.

Non avrebbero mai detto, per nessuna ragione, il suo nome.

Tutto sarebbe nato e morto nell’oscurità di una stanza.

Sarebbe bastato un messaggio, un luogo, sempre diverso, e prima dell’alba ognuno sarebbe tornato alla sua vita.

Il tutto mentre quella forma inconsistente, eppure permanente, che aveva assunto Dazai sarebbe rimasta a fissarli - dal fondo delle loro anime, dagli angoli negli specchi dove non guardavano, nei respiri che si toglievano a vicenda.

Chuuya aveva imparato a riconoscere gli spigoli del viso e del corpo di Odasaku e Odasaku aveva compreso presto quanto Chuuya potesse essere possessivo anche solo per una notte.

Non c’erano ruoli, non c’era clemenza e non c’era decenza. Quello che volevano se lo prendevano l’uno dall’altro.

Dazai avrebbe voluto lasciare una parte di sé sulle labbra di Odasaku e Chuuya le torturava di morsi ringhiando a quello stronzo morto che gli stava bene non averle. Odasaku subiva, per poi prendersi tutto ciò che il corpo di Chuuya poteva offrirgli, nel tentativo di arrivare più vicino a quello sconosciuto che aveva pronunciato il suo nome rendendolo una maledizione echeggiante.

Erano diventate due bestie assetate di rimpianti che non sarebbero mai state capaci di dissetarsi, non finché avessero continuato a ringhiarsi nel buio, come due randagi che si litigavano un osso. 

Dazai si era tolto dall’equazione, eppure ogni sospiro, ogni tocco, ogni morso, ogni urlo invocavano la sua presenza. 

Troppo tardi

Troppo tardi. 

Troppo tardi. 

Era l’unica cosa che rimbombava in quelle stanze sempre diverse. 

Insieme ai se, rintocchi così nitidi da ferire le orecchie. 

Era soltanto una storia con un fine scritto in calce, ma nessuno dei personaggi se ne era accorto. 

E continuavano a brancolare nelle profondità della notte, senza neanche più chiedersi che forma avesse la luce. 


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COW-T 12, sesta settimana, M5
Prompt: Ghiaccio
Numero parole: 1026
Rating: Verde
Warning: //
Note: ot3 Kaitou/Ran/Shinichi



Shinichi starnutì e, per l'ennesima volta, ripensò a che pessima idea fosse stata. Fissò le schiene delle due persone che lo avevano trascinato lontano dal calduccio del suo salotto e del suo libro giallo. Era impossibile odiarli davvero, ma detestarli un pochino e continuare a tenere il muso lungo era un suo sacrosanto diritto.

“Dicono che tra un’ora ci saranno i fuochi d’artificio! Potremmo vederli dalla pista!” si esaltò Ran, tornando dal detective con in mano i biglietti per la tortura a cui volevano sopporto. 

“Wow, come se non li avessimo mai visti” bofonchiò Shinichi, cercando di mantenere il broncio anche quando Ran gli si strinse a un braccio e sentì la morbidezza del suo seno attraverso gli strati di vestiti e giacca. 

“Però non li abbiamo mai visti tutti e tre insieme!” puntualizzò Kaitou, appendendosi all’altro suo braccio e portandosi a davvero un solo centimetro dal suo viso. “Se non conti le volte in cui io facevo i colpi, tu mi rincorrevi sullo skateboard e Ran-chan si preoccupava che tu non tornassi con qualche osso rotto. Qualche fuoco d’artificio c’è stato…” aggiunse sottovoce, con un ghignetto perfido. 

Rosso in viso, Shinichi lo guardò malissimo, accostandosi di più alla ragazza, cercando una sorta di rifugio. 

“Sei pessimo.” 

“Dico solo alla verità, no?” e la frecciatina fu palesissima. 

“Smettetela di litigare” sbuffò Ran. “Siamo arrivati!” 

E davanti a loro si estendeva la pista da pattinaggio, già occupata da una discreta folla di gente, adulti e bambini, tutti chiacchierini o urlanti. 

“… perché siamo venuti?” si lamentò ancora Shinichi, infilandosi i pattini di malavoglia. “Fa un freddo cane…”

“Perché stavi facendo la muffa sul divano” intervenì Kaitou, dandogli una pacca sulla schiena che rischiò di mandarlo lungo mentre saggiava il ghiaccio con la lama. Ran impedì che finisse per terra, sospirando. 

“Perché non facciamo mai niente tutti e tre insieme! Voi due siete sempre impegnati con i vostri… hobby” definì, guadagnandosi due occhiate non contente quasi identiche, ma che ricambiò con uno sguardo che avrebbe potuto mangiarli. “E io sono stanca di avere sempre buca!” 

“Motivo per cui la Principessa mi ha pagato in natura per sequestrarti il cellulare e spegnertelo” aggiunse Kaitou, mostrando la refurtiva e facendo sobbalzare Shinichi, che si tastò le tasche, constatando che no, non aveva più il telefono. 

“Che intendi dire con pagato in natura!?” sbraitò invece, arrossendo e guardando male i due. Anche Ran divenne vagamente rosa. 

“Oh, andiamo, gliel’ho solo chiesto per favore…” 

“Con un bacio” finì Kaitou, picchiettandosi le labbra con un dito. “È stata molto persuasiva.”

Shinichi era sconvolto e tradito. Mise di nuovo il muso lungo, incrociando le braccia e facendosi solo trascinare sulla pista, scivolando sul ghiaccio come un gatto restio imbrigiato in un collare con guinzaglio. 

“Il Re fa il difficile” cantilenò Kaitou, piroettando intorno ai due. 

“Volevamo solo rilassarci e stare tutti e tre insieme, senza che qualcuno ti chiami per un omicidio… una volta tanto” cercò di spiegarsi Ran, abbattuta nel tono. Shinichi le lanciò un’occhiata, finché non si sgonfiò. 

“Basta che mi chiedi di spegnere il cellulare, senza che lui se ne approfitti.” 

“Ricevere un bacio dalla propria ragazza è approfittarsene?” ribatté il ladro, finalmente pensoso. “Puoi compensare dandomene uno anche tu.” 

“Non è questo il punto!” sbuffò Shinichi, bloccando Kaitou dal continuare a girargli loro intorno come la colomba che era, ma divenne rosso, in evidente imbarazzo per quello che avrebbe voluto dire.

“Sì?” lo incalzò Kaitou, sbattendo serafico le palpebre.

“... non lasciatemi fuori da queste cose” borbottò così piano che si perse nelle urla dei bambini, ma il ladro leggeva - e amava - benissimo le labbra. 

“Oh, anche il piccolo Re vuole partecipare ai pagamenti in natura!” 

Shinichi sbuffò esasperato. 

“Con te è tutto sempre all’estrempfhhh” 

E bacio fu, mentre Ran ridacchiava, stringendosi di nuovo al braccio di Shinichi. Il suo colorito stava per arrivare al viola. 

Cosa diavolo fai!?” sbottò rischiando di strozzarsi con le proprie parole, portandosi le mani sul volto in un imbarazzo tale che sarebbe caduto seduto sul ghiaccio, se non fosse stato per Ran. 

“Compenso” ridacchiò Kaitou, portandosi le braccia dietro la testa. “Sembrava ne avessi bisogno. Così siamo a due baci pari per me. Ora potreste essere voi a ricambiare?” 

“Non siamo venuti qui per pattinare e vedere i fuochi?” sviò Shinichi guardando altrove e passandosi le dita sulla bocca senza rendersene davvero conto. 

“Già” convenne Ran, staccandosi per scivolare un po’ sul ghiaccio, senza smetterli di fissarli. “Dopo potremmo andare a prenderci una cioccolata calda, che dite?” 

“Oh!” la raggiunse Kaitou, prendendole una mano e facendole fare una giravolta. “Quindi questo è un appuntamento serio serio! Quindi i baci alla fine, sul portico di casa?” 

Le guance della ragazza erano di un bel rosa acceso che ricordava i petali di un fiore. 

“Lo fai sembrare un telefilm!” 

“L’importante è che non mi dici di no” e le fece l’occhiolino, per poi tornare a guardare il suo detective. “Ti unisci a noi o hai bisogno di un altro incentivo? Sono molto bravo anche con le palpate, oltre ai baci!” 

Shinichi li raggiunse roteando gli occhi al cielo. 

“Tieni le mani a posto e smettila di frugare nelle mie tasche.” 

“Non c’è più niente che potrei prenderti lì” puntualizzò il ladro, mostrando a palmi aperti che gli aveva già fregato anche il portafoglio, le chiavi e un pacchetto di fazzoletti. 

Il giovane detective fissò le proprie cose e gli regalò uno sguardo esasperato, mentre la ragazza nascondeva una nuova risatina.

“Qualsiasi cosa dirai” lo precedette Kaitou, prima che Shinichi formulasse un pensiero. “Io ti risponderò che ti ho rubato il cuore e non puoi farci niente.” 

“Ma non sai mai quando smetterla di parlare?!” chiese il detective, ritrovandosi di nuovo a distogliere lo sguardo mentre sentiva ancora le guance scaldarsi. Non avrebbe mai potuto davvero provare freddo di quel passo, anche se si fosse sdraiato sul ghiaccio. 

“È più forte di me vedere che effetto ti fa!” 

“Siete impossibili” li riprese Ran, prendendogli entrambi sottobraccio e avvicinandoli a sé. “Basta chiacchiere! Voglio pattinare e poi trovare un bel posto per i fuochi!” 

“Ai suoi ordini, Principessa!” 

Shinichi non riuscì a non sorridere e lasciarsi trascinare. 


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COW-T 12, sesta settimana, M5
Prompt: Pioggia
Numero parole: 1049
Rating: Verde
Warning: //
Note: per Europa91



Nelle orecchie di Verlaine riecheggiano solo parole - suoni incomprensibili col brusio di una radio sintonizzata male, già ricordi anche se tutto è appena finito.

L’unico odore che ancora si sente addosso è quello delle esplosioni, acre e bruciante, e quello della morte, così freddo da togliere il fiato.

Vedere… vede il grigiore oltre la finestra, indistinto, piegato dal vento e dalla pioggia.

E poi un peso tra le braccia, la follia per cui ha distrutto quel poco che ha costruito, ma che vale ogni singolo battito di cuore.

In fine, una voce, ma non la sua. L’unica che sarebbe dovuta esserci.

Non è rimasto solo.

“Paul… non ci inseguono più. Puoi lasciarlo andare.”

C’è una mano sulla sua spalla, ma Verlaine la percepisce solo dopo aver ascoltato quel suono reale e presente.

Non la registrazione nella sua mente, quell’Arthur confuso e addolorato, pronto a combatterlo.

Eppure le cose non sono andate come aveva creduto, anche se il sapore in bocca è persistente nell’essere amaro.

Verlaine sposta l’attenzione dalla finestra al compagno e la realtà, pian piano, riacquista consistenza e peso, torna a essere vera.

Come se qualcuno, a un certo punto, si fosse stancato della pellicola, tagliando dove faceva male e incollando il seguito di un’altra bobina.

Paul non ha idea di cosa vedrà da quel momento in poi e se potrà crederci.

Quando stringe le dita, sente il camice fradicio del bambino che hanno rapito. Abbassando gli occhi, nota i capelli rossi sporchi di fango e polvere, eppure quella creatura ha un’espressione quasi serena.

“Dobbiamo asciugarlo” dice e fatica a riconoscere la propria voce, che gli scoppia nelle orecchie come una delle granate che hanno evitato durante la fuga, facendogli stringere di riflesso quel mucchietto fragile di ossa e carne denutrita.

“Vieni, c’è un bagno.”

Rimbaud è lì ma Verlaine ha il cuore così pesante che non riesce a metterlo a fuoco davvero.

Hanno litigato.

Si sono urlati contro, si sono minacciati.

Eppure, sono entrambi lì, e Paul non capisce com’è successo. Cerca i propri demoni, senza capire dove siano scivolati il suo risentimento, la sua solitudine, il suo odio per essere nato. Sono stati compagni di viaggio per mesi, anni, eppure lui ora si trova in una stazione che non conosce.

Con l’unica persona che però conti davvero.

E tra le mani quella speranza di sentirsi compreso almeno da un altro mostro.



“C’è una brutta tempesta fuori” dice Rimbaud, osservando dalla finestra dell’appartamento dove si sono rifugiati la pioggia che infuria. “Questo ci aiuterà a far perdere le nostre tracce.”

Verlaine è seduto sul bordo della vasca con ancora i vestiti sfatti. Lo ascolta, ma non ha spazio per pensare a qualcosa che non sia il bambino ai suoi piedi, imbacuccato in strati di asciugamani, ancora privo di sensi ma pulito della sozzura del mondo e degli esperimenti.

Paul ne osserva la pelle diafana, così poco avvezza al sole, e i capelli che hanno riacquistato la loro intensità. Non ha ancora visto gli occhi, ma non riesce a non immaginarli simili ai propri.

“Se ci troveranno li distruggerò” risponde piano, senza riflettere. 

Aveva un’idea, non un piano. Ora gli servirebbe averne uno, gli confida piano la mente, ma il cuore continua a tenere le redini della situazione. E continua a battere come un tamburo per rintronarlo con quanto ogni cosa importante che ha sia ancora lì con lui.

Verlaine alza lo sguardo su Rimbaud. Si squadrano e c’è un muro trasparente che sanno di dover abbattere, prima che si realizzi ciò che hanno appena scampato.

“Tu non eri d’accordo.”

Verlaine non ha paura. Non è scritto nel suo codice di provarla, probabilmente. Lo affronta apertamente, perché ogni cosa si giocherà lì in quel bagno sconosciuto, con testimone un cielo che piange. 

“Perché alla fine…”

Mi hai seguito. Mi hai assecondato. Mi hai capito.

Sarebbero dovute essere domande, ma ormai sono anche una realtà tangibile.

“Sei un traditore, ma puoi ancora rimediare e venderci all’Europa.”

La possibilità è lì, costituisce quel muro. Rimbaud potrebbe ancora sorprenderlo, metterlo con le spalle al muro e portare via l’esperimento A5158. Tornare sui binari e abbandonarlo lì, folle dei suoi desideri - di non essere solo, di non sentirsi diverso, di voler essere umano, almeno un po’.

Arthur resta con le mani in vista e non fa movimenti sospetti, se non voltarsi verso di lui e lui soltanto.

“Sei più importante” dice ed è il tono che conta, perché è scarno di tutto ciò che non è verità. “E io non ho capito cosa ti si agita dentro, se siamo arrivati a questo punto.”

Non abbassa lo sguardo, ma le spalle sì.

Paul vede la sua stanchezza e il suo arrendersi. Potrebbe attaccarlo in quel momento e di una delle migliori spie europee non rimarrebbe nulla.

Questo lo spinge ad alzarsi.

A5158 è importante. È ciò che non lo rende più solo al mondo.

Tuttavia, Rimbaud è la persona che gli ha dato un nome.

E ci ha provato a essere qualcosa di più simile a una famiglia.

Ora lo vede, senza più la foschia della solitudine e il cicaleccio del pensieri.

I gesti e le parole e il cappello in dono hanno cambiato luce e Paul ha una piccola epifania per ciò che potevano essere e che lui ha travisato.

Alza una mano e Arthur fa un passo indietro, contro il muro, reagendo appena - Paul deve avere un aspetto terribile per spaventarlo, coi capelli sciolti e gocciolanti, e lo sguardo spalancato affamato di quella realtà che sembra impossibile.

Non fa altro che appoggiargli le dita sulla guancia. Piano. Polpastrelli che tastano, saggiano la pelle e mandano un semplice impulso al cervello.

È reale.

È qui.

Non mi ha tradito.

Verlaine ha difficoltà con i gesti. Può spezzare un tronco con un dito, piegare un palo solo appoggiandocisi, distruggere un palazzo con un calcio.

Eppure, quando abbraccia - ed è il primo abbraccio della sua vita - ha così paura di spezzare Arthur, la realtà e i propri sentimenti, che ci si abbandona e il compagno è costretto a reggerlo, anche se entrambi finiscono con lo scivolare sul pavimento.

La pioggia ha finalmente la possibilità di riempire il silenzio assordante con la propria presenza, e Verlaine ha un sospiro rotto in gola e solo dita tremanti per affrontare quel cambio improvviso in cui non aveva osato sperare.

Non è rimasto solo. 


April 2025

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