Mar. 7th, 2020

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Cow-t, quinta settimana, M4

Prompt: Storie in formati non convenzionali (diario)

Numero Parole: 1588

Rating: SAFE

Warning: //


Nota 1: Riferito agli eventi della Dark Era. Le date le ho inventate ops.  



Questo resoconto personale è stato richiesto dallo psicologo della Divisione per il Controllo delle Abilità Soprannaturali in relazione al mio incarico di infiltrato nella Port Mafia, Yokohama, degli ultimi tre anni. Pertanto, le informazioni riportate in questo documento non potranno ritenersi congrue per un rapporto ufficiale. A titolo informativo, nel caso queste dichiarazioni vengano impugnate nei miei confronti o nei confronti della Divisione, negherò ogni singola parola qui di seguito, attenendomi esclusivamente alla versione ufficiale depositata in data 28 Aprile dell’anno venti dell’era Heisei. Altresì, le dichiarazioni a carattere persone in questo documento non potranno essere oggetto di argomentazione sul mio operato e sono vincolate dal segreto professionale.


Il direttore Taneda mi ha ordinato cinque sedute extra presso lo psicologo della Divisione, ritenendo che i precedenti cinque incontri previsti dallo statuto interno non fossero abbastanza. 

Quanto seguirà è un resoconto sintetico degli eventi degli ultimi tre anni. Mi è stato richiesto di scrivere sotto forma di diario personale, ma non posso astenermi dalla realtà dei fatti. 


Il quattro Marzo dell’anno diciassette dell’era Heisei sono stato incaricato dal direttore Taneda di infiltrarmi nella Port Mafia per poterne monitorare i traffici e censire, dove e quando possibile, i membri attivi. 

L’attuale Boss della mafia, Mori Ogai, mi ha affidato sia compiti di spionaggio e intermediazione, sia, successivamente, su mia proposta, per adempiere allo scopo datomi dalla Divisione, di relazione dei principali intercorsi dell'organizzazione. Questo è stato possibile, e avallato, dalla mia abilità speciale “Discorso sulla Decadenza”, che mi ha permesso di redigere resoconti più accurati sia di traffici sia delle vite umane all’interno della mafia. 


In un documento attualmente secretato e di cui faccio menzione unicamente a scopo di completezza, perché relativo a un altro caso, è riportato il resoconto sulla mia infiltrazione, per ordine di Mori Ogai, all’interno dell’organizzazione europea di mercenari Mimic, rilevante per quanto segue. Per questioni di riservatezza non mi è concesso di parlare di questi eventi neanche in via personale, a causa di un mio coinvolgimento nel caso del soggetto dotato di poteri A5158. Tuttavia, come voluto dal Boss della mafia, sono diventato una spia anche per conto della Mimic, portando i miei incarichi di spionaggio a tre. 


In seguito, sono stato osservatore esterno di quanto avvenuto durante il Conflitto della Testa di Drago, dove ottantotto membri attivi della Port Mafia, incluso uno dei Dirigenti - conosciuto come “Il Colonnello” - hanno perso la vita. 

Di quanto segue, non ho prove tangibili per affermare che sia stato voluto da qualcuno o sia stata solo una sequenza di eventi casuali, ma durante le giornate di sangue del Conflitto sopra menzionato, ho conosciuto altri due componenti della Mafia. Dazai Osamu, attualmente scomparso, ex Dirigente della mafia, e Oda Sakunosuke, privo di un ruolo specifico nell’organizzazione. 


Ai fini del resoconto ufficiale mi trovo a nominare Dazai e Odasaku in quanto coinvolti nel teatro che ha portato alla conclusione del mio incarico come infiltrato. 


Quanto successo

Quanto segue

Gli eventi 


Non è facile scrivere queste righe. 

Prima di infiltrarmi sapevo unicamente che la Port Mafia fosse un’organizzazione capace di prevaricare le vite delle persone, di operare sporchi traffici a scopi egoistici e che il mio compito fosse quello di trovarne i punti deboli. 

Ho avuto mio malgrado il confronto con una realtà ben diversa, anche se il confine rimaneva macchiato di sangue. Nessuno mi aveva messo in guardia sul fattore umano. 

Con la mia abilità avrei dovuto aspettarmelo, ma sono stato cieco e mi sono ritrovato ad aprire gli occhi proprio toccando gli oggetti appartenenti a quanti morivano in quel giro di vite fatto di oscurità. 

Erano persone. Persone che sbagliavano, che soffrivano, che tentavano di difendere quel poco che la vita gli aveva dato. Mi sono ritrovato a fare i conti con me stesso su tutti quelli che fino a quel momento avevo ritenuto scarti della società. Ciò, tuttavia, era posto anche sul piano delle scelte personali, perché nondimeno anche quelle avevano valore. Il fatto che queste persone avessero scelto di porsi sotto l’ala oscura dell’organizzazione criminale e diventarne pedine, senza provare altrimenti. 

Mi chiedo dov’è che si possa intervenire in questo senso. Me lo sono domandato più volte durante questi anni sotto copertura, e mai avrei pensato che avrei parlato di argomenti simili proprio con due esponenti di quella stessa organizzazione che stavo spiando. 

Dazai e Odasaku. 

Il più alto rango e il più basso. 

Due visioni della vita antitetiche che si rincorrevano, quando avrebbero solo dovuto trovarsi.

Lo dico con amarezza. 

Il senso di colpa che ho nei confronti di entrambi temo sia il motivo per cui il direttore Taneda ha richiesto queste sedute supplementari. 

Mi sono sempre ritenuto una persona in grado di stimare i sentimenti e metterli da parte quando necessario. Ho intenzione di continuare il mio lavoro nella Divisione e utilizzare le informazioni ottenute in questi anni senza farmi coinvolgere da alcuna emotività. 

Tuttavia, concluso l’orario di lavoro, quando è sera, mi trovo colto da una nostalgia da pensieri non richiesti. 

Avevamo un punto di ritrovo, con Dazai e Odasaku. Era un posto dove ci recavamo con la speranza insita che fosse “una di quelle serate”, come dicevamo. Lo erano più spesso di quanto ci accorgevamo. A volte non eravamo tutti e tre, a volte eravamo in due, eppure la compagnia era sempre gradita, un argomento veniva sempre fuori. Filosofia, storia, donne, abilità, scelte di vita. Non posso affermare di aver afferrato in pieno il pensiero o la vita di entrambi, ma è stato piacevole. 

So che avrei potuto. Mi sarebbe bastato sfiorare un oggetto appartenente a l’uno o all’altro, un semplice allungare la mano. Non l’ho mai fatto. Probabilmente per rispetto, non ne sono sicuro. Per quanto sia stata un’amicizia una conoscenza iniziata contro la mia volontà, era diventata anche il contrappeso al buco nero che era il mio incarico. Le serate passate con loro erano una zona grigia, neutra, in cui ero semplicemente Ango Sakaguchi, un uomo con i propri pensieri, il libero arbitrio, la possibilità di una conversazione dove potevo esprimere la mia. 

Ora sento solo i sensi di colpa


Ho concluso il mio incarico di infiltrato nella Port Mafia prima del previsto. Gli eventi sono precipitati. Dalla ricostruzione postuma è emerso che Mori Ogai tenesse le fila di ogni evento, confermando la sua pericolosità. 

L’ingresso della Mimic in Giappone e lo scontro con la Port Mafia non sono stati altro che mezzi per l’ottenimento del documento per l’uso delle abilità riconosciuto dal governo. Per quanto possa ammettere che il Boss della mafia sia stato scaltro e mi abbia usato come lama a doppio taglio, mettendo la mia vita in pericolo, l’unico pensiero che riesco a nutrire nei suoi confronti è la rabbia. Non provo alcuna ammirazione per come sia riuscito a rigirare ogni pedina nelle proprie mani. 

A causa sua, e conseguentemente mia, non essendomi accorto per tempo di essere stato usato, Oda Sakunosuke ha perso la vita. 

Dovrei pensare che era soltanto un uomo della mafia, che aveva scelto la propria strada in una organizzazione criminale. Non basta, perché è solo parte della verità. 

Odasaku era un uomo buono. Non mi importa di conoscerne il passato. Ho potuto intuire dalla sua persona che fosse oscuro, ma lui ne ha fatto la forza del proprio carattere. 

Una volta che eravamo solo noi due, Odasaku mi ha parlato del suo voler diventare un romanziere. Quella sera ho un po’ scherzato su questo desiderio così strano per un membro della mafia, ma ne abbiamo parlato fino a notte fonda con la leggerezza che solo una conversazione tra amici può dare. 

Non credo di essere ancora pronto a parlare anche di questo

In veste di funzionario governativo non avrei dovuto, ma ho portato dei fiori alla sua tomba qualche giorno fa. E questo mi fa pensare all’altra persona cui mi sono trovato mio malgrado coinvolto. 

Dazai Osamu. 

Non penso basterebbe una vita per afferrare in pieno il suo essere. È, mi trovo ad affermare, l’individuo più unico che abbia mai conosciuto. E ora non ho idea di dove sia. Ho trovato una foto sulla tomba di Odasaku. Una foto che ritraeva noi tre, l’ultima sera che siamo stati insieme. Una sera in cui le parole di Dazai sono state profetiche. Ho la sensazione che se non facciamo ora una foto, non ci sarà niente per dimostrare che siamo stati qui insieme

Mi chiedo dove sia ora e cosa sia successo. 

Ho delle ipotesi, ma sono più speranze che certezze. 

Vorrei chiedergli scusa. Vorrei 


Il mio lavoro non è qualcosa di facile, lo comprendo adesso dopo questi tre anni da infiltrato. 

Finché si è seduti a una scrivania, tutti i nomi sono numeri. Avevo l’idea che non fosse così già da prima, sempre per via della mia abilità, ma si trattava più di un pensiero senza concretezza. Quello che mi hanno insegnato tre anni nella Mafia, nel gradino più basso della società, è che non è così. Che il vero volto delle persone è sepolto sotto strati di paure, incertezze e commiserazioni, bugie e promesse. Non è facile. Ma sono esseri umani. Siamo esseri umani. 

Questo mi dà la spinta a impegnarmi ancora di più nella protezione di questo paese. Nel trovare una soluzione anche quando la via è avvolta dalle tenebre. 


Non sono sicuro di poter scrivere altro in questo resoconto per adesso. 

Potrei continuare a trarre conclusioni, ma non riescono a liberarmi del tutto la mente e rileggendo quanto scritto fino a ora trovo troppe parentesi aperte e punti non spiegati. 

Rimando alla seduta con lo psicologo altri pensieri. 



Ango Sakaguchi. 


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Cow-t, quinta settimana, M1

Prompt: Colpo di scena

Numero Parole: 1052

Rating: SAFE


Nota 1: ispirata a https://twitter.com/kumori_nochi123/status/1232710044002598913  




Le cose non cambiavano mai davvero. Potevano passare gli anni, ma a volte non ce ne si accorgeva. Succedevano casini, quelli non mancavano mai. Rovesciamenti di potere momentanei, nemici che sfondavano la metaforica porta di Yokohama e venivano a fare il bello e il cattivo tempo. Tuttavia, a conti fatti, sempre a una scrivania si finiva, a compilare rapporti, firmare verbali, approvare budget per ricostruzioni, rimborsi, scartoffie su merci varie e certificati per questo o quello. Insomma, a volte non importava che fino al giorno prima ci si era massacrati per le strade della città, si era rischiata l'apocalisse o la cancellazione del paese dalle mappe geografiche. Anche se si era un membro della Mafia - e in particolare uno dei Dirigenti - il dovere veniva prima di ogni altra cosa. 

Così, prossimo ai venticinque anni, ma dimostrandone ancora forse sedici o diciassette, Chuuya stava finendo di controllare l'ennesimo plico di documenti, con una penna tra le dita con cui giocherellava indolente e una tazza di caffè vuota che già faceva sentire la propria mancanza. 

E mentre stava apponendo la propria firma per approvare quanto aveva letto - tre volte per la noia, continuando a dimenticarsi cosa ci fosse scritto - un'ombra si proiettò sopra i fogli e sopra di lui. 

C'erano poche regole nel suo ufficio: mai entrare senza prima aver bussato, anche fosse in atto una rivolta; mai nominare Dazai per nessun motivo che non fosse questione di vita o di morte; mai ergersi sopra di lui. 

Tolta la clausola su Dazai, le altre due regole erano appena state ignorate del tutto. La penna nella mano di Chuuya rischiava di fare una pessima fine, anche se a entrare era stata Kouyou, accompagnata da qualcun altro di cui non riconobbe la voce. 

"Non fare quella faccia" disse la donna, ridendo da dietro la manica del kimono. "Puoi prenderti una pausa. Guarda chi è venuto a trovarti, ha insistito così tanto!" 

L'ultima persona al mondo che Chuuya poteva aspettarsi nel proprio ufficio era Dazai e, per fortuna, la persona in questione non era il suo ex partner. Ma se Dazai era all'ultimo posto, e a salire c'erano un po' tutti i membri dell'Agenzia, di certo sempre in fondo a quella ipotetica lista c'era anche quel "chi" che ora lo guardava dall'alto verso il basso. 

Già. Dall'alto verso il basso. Una costante nella vita di Chuuya. Ma in quel momento il pensiero passò in secondo piano. 

"È uno scherzo" si lasciò sfuggire, facendo cadere la penna sui documenti. 

"Ciao Chuuya" salutò il nuovo arrivato con una voce più profonda di quanto il Dirigente ricordasse, e che chiariva una volta per tutte diversi interrogativi pregressi. Gli anni passavano, alla fine. Se Chuuya era rimasto uguale, non si poteva dire lo stesso per altri. Come in quel caso. 

"Q!?" 

Il tono della voce con cui Chuuya lo chiamò era completamente esterrefatto. L'ultima volta che aveva visto il bambino (e doveva sottolineare bambino, perché ora era meno confondibile) era stato circa tre anni prima durante lo scontro con la Gilda. Da allora sapeva fosse stato prima rinchiuso e poi trasferito, ma non aveva indagato. 

Di certo non si aspettava di ritrovarselo davanti così cresciuto, soprattutto in altezza. E anche di carattere. Da come sembrava imbarazzato, Q dava l'idea di essere un'altra persona, anche se era difficile fidarsi. 

"Hai visto quanto è diventato? E alto?" ridacchiò ancora Kouyou, ripalesando la propria presenza e mettendo il dito nella piaga. "Potreste sembrare fratelli! Poi ora si controlla molto di più, non è vero, Yumeno-kun?" 

Q si grattò la nuca con le dita, assentendo, le gote rosse. 

Chuuya, nel mentre, non sapeva se essere spaventato o chiedersi se si fosse attivato il potere Dogra Magra e fosse tutta un'illusione. Non riusciva a pronunciarsi. 

"Avanti, digli perché sei qui." Kouyou incoraggiò il ragazzo a parlare e lui si schiarì la voce. 

"Ecco..." Q cercò con gli occhi quelli di Chuuya e il giovane uomo cercò di ricomporsi davanti al neo sedicenne. "Non ricordo molto dall'ultima volta che Mori-san mi ha permesso di uscire. So di aver creato molti problemi... ma ho saputo che siete stati tu e Dazai a salvarmi quella volta. Volevo ringraziarti" e lo disse con un inchino davvero molto profondo, quasi da fargli sbattere la fronte contro la scrivania. "Ho delle questioni in sospeso con Dazai e so che è ancora dalla parte del nemico... però con te, Chuuya-kun, posso sdebitarmi" proseguì il ragazzo con convinzione e una punta di allegria. Cosa che spiazzò ancora di più il Dirigente, tanto da farlo annuire con espressione smarrita, finché un'occhiata di Kouyou non lo riportò coi piedi per terra. 

"Dovere" gracchiò Chuuya, per poi schiarirsi la voce. "Sei... cresciuto davvero un sacco" aggiunse, ed era l'unico pensiero intelligente che gli venne. 

"Sì" annuì Q, ridacchiando, ma non con quella risatina tipica di qualcuno che ha dei secondi fini. Un riso più tranquillo e contento. "Mori-san ha trovato chi poteva aiutarmi e ora riesco a controllare meglio il mio potere... e la mia mente, soprattutto. Potrà essere d'aiuto!" 

"È... grandioso?"

Se a Chuuya avessero detto che Babbo Natale esisteva veramente forse sarebbe stato meno scioccato da tutto quell'incontro totalmente inaspettato e destabilizzante. Era un giorno qualsiasi, nessuno lo aveva preparato.

"Chuuya-san, vorrei offrirti un caffè!" continuò Q, speranzoso, guardandolo con quegli occhi e le pupille così particolari. 

"Io dovrei-" 

"Dovresti proprio prenderti una pausa dalle scartoffie!" esclamò Kouyou giuliva, spingendolo ad alzarsi quasi rovesciandolo dalla sedia. "Un caffè sarà un'ottima occasione per ricominciare! Avete tanto da raccontarvi!" 

Chuuya guardò la donna malissimo, sapendo che si stava divertendo come una volpe in quel teatrino surreale. Ma quando poi rialzò lo sguardo, ritrovò di nuovo Q a guardarlo con quella faccia nuova, più matura - era pur sempre nel pieno dell'adolescenza - ma anche molto meno inquietante di tre anni prima. Dava l'idea si essere proprio qualcun altro. Qualcun altro però che era cresciuto in altezza un po' troppo. 

Chuuya sbuffò, mettendosi il cappello e recuperando la giacca. Si avviò alla porta con Q alle calcagna, che si muoveva come se fosse stato ancora un ragazzino, ma con decisamente centimetri in abbondanza su braccia e gambe e risultando un po' invadente. 

"Dovreste smetterla di superarmi tutti in altezza, è frustrante" borbottò Chuuya, ma Q stava già raccontando la sua storia, senza prestargli ascolto.


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Cow-t, quinta settimana, M1

Prompt: Colpo di scena

Numero Parole: 702

Rating: SAFE


Note: alla fine.





Al Lupin Bar esistono solo serate tranquilla. La musica di sottofondo, gli avventori anonimi che fumano negli angoli della sala, il barista con un una espressione statica ma sempre cordiale, non importa la domanda, i discorsi, le promesse. 

Dazai scende la scalinata con un sorriso già preparato. Ha le mani nelle tasche del trench chiaro, un motivetto appena accennato a labbra chiuse e la tensione nelle spalle di chi non si sente padrone della situazione, ma dissimulata bene grazie ad anni di esperienza. 

"Yo, Odasaku!" saluta, passando dietro all'uomo e prendendo posto di fianco a lui. "Da quanto sei arrivato?" 

Odasaku poggia il whiskey con ghiaccio senza berlo. "Ho perso la cognizione del tempo" ammette con un'occhiata a nulla in particolare. 

"Avrai avuto la solita giornata impegnativa" ridacchia Dazai, ignorando il bicchiere che l'oste gli mette meccanicamente davanti. 

All'affermazione Odasaku replica facendo spallucce e prendendo un sorso del proprio drink. "Tu? Un altro caso all'Agenzia?" 

"Non mancano mai" cincischia Dazai, stiracchiandosi più per cercare di allentare l'irrigidimento dei muscoli che per reale stanchezza. "È sempre un treno in corso, ci si ferma raramente." 

"Non dovresti perdere tempo così allora" è il consiglio dell'altro, lanciandogli un'occhiata con la coda dell’occhio mentre continua a bere. 

"Nah, siamo nella fase in cui io non servo per adesso. Se la caveranno." 

Odasaku si volta a fissarlo apertamente con un'espressione così delle sue da fare male. Non aggiunge altro, fa spallucce, e Dazai tenta di riderne, ma fa solo un suono spezzato e molto lontano dall'allegria. 

"Dovresti stare più attento" riprende l’amico. "Tutto questo - e gli occhi spaziano il locale bloccato nel tempo - è una debolezza che potrebbero usare contro di te." 

"Stai parlando come avrebbe voluto Ango. Mi stai facendo la predica" replica Dazai con un sospiro. "Speravo potesse essere una delle nostre serate. E poi, anche se le proiezioni irrompessero dall'ingresso, mi proteggeresti, non è così?" 

Ancora una volta, con quell'innaturalezza portata avanti dal cercare di dare contorni netti ai ricordi, riempendo quei buchi di trama che Dazai si convince non possano esistere, perché sono memorie preziose e non vuole doverle mettere in dubbio, Odasaku lo fissa con un'espressione che sembra stampata da una fotografia, statica, sospesa in un momento che glitcha. Bloccata nel petto di Dazai, tanto da togliergli il respiro. 

Non replica. In realtà, non c'è bisogno di repliche. 

Quell'Odasaku, creato per metà dai ricordi, per un quarto dalla malinconia e per il resto dal desiderio, farà quello che il subconscio di Dazai gli ordinerà. 

Non agirà mai di propria volontà. Mai. Perché quello alla fine è un sogno. Un sogno simulato, il che riduce ancora di più le possibilità di speranza che soltanto uno spazio onirico genuino potrebbe regalargli. Ma tra il vivere di una menzogna che si infrangerà al mattino, aprendo gli occhi con un respiro sgretolato, e la menzogna data da un sogno simulato dove si possono comporre e vivere coscientemente i propri ricordi, Dazai ha scelto quest'ultima alternativa. Ha scelto di lasciare le briglie dell'inconscio e ricreare quello che non esiste più. 

Lo sa che sta lavorando. Lo sa che, oltre le porte del Lupin Bar, c'è un altro livello del sogno dove i suoi compagni stanno preparando tutto il necessario per la fase successiva. Tuttavia, il desiderio di essere lì, in quello spazio che potrebbe implodere su se stesso da un momento all'altro, fagocitando anche quella brutta copia di Odasaku, è più forte. 

"Dazai-san?" 

Atsushi appare in cima alle scale. Non è più titubante come la prima volta che è venuto a chiamare il proprio mentore. Ormai anche lui conosce quell'illusione. "Siamo pronti." Non può esimersi dal lanciare un'occhiata a Odasaku e fargli un cenno di saluto. Atsushi è troppo ben educato e timoroso verso i ricordi di Dazai. Ha un che di rispettoso e dolce. 

"Uffa, avete fatto prima del previsto" sbuffa Dazai, alzandosi in piedi, di nuovo le mani nelle tasche del trench, come se fosse stato seduto alla fermata dell'autobus e non nel suo posto preferito di sempre. 

Supera di nuovo Odasaku e solo quando è davanti al primo gradino per andarsene si gira verso di lui. "La prossima volta chiacchieriamo di qualcosa di più piacevole." 

Odasaku non può fare altro che annuire.



Noticina conclusiva: solo per dire che ho preso ispirazione da Inception. La base è sempre Bungo, ma con la tecnologia di Inception. 


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Cow-t, quinta settimana, M1

Prompt: Colpo di scena

Numero Parole: 674

Rating: SAFE 



Per un attimo Mori rimane a fissare la siringa che ha tra le dita. Un attimo sospeso nel tempo, come se si fosse appena accorto di essersi dimenticato qualcosa. 

"Mori-sensei?" 

La voce è di un paziente. 

"Ah sì, ecco l'iniezione" dice il medicastro con una punta di allegria non richiesta. Il tutto dura pochi secondi, così pochi che il paziente se ne va senza neanche che Mori ne afferri il volto. Di solito imputa questa distrazione alla stanchezza: vede una quantità innumerevole di persone in alcuni giorni che è difficile trovare in ognuna qualcosa da ricordare. Per lo più sono disadattati sociali, gente che scappa dalle proprie vite o per la propria vita, che gli chiede una gentilezza e lui è generoso, soprattutto nello scucire chiacchiere interessanti che possano tornargli utili. 

Solo che quel giorno - è giorno? - ha una strana leggerezza in testa, più l'idea che gli stia sfuggendo un particolare. 

"Mori-sensei." 

Di nuovo il suo nome. Fa ruotare lo sgabello su cui è seduto per trovarsi faccia a faccia con chi lo ha chiamato. È Fukuzawa. È appoggiato alla parete dell'ambulatorio con le braccia incrociate. C'è qualcosa di strano e nuovo in lui. Non ha la sciarpa, i capelli sono più lunghi, il kimono è diverso. L'aria di maturità è più accentuata, intrigante ma allo stesso tempo lo sta giudica neanche troppo in modo sottile. 

"Fukuzawa-dono! Pensavo ci vedessimo per cena!" esclama Mori, allargando le braccia con brio. Non sa perché lo ha detto, ma è convinto che sia così, non ricorda neanche che appuntamenti abbia per quel giorno in realtà. 

Fukuzawa è una statua nella postura e nell'espressione, che ora il medicastro avverte più ostile di prima. Ostilità che diventa concreta quando l'ex assassino mette mano all'elsa della spada e la brandisce. 

Mori scatta in piedi in un baleno. La lama non incide la zona esposta della sua gola per un soffio, ma lui cade all'indietro. Non atterra sul pavimento, ma su un letto, su coperte pregiate, sormontate da un baldacchino. 

"Mori-san?" 

Mori è disorientato, ma l'attenzione si catalizza lo stesso su chi lo sta chiamando. Dazai è in piedi di fianco al letto. Non è più un ragazzino, è un uomo adulto, con i suoi nuovi vestiti più chiari, quegli abiti che si è scelto per ricominciare. È lì, con un bisturi in mano, in quella stanza che Mori conosce fin troppo bene, perché è tutto cominciato così. 

"Lo sa che prima o poi succederà, vero? Si raccoglie ciò che si semina." 

La voce di Dazai è miele mescolato con arsenico. Alza la mano in cui ha il bisturi e il fendente è secco e preciso. Il sangue imbratta le pareti e Mori non riesce neanche a muoversi, vede solo lo sguardo di Dazai, reso rosso da una luna vermiglia. 



Mori spalanca gli occhi con un brivido, portandosi una mano alla gola. Non c'è alcuna ferita. La sensazione poi che ha non è più quella di sospensione, leggerezza, anzi, si sente pesante, e madido di sudore. Si accorge di essere nel proprio studio, seduto sulla poltrona con la vista su Yokohama. Il sole è quasi tramontato del tutto; di fianco ha un tè che è diventato freddo e una partita a scacchi in stallo. 

Nella stanza è da solo e da un lato preferisce. È un momento di debolezza. Si è addormentato e ha lasciato che l'inconscio diventasse padrone della sua mente ed è finito nella sua trappola, senza riconoscerla. 

Con un respiro profondo, riprende il controllo, ma la sensazione spiacevole, i volti di Fukuzawa e Dazai, restano impressi sul fondo della sua mente, come le ditate su un vetro che puoi scorgere solo alitandoci sopra. 

Sa che è qualcosa di cui non si libererà mai, un po' per realismo e un po' per decisione personale. Tuttavia, l'ultima cosa che si aspetta è essere aggredito così da se stesso su scelte che ha compiuto con cognizione di causa. 

Si volta verso la scacchiera e, con una schicchera moderata, fa cadere un alfiere bianco, riaffermando il proprio controllo sulla situazione. 


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Cow-t, quinta settimana, M1

Prompt: Colpo di scena

Numero Parole: 2003

Rating: SAFE




The Reality Between Us

a.k.a. See what I’ve become




Successe senza preavviso. Stava tornando sui suoi passi, anche se non si era tolto il casco. Aveva intenzione di uscire di nuovo con Red per andare a cercare Shiro. Doveva essere da qualche parte, non poteva essere sparito nel nulla in quel modo. Ma era anche stanco. La disperazione, l’insonnia, l’angoscia lo stavano logorando. Continuava a litigare con tutti, a diventare ancora di più quel lupo solitario che tanto gli recriminavano. Cosa avrebbe dovuto fare? Arrendersi? Era questa la risposta da dare agli altri per farli stare buoni? 

Non esisteva.
Shiro non si era mai arreso con lui, anche quando la gente gli aveva ripetuto fino alla nausea Keith è un caso perso

Lui avrebbe continuato a cercarlo fino a trovarlo. Avrebbero dovuto legarlo, ma anche in quel caso avrebbe lottato, avrebbe morso se necessario. 

Si rendeva conto di star grattando il fondo. Allura, Coran, perfino Pidge avevano tentato di farlo ragionare. Per quanto potesse ascoltarli, anche essere in parte d’accordo con le loro motivazioni, il punto rimaneva che non avrebbe mai potuto abbandonare Shiro. 

Fosse anche morto. 

Avrebbe riportato il suo cadavere. 

Ma finché non c’era un corpo, allora Shiro doveva essere sopravvissuto. Non poteva credere altrimenti. 

Tuttavia, il destino aveva in serbo qualcosa anche per lui. Qualcosa di più grande che non avrebbe mai e poi mai potuto prevedere. 



Pensava sarebbe accaduto durante una missione. 

Qualcosa del tipo un colpo, un dolore improvviso e lancinante, il buio. Morto. 

Non ci furono colpi, né dolori. O meglio, il dolore venne dopo il buio. Un buio senza gravità, denso, e poi pieno di colori, strisce di colori, o forse luci, girandole così veloci e vorticanti che lo stomaco gli salì in gola e poi scese in basso violentemente. 

Quando sbatté in terra, il grido soffocato fino a quel momento gli sfuggì dalle labbra in un lamento. Si accorse di non aver respirato; il cervello ricalibrò il sotto e il sopra ma le sinapsi trasmisero solo altro dolore pungente, un bruciore che arrivò dagli occhi, come se fosse rimasto sott’acqua a sguardo sgranato. 

Si tolse il casco con movimenti scoordinati. Ansimò con la bocca spalancata, respirando aria come fossero state sorsate. Era carponi per terra, puntellato sugli avambracci, scossi da tremori, ma prima che potesse cedere del tutto due grosse mani lo trassero verso l’alto. Rimase instabile sui piedi per qualche secondo, ma poco dopo, stretto in un abbraccio, l’equilibrio non fu più necessario. 

«Keith!» 

Le braccia che lo circondavano finirono con svuotarlo di nuovo di aria, ma l’odore, la voce, gli scorci catturati dallo sguardo annebbiato del paladino rosso, erano famigliari. 

«Mi soffochi» biascicò Keith, impotente e allo stremo. «Hunk, lasciami.» 

Lasciarlo andare non fu del tutto una buona idea. Barcollò, ma le stesse mani che lo avevano tirato in piedi tornarono a sorreggerlo. Furono la prima cosa bizzarra che Keith notò. Le braccia di Hunk erano del solito colorito bruno, ma c’erano delle cicatrici ad attraversarle, molte, davvero brutte, lì dove le maniche finivano e prima che iniziassero i guanti. Non ricordava di averle mai viste. 

«Cosa ti è successo?» domandò, alzando lo sguardo. E il respiro, di nuovo, gli morì dentro. Strinse le dita su quelle stesse braccia, ma non fu per reggersi.

Hunk era diverso. Molto diverso. Sempre lui ma… invecchiato. Era più grande. Più maturo. Le spalle erano larghe, l’addome compatto, i capelli più lunghi e c’era un accenno di barba che terminava in un pizzetto. 

Keith allontanò le mani di scatto e fece un passo indietro, nonostante muovere qualsiasi muscolo gli facesse male. 

La domanda chi sei nacque spontanea e altrettanto spontaneamente morì in gola. Con un movimento rapido si tastò la parte bassa della schiena e trovò la confortante presenza del proprio pugnale nella fodera. Le dita si strinsero intorno all’impugnatura. 

«Ehi, calma Keith. Sono io.» 

Hunk alzò i palmi in maniera inoffensiva e sorrise indulgente, ma Keith continuò a non sentirsi pronto a credergli. Nulla gli dava sentore di pericolo, se non il fatto stesso che non fosse l’Hunk che conosceva. L’Hunk che dall’interfono aveva appena chiamato la squadra a rapporto per la cena, fermandolo dall’uscire di nuovo in ricognizione. 

Keith fece un ulteriore passo indietro, ampliando la propria visuale, nonostante i contorni apparissero ancora sfocati.

La sala era famigliare. Era una di quelle del Castello dei Leoni, anche se appariva spenta e usurata. Le luci che la illuminavano non facevano parte dell’impianto originale, ma erano fissata alle pareti e diversi cavi correvano ovunque, attaccati anche a macchinari che non aveva mai visto e che non sembravano tecnologia alteana.

La sensazione di essere completamente fuori posto fu più prepotente. Non sapeva come descriverla, ma non riusciva a liberarsi dall’idea che fosse tutto sbagliato. 

«Ehi, Keith, ascolta. Ti sembrerà strano ma va tutto bene. Non proprio alla grande, ma sei arrivato qui intero. Con tutti gli arti! E dalle scansioni pare che tu non abbia lesioni interne, il che è un grande wow per noi. E per te, ovvio, perché, sì appunto, sei intero.» 

«Che diavolo stai dicendo?» sbottò Keith e non si preoccupò di suonare brusco, né che fosse più un’accusa che una domanda, e neanche di aver estratto il pugnale. 

Persino la reazione di Hunk fu famigliare; il trasalire, stringendosi nelle spalle, ancora con i palmi alti. E poi ci fu uno sbuffo impaziente alle spalle del paladino giallo, il rumore di qualcosa posato poco delicatamente sul pavimento e l’apparire di Pidge dalle spalle di Hunk.

Braccia incrociate e sguardo contrito. Una coda alta di capelli disordinati, una silhouette slanciata, con delle curve di cui Keith non aveva mai ipotizzato l’esistenza, e una cicatrice che attraversava l’occhio destro. Come se non fosse stato abbastanza, si rese conto che la pupilla conservava di umano solo l’apparenza.  

«Facciamola breve» sbottò Pidge, regalando al paladino rosso uno sguardo significativo da capo a piedi, mentre la sua protesi oculare sembrava registrare dati su dati. «Hai appena fatto un viaggio nel tempo. Il primo viaggio nel tempo in assoluto. È probabile che vomiterai qualsiasi cosa mangerai nelle prossime ventiquattro ore. Ti faremo altri esami per constatare il livello delle radiazioni, anche se il fatto che tu sia intero e che non mostri segni di organi spappolati è già un ottimo traguardo.» 

«Sei un mostro di insensibilità» la ammonì Hunk con un sospiro, mani sui fianchi, e lo stesso tono che avrebbe potuto usare per dire che capodanno capitava di Sabato e Lunedì già si tornava a lavorare. 

La ragazza fece spallucce.

«Diamoci una mossa. Facciamo questi test e spegniamo tutto prima che qualcuno venga a ficcanasare» disse voltandosi e tornando ai suoi terminali, scavalcando la moltitudine di cavi che correvano come radici per tutta la stanza. 

«Rettifico, sei tremenda, sul serio. Perché “ficcanasare”? Siamo tutti d’accordo, no? Oh, aspetta, intendi i bambini?»

«Ah-ah, sì, esatto, i bambini» borbottò Pidge con un gesto vago, il volto illuminato dalla schermata su cui sfrecciavano stringhe di codice.

Keith continuò a non capire nulla, anche se la presa sul pugnale si fece più fiacca.

Viaggio nel tempo. La frase gli rimbombò nei timpani, ma senza riuscire a fare breccia in un pensiero concreto. 

Non era semplicemente possibile. Aveva appena litigato con Lance, e neanche un’ora prima aveva discusso con Coran, Allura, Hunk e Pidge - quelli veri - sulla necessità di esplorare il relitto di una nave galra in cerca di indizi su dove potesse essere finito Shiro dopo l’ultima battaglia contro Zarkon.

Poteva ancora sentire Lance borbottare nelle proprie orecchie, ne aveva quasi l’eco in testa. 

Si diede un’altra occhiata febbrile intorno. 

Non era nell’hangar di Red, ma era il Castello, non aveva dubbi. Era diverso, come Hunk e Pidge, ma il design lo stesso. Il pavimento aveva delle crepe e zone aggiustate, le pareti non più immacolate ma come se fossero passati degli anni e nessuno se ne fosse preso cura.  

«… metti via il pugnale, dai. Non mi piace parlarti mentre hai quel coso in mano.» La voce di Hunk arrivò vicina e Keith alzò l’arma di scatto.

«Stai indietro!» Non intendeva essere così brusco, perché la familiarità gli diceva che era Hunk, ma la tachicardia non accennava a smorzarsi. 

L’altro paladino si fece indietro con un verso sorpreso, ancora sulla difensiva. 

«Hunk, usa le maniere forti e stendilo» mugugnò Pidge, continuando a trafficare con i computer. 

«Cosa? No! È sottoshock. Io sarei sottoshock dopo un viaggio simile. E tu non sei d’aiuto.»

«Come ti pare, ma ricordati che è Keith. Puoi anche non essere gentile.»

«Non è quel Keith. Non ancora. Credo. Da che linea tempor- Ehi! Keith fermo!»

Hunk alla fine ricorse alle maniere forti per impedire al paladino rosso di fiondarsi fuori dalla stanza. Con una presa molto più forte di quella che ricordasse, Keith si ritrovò di nuovo al centro della stanza, con un nuovo moto di nausea a indebolirlo mentre la rabbia per essere sballottolato a quel modo gli intimava di reagire. 

«Senti Hunk, facciamola finita e legalo. Non abbiamo tempo per le sue lagne.»

«Voglio che si senta a suo agio! Se riuscissimo a calmarlo sarebbe più semplice spiegargli tutto! Ma così non-»

«E da dove vorresti iniziare? Dall’incidente di Silnova o dalla battaglia di Xarfen? No aspetta, ci sono! Digli direttamente di Nova Marmora.»

«Pidge! Ma perché sei così? Lui non è Keith!» ma con uno sbuffo, e senza accorgersi di tenere ancora stretto il paladino rosso, Hunk si voltò verso di lui, abbozzando una smorfia che voleva essere un sorriso rassicurante. «Senza offesa, sei Keith. Di prima, intendo. Passato, presente… ci si confonde un po’!» ridacchiò, ma senza allegria. 

Keith era pallido per il malessere e per quei botta e risposta con cui la storia del viaggio nel tempo si stava concretizzando. Stava tentando di sottrarsi dalla manona di Hunk, ma lo sforzo gli faceva girare la testa. 

«Mi serve che stia fermo» era tornata a insistere Pidge, col tic-tic dei tasti premuti che risuonava fastidioso. 

«Se solo provassi a essere più gentile!»

«Non sarò gentile, amichevole né buona con lui! Mettitelo in testa!»

«Ma che stai dicendo? Lo abbiamo portato qui per farci aiutare!» 

Ma la più giovane degli Holt non replicò, trincerandosi in un silenzio più pesante di qualsiasi altra risposta malevola. Un mutismo che aiutò Hunk a interpretare quel suo essere indisposta. 

«Non ci credo! Lo hai fatto… lo hai fatto per l’altro motivo! Avevi giurato!» tuonò il maggiore e Keith rabbrividì nella propria pelle. Questa volta, chi aveva di fronte, non era per nulla l’Hunk suo compagno. «Sei la solita egoista!»

Le dita di Pidge si arrestarono, tese e rigide sopra la tastiera. Il suo sguardo lampeggiava furia, come il leggero tremito del suo corpo. Parlò, ma sembrò urlare. «Ho giurato prima che Matt finisse in una medi-pod per colpa di quello stronzo! Poteva finire di distruggere questa merda di universo, non me ne frega un cazzo, ma non doveva toccare- Matt-» faceva fatica a respirare dalla rabbia e il suo volto era così stravolto che Keith non riuscì a riconoscerla. «Quindi sì, l’ho portato qui per il primo motivo per cui abbiamo costruito tutto questo!» e con uno scatto delle braccia indicò l’intera sala, che alla vista vacillante del paladino rosso acquisiva i connotati di un laboratorio a tutti gli effetti. «Scusa se ho assecondato il piano b e non me ne frega niente se fuori di qui lo ammazzeranno. Anzi, sai cosa? Spero che sopravviva abbastanza per soffrire come noi in questi anni!»  

Hunk era sconvolto e non si accorse di come Keith stesse scivolando a terra, avvinto dai postumi del viaggio temporale e dalla cattiveria nelle affermazioni di Pidge. Non aveva la forza di ribattere o chiedere spiegazioni. Di difendersi da qualsiasi accusa gli stessero muovendo. Voleva solo ritrovare Shiro. Aveva bisogno di un viso amico. 

E fu la sua voce che zittì Hunk e Pidge. La voce di Shiro, dalla soglia della stanza, turbata e sconcertata, roca. 

«Che cosa avete fatto...» e non fu una domanda. 

Ma agli occhi stanchi di Keith, per il suo cuore provato, anche quello Shiro… non era il suo Shiro. 


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Cow-t, quinta settimana, M1

Prompt: Colpo di scena

Numero Parole: 443

Rating: SAFE
Warning: Incest






L'Agenzia di Detective aveva i propri segreti, così come ogni membro di questa celava i propri. Si trattava quasi sempre di qualcosa sul passato, un macabro pezzo di vita che era meglio tenere chiuso dietro una porta coperta da una tenda. Non si sa mai cosa potrebbe venirne fuori, quali scheletri, fantasmi o demoni che rischiavano poi di infettare quel che di buono, ognuno di loro, tentava di fare del proprio presente.

Tuttavia non sempre erano segreti legati a morte e sofferenza. Erano più qualcosa di socialmente discutibile, qualcosa che i più non avrebbero capito, che altri avrebbero condannato perché "non era accettabile". Neanche uccidere lo era, eppure c'era chi riusciva a provare più ribrezzo per loro e quello che erano, invece che per un assassino con le mani ancora calde di sangue. 

Alla fine, non facevano nulla di male. Era qualcosa di loro su cui terzi non avrebbero dovuto mettere bocca. Giudicare. Probabilmente la parola più disgustosa che fosse mai stata inventata. 

Qualcuno aveva detto vivi e lascia vivere, ma sembrava che gli esseri umani non fossero capaci. 

"Oniii-chan! Mi stai ignorando!" 

"Naomi fammi finire questo verb-" 

"No! Hai lavorato tuttoooo il giorno!" 

"Lo so, ma-" 

"Ma niente!" 

E Naomi si avventò sul fratello, saltandogli letteralmente in braccio. Se fosse finita lì non sarebbe stato nulla di diverso dal solito, anzi, forse più tranquillo rispetto al normale. Tuttavia Naomi troppo spesso non riusciva più a tollerare quella situazione. Come in quel caso, quando non si fermò dallo stringere il fratello, ma si impossessò anche della sua bocca con un bacio che gli tolse il fiato. 

"Na- Naomi!" squittì Jun'ichiro, allontanandola e guardandosi intorno. Non c'era nessuno per fortuna in quel momento lì in Agenzia, così poté almeno ricacciare il cuore nella giusta posizione, dopo lo sbalzo in gola che aveva avuto. "N-non qui! Lo sai!" 

"Uffa..." sbuffò la sorella, cingendolo con le cosce. "Vorrei dirglielo... non penso che saranno come gli altri." 

Tanizaki si scurì in volto. "Vorrei che non lo fossero..." ammise con amarezza. 

Naomi stava giocherellando con qualcosa sotto la maglietta del fratello, qualcosa che alla fine tirò fuori, per rimirarla. 

Era un anello, appeso a una catenina così sottile da essere quasi invisibile. All'interno c'era il nome di Naomi e una data. Anche lei aveva lo stesso anello, al sicuro contro il proprio petto. Una promessa che si erano fatti anni prima, anche ufficializzata, seppur con qualche sotterfugio. Alla fine erano fratelli, cercare un prete che li sposasse non era stato facile, ma non impossibile. E un giorno sarebbe stato bello poter raccontare quella storia ai loro colleghi dell'Agenzia. Per una volta, Naomi era fiduciosa che sarebbero stati accettati.


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Cow-t, quinta settimana, M1

Prompt: Colpo di scena

Numero Parole: 515

Rating: SAFE



Sfuggire a Kunikida quella mattina era stato estenuante. Non c'era verso di trovare un posto in cui rilassarsi senza ritrovarsi il collega a urlargli nelle orecchie di tornare a lavoro. Che poi cosa si agitava tanto, Dazai ancora se lo chiedeva. C'erano i soliti verbali da compilare, quelle cose che avrebbe potuto fare più tardi, non c'era mica fretta. Doveva ancora finire quelli della settimana prima, due o tre in più cosa cambiava. Solo che Kunikida lo aveva tartassato, prima sul divano, poi quando si era chiuso in bagno, per finire durante la pausa pranzo giù in caffetteria. Era stato così rumorosa con i suoi latrati - "Dazai torna al lavoro!" - che aveva ancora l'eco nelle orecchie. 

Così, alla fine, Dazai era sgattaiolato fuori dall'Agenzia per andarsi a fare una passeggiata. Se non poteva riposare in tranquillità, tanto valeva fare quattro passi senza nessuno che gli urlasse contro. 

Era una giornata tutto sommato tiepida di metà primavera. Quasi piacevole, con un paio di gradi in più, ma Dazai non se ne lamentava. Era un giorno qualsiasi di un momento di pace senza lotte e senza intrighi da sventare. Uno di quei giorni in cui iniziare a fare progetti per il futuro, o, come aveva intenzione lui, di godersi un po' di riposo. Quasi l'inizio di un film noioso, ma che intratteneva. 

Se non fosse stato per il cuore che quasi gli si fermò nel petto quando i suoi occhi si posarono su un passante casuale. Un passante immerso a leggere un libro. Un passante che Dazai sapeva morto. 

"Odasaku!" gridò senza neanche riconoscere la propria voce. 

Non successe nulla. Nessuno si voltò, men che meno quell'uomo che in tutto e per tutto era identico allo stesso amico morente che Dazai aveva stretto tra le braccia quattro anni prima. 

"Odasaku!" riprovò di nuovo, iniziando a muoversi in mezzo alla folla per riuscire a raggiungerlo. A farsi sentire. "ODASAKU!" 

Dazai non si preoccupò di essere maleducato, di spintonare e neanche di chiedere scusa. Continuò a seguire quella testa rossa, quel profilo così reali. Ma non lo raggiunse. O meglio, sì. Lo sfiorò. Per un attimo le sue dita toccarono la stoffa della sua giacca, del suo braccio, ne sentirono e ne registrarono la consistenza. Odasaku sembrò anche accorgersene, girandosi, ma com'era apparso dal nulla, così sparì e Dazai rimase a fissare un punto vuoto in mezzo alla calca della strada. 



Molto tempo dopo, quando il mondo scatenò una guerra per conquistare il Libro dalle pagine bianche capace di realizzare i desideri di chi ci scriveva sopra, Dazai seppe che esistevano altre realtà oltre a quella in cui viveva. Altre realtà dove le scelte erano preziose e avevano il valore di diamanti, dove chi da loro seminava le strade di morte, dall'altra parte salvava vite. Esistevano tante realtà, ma in ognuna Odasaku era morto. Tranne una. 

Un'unica realtà dove era vivo, aveva realizzato il proprio sogno di scrittore e lavorava nell'Agenzia di Detective. 

Una realtà che, per qualche minuto, per uno scherzo del destino, si era fusa con la sua, permettendo a Dazai di sfiorarlo di nuovo.


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Cow-t, quinta settimana, M1

Prompt: Colpo di scena

Numero Parole: 310

Rating: SAFE



Erano alle solite. Non si riusciva ad avere un momento di pace o per parlare civilmente quando si trattava di Akutagawa. Si finiva sempre alle mani, o peggio, ad artigli e fendenti assassini del suo cappotto nero. 

Atsushi evitò per un soffio di perdere il ciuffo a lato del viso e ringhiò con più ferocia. 

"Insomma, si può sapere perché ce l'hai con me!? Ci siamo incontrati per caso! Devo finire una commissione per D..." si morse la lingua, ricordandosi che nominare "Dazai" con Akutagawa significava renderlo ancora più feroce e insofferente. "Per l'Agenzia!" urlò all'ultimo, scartando di lato per evitare di rimetterci qualche arto, esperienza già provata e che non intendeva ripetere. "Che cos'hai questa volta!?" 

"Mi irrita vederti" grugnì Akutagawa, che camminava verso di lui con passo calmo, mani in tasca, nonostante fosse arrossato sulle gote. Anche se stava mirando ad Atsushi, stava solo facendo in modo che non scappasse, chiudendolo sempre di più nell'angolo di quel vicolo cieco. 

Erano successe cose. Piccole realizzazioni che Akutagawa aveva ignorato fino a quel momento. E non aveva trovato altro modo per esprimere sia la frustrazione sia quell'improvvisa e imprevedibile rivelazione. Incontrare poi Atsushi per strada aveva solo acceso la scintilla. 

"Be' puoi sempre andartene da un'altra parte ed evitarmi" stava dicendo Atsushi, ormai chiuso in un angolo, con il broncio, le braccia da tigre impegnate a tenere buono Rashoumon. 

Akutagawa era davanti a lui, troppo vicino, non che non fosse già successo, ma di solito a quel punto si tiravano un cazzotto a testa e la storia finiva lì.

Il fatto è che, probabilmente, da quell'incontro una storia sarebbe nata. Un altro tipo di storia

Che iniziò con Akutagawa che, invece di uccidere Atsushi, lo baciò. Lo baciò anche dovendo forzare Rashoumon il più possibile per non farsi artigliare. 

Realizzare di essere innamorato del tuo peggior nemico era uno schifo.


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Cow-t, quinta settimana, M1

Prompt: Colpo di scena

Numero Parole: 207

Rating: SAFE


Akutagawa aveva imparato quando era molto piccolo che sopravvivere è una lotta. Non importava che fosse dormire in una baracca improvvisata o andare in missione per la Mafia. Esistere era sopravvivere, e quindi lottare costantemente per la propria vita. Nella sua poi, il pericolo era sempre stato dietro l'angolo. Additato come moccioso orfano per strada, e poi dileggiato da adulti che non si sarebbero mai sentiti impietositi da un ragazzino capace di mordere, per difendere sé o i propri fratelli di sciagura. 

Entrato nella Mafia le cose non erano cambiate più di tanto. Sempre di lottare si parlava, sempre sopravvivere era ciò che accadeva di giorno in giorno. 

Trovarsi però in terra senza forze, col corpo che non rispondeva e in balia del nemico era essere deboli. Dazai non glielo avrebbe mai perdonato e lo avrebbe lasciato a morire lì, perché così era inutile. 

Quello che Akutagawa non si aspettava era una mano fresca sulla fronte. Una mano fresca e gentile. 

"La febbre si è abbassata Gin, tuo fratello sta meglio. Puoi smettere di piangere." 

Era la voce di Dazai, realizzò Ryuu ma non riuscì né a parlare né a muoversi. Era infagottato in strati di coperte e, per una volta in vita sua, si sentì protetto.


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Cow-t, quinta settimana, M1

Prompt: Colpo di scena

Numero Parole: 273

Rating: SAFE


L'ultima persona a cui chiedere di sistemare le carte di Dazai poteva essere solo che Chuuya. Non solo aveva avuto la splendida sorpresa di sapere che il suo partner era sparito, piantando in asso la Mafia dal giorno alla notte, ma che mentre era fuori dal paese per una missione si era scatenato l'inferno, con l'organizzazione che era stata attaccata da un'altra straniera di nome Mimic. Il risultato su grandi numeri per fortuna non aveva neanche sfiorato l'apocalisse che era stato il Conflitto della Testa del Drago, ma di contro avevano perso degli agenti di basso rango, era venuto fuori che una spia dell'intelligence era un uomo sotto coperta del governo e per finire Dazai aveva lasciato il posto da dirigente - secondo alcune voci dopo una discussione con il Boss.

E ora Chuuya si ritrovava nell'ex ufficio del suo ex partner a dare un senso alle stupide scartoffie lasciate in giro, mentre dentro sentiva solo la rabbia, la frustrazione e la delusione per quel cretino. Non avevano mai avuto un rapporto idilliaco anche, in tutta onesta, si odiavano cordialmente. Ma sapere che se ne fosse andato così, senza un perché, lo faceva incazzare, facendolo sentire importante pari a zero. 

L'enigmatico Dazai, il più giovane dirigente della Mafia, figurarsi se pensava ad altri. 

Eppure, togliendo mal mano i fogli e impilandoli, Chuuya trovò una busta da lettera indirizzata a lui, con quella che era la calligrafia di Dazai. La tastò un attimo, certo che potesse nascondere una bomba formato carta velina, ma sembrò esserci in effetti solo un foglio di carta. 

Quando lo aprì, lesse l'ultima cosa che mai si sarebbe aspettato. 

Arrivederci.


April 2025

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